Francesco Guicciardini - Opera Omnia >>  Storia d'Italia




 

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LIBRO DICIANNOVESIMO


I

Il Lautrech decide non l'espugnazione ma l'assedio a Napoli. Vittoria navale di Filippino Doria sugli imperiali. Condizioni degli assediati; inopportuna ostinazione del Lautrech nel non ascoltare i consigli altrui. Nuove azioni di guerra; progressi dei francesi in Calabria. Difficoltà per un piú stretto assedio di Napoli. Considerazioni dell'autore sull'ostinazione del Lautrech. Alcune azioni di guerra sotto Napoli. Mutamento di fortuna per i francesi. Vicende della guerra in Calabria ed in Puglia. Successi di Antonio de Leva in Lombardia.

Alloggiato Lautrech con l'esercito appresso alle mura di Napoli, fu la prima consultazione se era da tentare di sforzare con lo impeto dell'artiglierie e con la virtú degli uomini quella città; come molti, confortando che a questo effetto si augumentasse il numero de' fanti, consigliavano. Allegavano questi molte difficoltà per le quali non si poteva sperare di starvi intorno lungamente: la difficoltà delle vettovaglie, perché gli inimici, copiosissimi di cavalli leggieri e pronti a esercitargli, rompevano tutte le strade; ed essere incerta la speranza che Napoli avesse ad arrendersi per la fame, perché non essendo bastanti le galee del Doria a tenere serrato il porto né venendo le galee de' viniziani, benché promesse ciascuno giorno, erano entrate da Gaeta in Napoli, che pativa di macinato, quattro galee cariche di farine, e ve ne entrava ciascuno dí degli altri legni; vedersi fredde le provisioni de' viniziani, i quali, per conto de' ventiduemila ducati che gli pagavano ciascuno mese, erano già debitori di sessantamila ducati; essergli somministrati parcamente i danari di Francia; ed empiersi già l'esercito di infermità, le quali però non procedevano tanto dalla gravezza ordinaria di quella aria, che suole cominciare a nuocere alla fine della state, quanto perché i tempi erano andati molto piovosi, alloggiando anche molti dello esercito in campagna. Nondimeno Lautrech, considerando che in tanta moltitudine e virtú di difensori, e per la fortificazione del monte il quale si poteva soccorrere, l'espugnare o il monte o la città era cosa molto difficile, né volendo forse spendere con piccolissima speranza i danari, per timore che poi per sostentare le spese ordinarie non gli mancassino, deliberò di attendere non alla espugnazione ma allo assedio; sperando che innanzi passasse molto tempo avessino a mancare agli inimici o le vettovaglie o [i] danari. Indirizzò adunque e l'animo e tutte le provisioni all'assedio lento, intento a impedire che per terra non vi entrassino vettovaglie, e a sollecitare la venuta delle galee viniziane per privargli del tutto delle vettovaglie marittime. Quivi, mutato consiglio, permesse si facessino le scaramuccie, perché i soldati stando in ozio non perdessino d'animo; e però se ne faceva spesso, e con grande laude delle bande nere; le quali, eccellenti per la disciplina di Giovanni de' Medici in questa specie di combattere, non avevano insino allora dimostrato quel che in giornata ordinaria e in battaglia ferma e stabile valessino in campagna. Arrivorno in questo tempo allo esercito ottanta uomini d'arme del marchese di Mantova e cento del duca di Ferrara; il quale duca benché fusse stato ricevuto in ampia protezione del re di Francia e de' viniziani, nondimeno aveva tardato quanto aveva potuto a fargli muovere, per regolare le sue deliberazioni con quello che si potesse congetturare dello evento futuro della guerra. In questo stato delle cose conceperono gl'imperiali speranza di rompere Filippino Doria, che era con le galee nel golfo di Salerno; non facendo tanto fondamento in su il numero e in su la bontà de' legni loro quanto nella virtú de' combattitori, perché empierono sei galee quattro fuste e due brigantini di mille archibusieri spagnuoli, de' piú valorosi e de' piú lodati dello esercito; co' quali vi entrorono don Ugo viceré e quasi tutti i capitani e uomini d'autorità. A questa armata, governata per consiglio del Gobbo, nelle cose marittime veterano e famoso capitano, aggiunseno molte barche di pescatori, per spaventare gli inimici da lontano col prospetto di maggiore numero di legni; i quali, partiti tutti da Pausilipo, toccorono all'isola di Capri; dove don Ugo, con grandissimo pregiudizio di questo assalto, perdé tempo a udire uno romito spagnuolo, che concionando accendeva gli animi loro a combattere come era degno della gloria acquistata con tante vittorie da quella nazione. Di quivi, lasciato a mano sinistra il Cavo della Minerva, entrati in alto mare, mandorno innanzi due galee, con commissione che accostatesi agli inimici simulassino poi di fuggire, per tirargli in alto mare a combattere. Ma Filippino Doria, avendo il dí dinanzi per esploratori fidati presentito il consiglio degli inimici, aveva, con grandissima celerità, ricercato Lautrech che gli mandasse subito trecento archibusieri; i quali, guidati da Croch, erano arrivati poco innanzi che si scoprisse l'armata degli inimici. La quale come si scoperse da lontano, Filippino, ancora che con grande animo avesse fatte tutte le preparazioni necessarie per combattere, nondimeno commosso dal numero grande de' legni che si scoprivano, stette molto sospeso; ma in breve spazio di tempo lo liberò da questa dubitazione il vedere, quando gli inimici si approssimavano, non vi essere altri legni da gabbia che sei. Perciò, con animo forte e come capitano peritissimo della guerra navale, fece allargare sotto specie di fuga tre galee dalle altre sue, acciò che girando assaltassino col vento prospero gli inimici per lato e da poppa, egli con cinque galee va incontro agli inimici, i quali dovevano scaricare la loro artiglieria per tôrre a lui col fumo la mira e la veduta. Ma Filippino dette fuoco a uno grandissimo basalischio della sua galea, il quale percotendo nella galea capitana, in sulla quale era don Ugo, ammazzò al primo colpo quaranta uomini, tra' quali il maestro della galea e molti uffiziali; e scaricate poi altre artiglierie ne ammazzò e ferí molti. Da altro canto l'artiglierie scaricate dalla galea di don Ugo ammazzorono nella galea di Filippino il maestro, ferirono il padrone; ma i genovesi, esperimentati a queste battaglie, schifavano meglio il pericolo, combattendo chinati e cauti fra gli intervalli de' palvesi. Cosí, mentre combattono con grandissima ferocia e spavento le due galee, tre altre galee degli imperiali strignevano due genovesi, ed erano già molto superiori; ma le tre prime genovesi, che simulando di fuggire erano andate in alto mare, ritornate sopra gli inimici percosseno per lato la galea capitana: delle quali la galea che era chiamata la Nettunna svelse il suo albero, che gli fece grande danno. Quivi don Ugo, ferito nel braccio e coperto, mentre confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi gittati dagli alberi delle galee inimiche, combattendo fu morto; quivi la capitana di Filippino e la Mora spacciorno la capitana di don Ugo, l'altre due con l'artiglierie affondorono la Gobba, dove morí il Fieramosca; intratanto l'altre galee di Filippino avevano ricuperato due delle loro oppressate dalle spagnuole, e prese le loro fuste; due sole delle spagnuole, veduto la vittoria essere degli inimici, male trattate, con fatica fuggirono. Nel quale tempo il marchese del Guasto e Ascanio, affogata quasi e ardente la loro galea, rotti i remi, morti quasi tutti ed essi feriti, furono fatti prigioni, salvandogli dalla morte lo splendore dell'armi indorate. Restorno presi venti condottieri, molti padroni delle galee. E giovò assai a Filippino il liberare i forzati, la piú parte turchi e mori, che combatterno eccellentemente. I prigioni furno mandati da Filippino con tre galee al Doria; e una delle due galee, che si era salvata, passò pochi dí poi da' franzesi, perché il padrone, che era uno marchese Doria regnicola, fu imputato dagli spagnuoli di mancamento nella battaglia. Ma scrisse l'oratore fiorentino a Firenze, conformandosi nelle altre cose, che la battaglia durò da ore ventidue insino a due ore di notte, e che gli imperiali oltre alle sei galee avevano undici vele minori cariche di soldati; che da principio furono prese due galee franzesi, con morte quasi di tutti; ma che l'artiglieria, della quale i franzesi erano superiori, messe in fondo due galee, due altre con alcune fuste furono prese, e morta o ferita la piú parte delle ciurme e de' soldati; e che in una non ne restorono non feriti piú che tre; l'altre due, dove era Curradino co' tedeschi, molto danneggiate fuggirono a Napoli. Don Ugo fu morto da due archibusate e gittato in mare, e cosí il Fieramosca. Restorono prigioni il marchese del Guasto, Ascanio Colonna, il principe di Salerno, Santa Croce, Cammillo Colonna, il Gobbo, Serone e molti altri capitani e gentiluomini. Morirono piú di mille fanti, e de' franzesi pochi che non restassino o morti o feriti.

Dette questa vittoria speranza grande a' franzesi del successo di tutta la impresa, e forse maggiore che non sarebbe stato di bisogno, perché fece in qualche parte Lautrech piú lento alle provisioni; ma empié gli imperiali di molto terrore, dubitando del mancamento delle vettovaglie, poi che restavano al tutto spogliati dello imperio del mare, e per terra stretti da molte parti, massime dopo la perdita di Pozzuolo, perché per quella strada si conduceva a Napoli copia grande di vettovaglie: e già in Napoli era carestia grande di farina e di carne e piccola quantità di vino: però, il dí seguente alla rotta, cacciorono di Napoli numero grande di bocche inutili; e posto ordine alla distribuzione delle vettovaglie, si sforzavano che i fanti tedeschi patissino manco che gli altri soldati. Dalle quali cose nutrendosi la speranza di Lautrech, si accrebbe molto piú per uno brigantino intercetto, il settimo dí di maggio, con lettere de' capitani a Cesare: per le quali significavano d'avere perduto il fiore dell'esercito; non essere in Napoli grano per uno mese e mezzo, ma fare le farine a forza di braccia; cominciare a fare qualche tumulto i tedeschi, né vi essere danari da pagargli; né avere piú le cose rimedio alcuno se non veniva presta provisione di vettovaglie, di danari e di soccorso per mare e per terra: aggiugnevasi l'essere cominciata in Napoli la peste, contagiosa molto dove sono soldati tedeschi, perché non si astengono da conversare con gli infetti né da maneggiare le cose loro. Pativa, da altra parte, l'esercito di acque perché da Poggioreale alla fronte dell'esercito non sono altro che cisterne, delle quali si serviva l'esercito; augumentavanvisi le infermità; e gli inimici, essendo molto superiori di cavalli leggieri, uscendo continuamente fuora, massime per la via che va a Somma; non solo conducevano dentro copia di carne e di vini ma spesso interrompevano le vettovaglie che venivano all'esercito franzese, il quale per questa cagione qualche volta ne pativa: né si facevano altre fazioni che scaramuccie. Ricordavangli molti che conducesse cavalli leggieri per potersi opporre a quegli degli inimici; il che recusava di fare, anzi permetteva che la maggiore parte de' cavalli franzesi si stesse distesa in Capua in Aversa e in Nola, il che agli inimici augumentava la facoltà di fare gli effetti sopradetti. Altri consigliavano che, essendo per le infermità diminuita la fanteria dell'esercito, conducesse in supplemento di quello (come anche, perché fusse piú potente, era stato desiderato insino da principio) sette o ottomila fanti; e questo anche, avendo già cominciato a denegarlo, recusava di fare, allegando mancargli danari; benché a quel tempo n'avesse di Francia comoda provisione, avesse riscossa l'entrata della dogana delle pecore di Puglia, riscotesse l'entrate delle terre prese, e i signori del regno che gli erano appresso fussino pronti a prestargli non piccola quantità di danari.

Scaramucciavasi ogni dí dalle bande nere, alloggiate nella fronte dell'esercito; le quali, traportate da troppo animo, si accostavano tanto alle mura di Napoli che da quelle erano offesi con gli archibusi; e non avendo nel ritirarsi cavalli alle spalle, erano ammazzati da' cavalli degli inimici: donde conoscendosi il disavvantaggio grande di fare le scaramuccie senza cavalli sotto alle mura di Napoli, cominciorono a non si fare cosí frequentemente. Arrendessi a Lautrech dopo la vittoria, Castello a mare di Stabbia ma non la fortezza; Gaeta si teneva per Cesare, nella quale era il cardinale Colonna con novecento fanti italiani e con i secento fanti che erano venuti di Spagna: benché il cardinale Colonna dimandasse a Lautrech salvocondotto per andare a Roma, il quale non gli concedette. Erasi similmente arrenduto San Germano; e avendo le genti che erano in Gaeta recuperato Fondi e il paese circostante, Lautrech vi mandò don Ferrando Gaietano, figliuolo del duca di Traietto, e il principe di Melfi (nuovamente, per avere i capitani imperiali tenuto poco conto di liberarlo, concordato co' franzesi); i quali facilmente di nuovo l'occuporono. Faceva e in Calavria Simone Romano progresso grande, per la prontezza de' popoli a riconoscere il nome franzese: come arebbe anche fatto Napoli, se non fusse stata la tardità di Lautrech; la quale almanco dette tempo a mettervi le vettovaglie delle terre circostanti.

Ma non bastavano queste cose a ottenere la vittoria della guerra, la quale dependeva totalmente o dallo acquisto o dalla difesa di Napoli, se o non si espugnava quella città o non se gli impedivano le vettovaglie con maggiore diligenza, per terra e per mare. Però, intento principalmente allo assedio, né disperando anche in tutto di potere prendere Napoli per forza, poiché erano morti tanti fanti spagnuoli nella battaglia navale, sollecitava la venuta delle armate franzese e viniziana, per privare del tutto quella città delle vettovaglie marittime. Mosse anche la fronte dello esercito piú innanzi, in su uno poggio piú vicino a Napoli e al monte di San Martino, dove fu fatta dalle bande nere una trincea, non solo per muovere da quel poggio una trincea la quale, distendendosi insino alla marina e avendo nella estremità sua a canto al mare uno bastione, chiudesse la strada di Somma, ma per tentare, come prima fussino venute l'armate, di pigliare per forza il monte di Santo Martino, fatta prima un'altra trincea tra la città e il monte di San Martino, acciò che non potessino soccorrere l'uno all'altro; e poi in uno tempo medesimo assaltare Napoli con l'armate dalla parte del mare, e per terra, battendo dalla fronte dello alloggiamento di dentro, e di fuora assaltarla con una parte dell'esercito, e con l'altra assaltare il monte; acciò che gli inimici, divise per necessità le forze in tanti luoghi, potessino piú facilmente essere superati da qualche banda; non abbandonato però, per l'essersi allungata la fronte dell'alloggiamento, Poggio Reale, perché gli inimici recuperandolo non gli privassino della comodità delle acque, ma ristrignendo per la coda l'alloggiamento. A' quali consigli bene considerati si opponevano molte difficoltà. Perché né le trincee lunghe piú di uno miglio insino al mare si potevano, per mancamento di guastatori e per le infermità de' soldati, lavorare con celerità; né venivano, come per l'assedio e per l'espugnazione sarebbe stato necessario, l'armate: perché Andrea Doria con le galee che erano a Genova non si moveva, dell'armata preparata a Marsilia non si intendeva cosa alcuna, e la viniziana intenta piú allo interesse proprio che al beneficio comune, anzi piú tosto agli interessi minori e accessori che agli interessi principali, attendeva alla espedizione di Brindisi e di Otranto. Delle quali città Otranto aveva convenuto di arrendersi se fra sedici dí non era soccorso, e Brindisi benché per accordo avesse ammesso i viniziani, si tenevano ancora le fortezze in nome di Cesare: quella di mare, forte in modo da non sperare di espugnarla; quella grande di dentro alla città, avendo perduto due rocchette, pareva non potesse piú resistere.

Ma veramente non è opera senza mercede il considerare che disordini partorisca la ostinazione di quegli che sono proposti alle cose grandi. Lautrech, senza dubbio primo capitano del regno di Francia, esperimentato lungamente nelle guerre e di autorità grandissima appresso all'esercito, ma di natura altiero e imperioso, mentre che credendo a sé solo disprezza i consigli di tutti gli altri, mentre che non vuole udire niuno, mentre si reputa infamia che gli uomini si accorghino che non sempre si governi per giudicio proprio, omesse quelle provisioni le quali, usate, sarebbono state forse cagione della vittoria, disprezzate, ridussono la impresa, cominciata con tanta speranza, in ultima ruina.

Piantossi a' dodici di maggio l'artiglieria in su il poggio, e batteva uno torrione che danneggiava molto la campagna. Tiravasi anche spesso nella terra ma con poco frutto, e si scaramucciava qualche volta a Santo Antonio. A' sedici, l'artiglieria piantata a Capo di Monte tirava a certi torrioni tra la porta di San Gennaro e la Capuana, e impediva fare uno bastione cominciato da quegli di dentro; e Filippino, che era allo intorno, pigliava tutto dí navi che andavano con grano a Napoli: dove la piú parte viveva di grano cotto, e ne usciva ogni dí gente assai; e i tedeschi, ancora che patissino manco che gli altri, protestavano spesso per mancamento di pane e molto piú di vino e di carne, di che vi si pativa molto: pure, oltre all'altre arti, erano intrattenuti assai con lettere false di soccorso. E da altra banda, nello esercito crescevano ogni dí l'infermità, delle quali morivano molti. Lavoravasi a' diciannove alle trincee nuove, con le quali piantandosi due cannoni in su il bastione, come e' fusse fatto, si sarebbeno rovinati due mulini presso alla Maddalena guardati da due bandiere di tedeschi, che non si erano mai tentati, per avere facile il soccorso di Napoli. Intratanto si scaramucciava spesso a Santo Antonio.

Insino qui non procedevano se non felici le cose de' franzesi: ma cominciorono per cagioni occulte, a piegarsi alla declinazione. Perché Filippino Doria, per ordine avuto segretamente, come si conobbe poi, da Andrea Doria, si era ritirato con le galee intorno a Pozzuolo; donde in Napoli, dove erano restati pochi altri che soldati, entrava sempre qualche quantità di vettovaglia in su le barche: e se bene l'armata [de'] viniziani, acquistato Otranto, dava speranza a ogn'ora di venire a Napoli, nondimeno differivano perché erano in speranza di avere presto il castello grande di Brindisi. Crescevano anche a ogn'ora nello esercito le malattie; e le bande nere, dove prima alle fazioni si rappresentavano piú di tremila, ora, tra feriti ammalati e morti, appena arrivavano a duemila. A' ventidue gli spagnuoli assoltorono quegli di fuora che erano alla difesa delle trincee nuove, dove si lavorava con speranza di finirle fra sei o otto dí; ed essendovi Orazio Baglione con pochi compagni, in luogo pericoloso, fu ammazzato combattendo: morte piú presto degna di privato soldato che di capitano. Dal quale disordine gl'imperiali presa speranza di maggiore successo uscirno di nuovo fuora molto grossi: ma messosi il campo in arme e fattosi forte alle trincee, si ritirorno. Ritornò pure di nuovo Filippino, per molta instanza che gli fu fatta, nel golfo di Napoli. E a' ventisette non erano ancora finite le trincee cominciate per serrare la via di verso Somma; e gli spagnuoli ogni dí correvano e rompevano le strade, conducendo dentro quantità grande di carnaggi: a che i cavalli del campo gli facevano poco ostacolo, perché cavalcavano rarissime volte. E Lautrech, cominciando a desiderare supplemento di fanti ma non cedendo in tutto a' consigli degli altri, instava che di Francia gli fussino mandati per mare seimila fanti di qualunque nazione, perché per la carestia e infermità ne partivano molti del campo; e in tante difficoltà cominciava a essere solo a sperare la vittoria, fondandosi in su la fame: né aveva però fatto altro progresso, intorno alle mura di Napoli, che levare l'acqua a uno mulino di che quegli di dentro si servivano.

Procedeva in questo tempo in Calavria Simone Romano, con dumila fanti tra corsi e paesani. Al quale benché si fussino opposti... Sanseverino principe di bisignano e... figliuolo di Alarcone con mille cinquecento fanti del paese, nondimeno difficilmente lo sostenevano; donde il figliuolo di Alarcone si ritirò in Taranto, lasciato il principe in campagna: ma poco dipoi Simone Romano acquistò Cosenza per accordo; e dipoi, nella occupazione di una terra vicina, prese il principe di Stigliano e il marchese di Laino suo figliuolo con due altri suoi figliuoli. Ma in Puglia, quegli che tenevano Manfredonia in nome di Cesare scorrevano per tutto il paese, non resistendo loro i cavalli e i fanti de' viniziani, i quali erano andati all'acquisto di quelle terre. Né erano al tutto quiete le cose in terra di Roma; perché Sciarra Colonna avendo preso Paliano, non ostante fusse stato difeso in nome del pontefice per la figliuola di Vespasiano, lo recuperò l'abate di Farfa, facendo prigioni Sciarra e Prospero da Cavi: benché Sciarra, per opera di Luigi da Gonzaga, si fuggisse.

Ma mentre che intorno a Napoli si travaglia con queste difficoltà e con queste speranze, Antonio de Leva, presentendo che la città di Pavia, nella quale era Pietro da Longhena con quattrocento cavalli e mille fanti de' viniziani, e Anibale Pizinardo castellano di Cremona, con [trecento] fanti, il quale vi era andato per mantenere a divozione del duca il paese di là dal Po, molto negligentemente si guardava, una notte allo improviso, con le scale da tre bande, non essendo sentito da i soldati, la prese di assalto. Restò prigione Pietro da Longhena e uno figlio di Ianus Fregoso. Andò poi Antonio de Leva a Biagrassa, e quegli di dentro aspettati pochissimi tiri d'artiglierie si arrenderono; e volendo poi andare ad Arona, Federigo Buorromei si accordò seco, obligandosi a seguitare le parti di Cesare.



II

Arrivo di milizie tedesche in Italia. Assalti ed assedio di Lodi. Ritorno di quasi tutti i tedeschi in Germania; lentezza delle operazioni dei veneziani e dei francesi. Vane istanze dei collegati presso il pontefice perché si dichiari per loro. Brama del pontefice che sia restituito alla sua famiglia il potere in Firenze.

Nel quale tempo Brunsvich, partito da Trento, aveva, il decimo dí di maggio, passato l'Adice con l'esercito, nel quale erano diecimila fanti, seicento cavalli bene armati, e tra loro molti gentiluomini, e quattrocento moschetti, con le zatte, e ributtato dalla Chiusa era sceso in veronese: e ancora che, presentendosi molto innanzi la venuta sua, fusse stato trattato che San Polo andasse all'opposito, nondimeno, non si usando maggiore diligenza in questa che nelle altre provisioni, erano i tedeschi in Italia innanzi che San Polo fusse in ordine di muoversi; il quale di poi fu necessitato a soggiornare molti dí in Asti, per raccôrre le genti e per la difficoltà delle vettovaglie, delle quali era, per tutta Italia ma in Lombardia specialmente, grandissima carestia. Né si poteva alle cose comuni sperare maggiore o piú pronto soccorso dal senato viniziano, il quale, se bene avesse affermato che l'esercito suo uscirebbe in campagna con dodicimila fanti, nondimeno il duca di Urbino, entrato in Verona, non pensava ad altro che alla difesa delle terre piú importanti del loro stato. Però discesi i tedeschi in su il lago di Garda ottennono Peschiera per accordo; il medesimo, Rivolta e Lunata: in modo che, padroni quasi di tutto il lago, riscotevano in molti luoghi taglie di denari, abbruciando quegli che erano impotenti a riscuotersi. Stimolavagli che andassino verso Genova Antoniotto Adorno, venuto in quello esercito; ma non avendo denari e avendo molte difficoltà, e per abboccarsi con Antonio de Leva uscito a questo effetto di Milano, camminavano lentamente per il bresciano; dove andorono a trovargli Andrea de Burgos e il capitano Giorgio, per mezzo de' quali si dubitava che il duca di Ferrara, il quale in tanto timore degli altri non faceva provisione alcuna, non tenesse con loro occultamente qualche pratica. Indirizzoronsi dipoi i tedeschi alla volta di Adda per unirsi con Antonio de Leva: il quale, avendo il nono dí di giugno passato il fiume di Adda, con seimila fanti e sedici pezzi grossi di artiglieria, e alloggiato appresso a loro propinqui a Bergamo a tre miglia (nella quale città il duca di Urbino, venuto a Brescia, aveva, e in Brescia e in Verona, divise le sue genti), persuase loro, per l'estremo desiderio che aveva di ricuperare Lodi, di attendere prima a ricuperare lo stato di Milano che passare a Napoli.

Cosí il vigesimo dí si posono col campo a quella città, della quale partendosi il duca di Milano e ritiratosi a Brescia, vi aveva lasciato Giampaolo fratello suo naturale con manco di tremila fanti; e avendo piantato l'artiglieria, Antonio de Leva, al quale toccava il primo assalto, accostò i fanti spagnuoli dove era la maggiore rovina. Combatterno tre ore ferocemente, ma non si dimostrando minore la costanza e la virtú de' fanti italiani che vi erano dentro furono ributtati; e diffidandosi potere piú ottenerla per assalto, ridusseno tutta la speranza del vincerla in su la fame: perché, non essendo ancora fatta la ricolta, era in Lodi carestia tale che non si distribuendo piú pane ad altri che a' soldati bisognava che quegli della terra o morissino di fame o uscissino fuora con grandissimo pericolo. Scrive in questo modo il Capella il progresso del duca di Brunsvich. Ma i registri contengono che i tedeschi batterono molti dí Sonzino, e che finalmente l'ottennono per accordo; e che molti di loro, presentatisi sbandatamente a Pizzichitone, furono ributtati. Tentorono dipoi invano Castellione, nella quale oppugnazione fu ammazzato al duca di Brunsvich il cavallo sotto; e che mentre che erano nel cremonese, il duca di Urbino, uscito di Brescia, prese per forza la terra di Palazuolo, nella quale erano Emilio e Sforza, fratelli, de' Mariscotti, con alcuni cavalli leggieri e fanti non pagati: Emilio restò prigione e Sforza si rifuggí nella rocca; alla quale venendo il soccorso, il duca di Urbino si ritirò a Pontevico. Ne' quali dí, o forse prima, in bresciano, il conte di Caiazzo condottiere de' viniziani prese il luogotenente del capitano Zucchero con molti cavalli. Andò dipoi il campo a Lodi, dove, per essere stata inondata gran parte del paese, non si poteva battere se non di verso Pavia. Che il vigesimo nono dí di giugno fu dato l'assalto eziandio da' tedeschi di Brunsvich e di Antonio de Leva, nel quale i tedeschi nuovi riportorono piccola laude.

Ma tra' tedeschi era già entrata la peste; e anche essendo carestia nello esercito, molti partendosi ritornavano, per le terre de' svizzeri e de' grigioni, alle patrie loro. A che non faceva molto diligenza in contrario Enrico duca di Brunsvich loro capitano; perché avendo in Germania, per l'esempio de' fanti condotti da Giorgio Fronspergh, conceputo grandissime speranze, gli riuscivano in Italia le cose piú difficili che non si aveva immaginato; ed essendogli mancati i denari, gli restava quasi impossibile tenere i fanti fermi intorno a Lodi non che condurgli nel regno di Napoli. Né Antonio de Leva gli somministrava denari, anzi gliene toglieva ogni speranza querelandosi sempre della povertà di Milano; perché, poiché ebbe perduto la speranza di ottenere Lodi, non pensava né attendeva ad altro che a dare loro causa di andarsene, dubitando non si fermassino in quello stato, e cosí avervi compagni al governo e alle prede: e aveva atteso, mentre che loro perdevano tempo, a fare battere i grani e le biade per tutto lo stato di Milano e portare le ricolte a Milano. Finalmente, dovendosi a' tredici di luglio dare nuovo assalto a Lodi, i tedeschi si ammutinorno e mille se ne andorono verso Como; gli altri, restati in grandissimo disordine, allargorono l'artiglieria da Lodi. Per il che temendosi che non se ne tornassino in Germania, il marchese del Guasto, avuto licenza da Andrea Doria per dieci dí, sopra la fede, andò a Milano per persuadere a Brunsvich che non ritornasse in Germania; ma non si potendo intrattenere con le parole, se ne andorono per via di Como, restandone di loro con Antonio da Leva, al quale si era in quegli dí arrenduta Mortara, circa dumila: essendo cosa certa che se fussino soprastati qualche dí piú lo pigliavano per mancamento di vivere. Nella quale espedizione fu desiderato da molti la prontezza del duca d'Urbino, di essersi, quando il campo era intorno a Lodi, accostato o a Crema o a Pizzichitone, o almeno tenutovi qualche somma di cavalli leggieri per infestargli; benché, quando erano nel bresciano, gli avesse qualche volta costeggiati, ma non sí accostando mai a loro piú di tre miglia e procedendo sicuramente: nondimeno, contento di difendere lo stato de' viniziani, non passò mai il fiume dell'Oglio. Non essendo anche stata piú pronta la passata di San Polo; il quale, non ostante tutti i disegni e le promesse fatte dal re di mandare per interesse suo gente contro a' tedeschi, non arrivò in Piemonte se non in tempo che già i tedeschi se ne andavano, e anche con numero di gente molto minore che non avevano publicato.

Non restavano perciò i collegati di fare di nuovo instanza col pontefice che si dichiarasse per loro, e che procedendo contro a Cesare con l'armi spirituali lo privasse dello imperio e del reame di Napoli. Il quale, poi che si fu scusato che, dichiarandosi, non sarebbe piú mezzo opportuno alla pace, che la dichiarazione sua susciterebbe maggiore incendio tra príncipi cristiani senza utilità de' collegati, per la povertà e impotenza sua, e la privazione di Cesare solleverebbe la Germania, per sospetto che e' non volesse applicare a sé la autorità di eleggere, ed eleggesse il re di Francia; dimostrava il pericolo imminente da' luterani, i quali ampliavano: finalmente, non potendo piú resistere, si offerse parato a entrarvi se i viniziani gli restituivano Ravenna, condizione proposta da lui come impossibile; offerendo anche a obligarsi a non molestare lo stato di Firenze. Però, il vigesimo dí di giugno, arrivorno a Vinegia il visconte di Turrena e oratori del re di Inghilterra a instare con quel senato: promettendo per lui l'osservanza delle promesse; ma non avendo potuto ottenerne altro partirono male sodisfatti.

Ricuperò in questi tempi il pontefice la città di Rimini; la quale, tentata prima invano da Giovanni da Sassatello, si arrendé finalmente con patti che fussino salve le robe e le persone. Ma già cominciavano a non si potere piú dissimulare i suoi piú profondi e piú occulti pensieri, dissimulati prima con molte arti: perché essendogli infissa nell'animo la cupidità di restituire alla famiglia sua la grandezza di Firenze, si era sforzato, publicando efficacissimamente il contrario, persuadere a' fiorentini niuno pensiero essere piú alieno da lui; né desiderare se non che quella republica lo riconoscesse solamente, secondo l'esempio degli altri príncipi cristiani, come pontefice e che nelle cose private non perseguitassino i suoi, né l'onore, le insegne e gli ornamenti propri della sua famiglia. Con le quali commissioni avendo, come fu liberato, mandato a Firenze uno prelato fiorentino per imbasciadore, né essendo stato udito, aveva molto instato, e per mezzo anche del re di Francia, che mandassino a lui uno imbasciadore; sforzandosi, con levare loro il sospetto e col dimesticarsi con loro, rendergli piú opportuni alle sue insidie. Ma tentate invano queste cose, si sforzò di persuadere a Lautrech che, essendo quegli che reggevano in Siena dependenti da Cesare, era espediente alle cose sue rimettervi Fabio Petrucci; il che, benché gli fusse capace, se ne astenne per la contradizione de' fiorentini. Non gli succedendo per questa via, operò occultamente che Pirro da Castel di Piero, pretendendo querele contro a' sanesi, occupò con ottocento fanti, per mezzo di alcuni fuorusciti di Chiusi, quella terra, per travagliare con questo mezzo il governo di Siena; ma avendo i fiorentini fatto capace il visconte di Turrena, oratore del re di Francia, il papa non tendere ad altro fine che di perturbare con l'opportunità di Siena le cose di Firenze, il visconte procurò col pontefice che 'l movimento di Chiusi si posasse. Il quale, nella venuta de' tedeschi, aveva, con l'aiuto del marchese di Mantova, guardato Parma e Piacenza.



III

Vicende della guerra in Calabria e negli Abruzzi. Bolla secreta del pontefice per l'annullamento del matrimonio del re d'Inghilterra. Condizioni degli imperiali in Napoli; condizioni degli assedianti. Fazioni di guerra sotto Napoli.

Procedevano in questi tempi le cose del reame di Napoli variamente. Perché era venuto di Sicilia in Calavria il conte Burella con mille fanti, e unitosi con gli altri; e da altra parte Simone Romano aveva ottenuto con le mine la fortezza di Cosenza a discrezione (benché l'esservi stato ferito di uno archibuso nella spalla ritardò in qualche parte il corso della vittoria) e unitosi poi col duca di Somma, il quale con fanti del paese assediava Catanzaro, terra molto forte ma in necessità di vettovaglie, nella quale era il genero di Alarcone con dugento cavalli e mille fanti; la quale ottenendo restavano signori di tutto il paese insino alla Calavria soprana; ma la necessità gli costrinse a volgersi contro alle genti unitesi col soccorso venuto di Sicilia, le quali avevano già fatto qualche progresso. Ma essendo stato Simone abbandonato da una parte de' suoi fanti paesani, fu necessitato a ritirarsi nella rocca di Cosenza; gli altri fanti suoi, con morte di qualcuno, si risolverono; i corsi si andavano ritirando verso l'esercito: restando non solo la Calavria in pericolo ma temendosi che i vincitori non si indirizzassino verso Napoli. Ma per contrario ebbono nello Abruzzi prosperità le cose de' franzesi; perché essendosi appropinquato a dodici miglia all'Aquila il vescovo Colonna per sollevare lo Abruzzi fu rotto e morto dallo abate di Farfa, morti quattrocento fanti e circa ottocento prigioni. Intorno a Gaeta quegli di dentro, per la giunta del principe di Melfi, si andavano ritirando; e quelli di Manfredonia, per la poca virtú delle genti viniziane, facevano danno assai.

Perseverava in questo tempo il pontefice nella deliberazione di non dichiararsi per alcuno, ma, perché teneva diverse pratiche, già sospetto al re di Francia; né anche grato a Cesare, se non per altro perché aveva destinato legato in Inghilterra il cardinale Campegio, per trattare in quella isola la causa delegata a lui e al cardinale eboracense. Perché instando quel re per la declarazione della invalidità del primo matrimonio, il pontefice, il quale si era molto allargato di parole co' ministri suoi, perché trovandosi in piccola fede appresso agli altri si sforzava di conservarsi il suo patrocinio, fece secretissimamente una bolla decretale declaratoria che il matrimonio fusse invalido; la quale dette al cardinale Campegio e gli commesse che, mostratala al re e al cardinale eboracense, dicesse avere commissione di publicarla se nel giudicio la cognizione della causa non succedesse prosperamente; acciocché piú facilmente consentissino che la causa si conoscesse giuridicamente, e tollerassino con animo piú equo la lunghezza del giudicio, il quale aveva commesso al cardinale Campegio che allungasse quanto potesse, né desse la bolla se prima non aveva nuova commissione da lui; ma si sforzò di persuadergli (come anche è verisimile che allora avesse in animo) la intenzione sua essere che finalmente s'avesse a dare. Della quale destinazione del legato e delegazione della causa facevano querela grave in Roma gli imbasciadori cesarei, ma con minore autorità per la difficoltà che avevano le cose di Cesare nel regno napoletano.

Ma intorno a Napoli si scoprivano, per l'una parte e per l'altra, molte difficoltà; ma tali che, raccolte tutte le ragioni, si sperava piú presto la vittoria per i franzesi, ritardata dalla virtú e dalla ostinazione degli inimici. Perché in Napoli augumentava giornalmente la carestia, massime di vino e di carne, non vi entrando piú per mare cosa alcuna; con ciò sia che le galee de' viniziani, in numero ventidue, fussino, pure dopo sí lunga espettazione, giunte a' dieci dí di giugno nel golfo di Napoli: perché se bene i cavalli di dentro uscendo continuamente, non verso l'esercito ma in quelle parti nelle quali credevano potere trovare vettovaglie, riportassino quasi sempre prede, massime di carnaggi, nondimeno, benché giovassino molto, non erano tante che, privati della comodità del mare, potessino lungamente sostentarsi. Affliggevagli la peste grande, il mancamento de' danari, la difficoltà di sostenere i fanti tedeschi, ingannati molte volte da vane speranze e promesse, e de' quali qualcuno alla sfilata andava nello esercito inimico: benché a ritenergli potesse molto la grazia e l'autorità che aveva appresso a loro il principe di Oranges, restato per la morte di don Ugo con autorità di viceré: il quale fece prigione il capitano Catte guascone, delle reliquie del duca di Borbone, con molti de' suoi; e poco dipoi, per sospetto vano, fece il simigliante di Fabrizio Maramaus, benché presto lo liberasse. Da altra parte, nell'esercito franzese augumentavano continuamente le infermità; le quali erano cagione che Lautrech, per non avere a guardare tanto, non procedesse alla perfezione delle ultime trincee, le quali, anche per l'impedimento di certe acque tagliate, avevano difficoltà di finirsi. Era anche nello esercito carestia, piú per poco ordine che per altro. Nondimeno Lautrech sperava piú nelle necessità che erano in Napoli che non temeva delle sue difficoltà; e o per questa cagione, persuadendosi aversi presto a finire, o per mancamento di denari non faceva nuovi fanti, come da tutto lo esercito si desiderava per la diminuzione grande, per i morti e per gli infermi non solamente nelle genti basse e ne' soldati privati ma già nelle persone grandi e di autorità; perché il quintodecimo dí erano morti... nunzio del pontefice e Luigi Pisano proveditore viniziano. Sperava anche di fare passare all'esercito tutti o la maggiore parte de' fanti tedeschi, pratica nella quale, prima il marchese di Saluzzo e dappoi egli, avevano lungo tempo vanamente confidato. Le medesime cagioni, e la speranza che gli era data di fare passare all'esercito alcuni cavalli leggieri che erano in Napoli, lo ritenevano da soldare cavalli leggieri, sommamente necessari; i quali, se pure n'avesse soldati almeno quattrocento, gli sarebbeno stati di grandissima utilità. Però scorrevano i cavalli di dentro piú liberamente; benché, ritornando uno giorno a Napoli con uno grosso bottino di bestiame, rincontrate le bande nere che erano il nerbo dello esercito, e senza le quali non si sarebbe stato intorno a Napoli, lo tolsono loro con perdita di forse sessanta cavalli; non ostante che gli spagnuoli uscissino tutti di Napoli, ma tardi, per soccorrergli. Sperava Lautrech che gli inimici fussino necessitati a partirsi presto da Napoli; e perciò, volendo privargli della facoltà di ritirarsi in Gaeta, ordinò fusse guardata Capua e Castello a mare di Volturno. E per tôrre anche loro la facoltà di ritirarsi in Calavria, oltre al fare tagliare certi passi, ricominciò a fare lavorare alla trincea ricordata piú volte ma intermessa per vari dispareri; ripigliandola tanto alto che l'acque che impedivano restassino di sotto. E disegnava anche di mettere in fortezza uno casale molto vicino a Napoli e guardarlo con mille fanti, che per questo voleva soldare; favorendosi eziandio delle galee viniziane sorte al diritto della trincea: la quale serviva ancora a fare venire piú facilmente allo esercito le vettovaglie dalla marina, e a tagliare la strada agli inimici quando tornavano con le prede per quel cammino, perché, per i fossi grandi e l'acque tagliate di Poggioreale, si andava dallo esercito al mare per circuito grande e pericoloso. Sforzavansi gli imperiali impedire quegli che lavoravano alla trincea; alla quale essendo usciti uno dí molto grossi i guastatori, per ordine di Pietro Navarra, il quale sollecitava questa opera, si rifuggirono; in modo che seguitandogli incautamente gli imperiali furono condotti in una imboscata, e ne fu tra morti e feriti piú di cento. Nondimeno la trincea non era ancora ammezzata, quando per mancamento de' guastatori quando per altra cagione; perché la negligenza interrompeva spesso gli ordini buoni che spesso si facevano: ne' quali, per essere la strettezza di Napoli grandissima, se si fusse continuato, è giudicio di molti che Lautrech arebbe indubitatamente ottenuta la vittoria.

Succedette, ne' dí medesimi, occasione di grandissimo momento se tali fussino stati gli esecutori quali furono gli ordinatori: ma è infelicità eccessiva di uno principe quando, come spesso accade al re di Francia co' suoi franzesi, la negligenza e piccola cura de' suoi ministri perverte i consigli buoni. Presentí Lautrech che i soldati di Napoli erano, per predare, usciti fuora per la via di Piè di Grotta molto grossi; però, per opprimergli, mandò, la notte de' venticinque dí di giugno, i fanti delle bande nere i cavalli de' fiorentini e settanta lancie franzesi e una banda di svizzeri, tedeschi e guasconi alla volta di Belvedere e di Piè di Grotta per incontrargli; e per impedire loro il ritirarsi ordinò che il capitano Buria co' fanti guasconi, postosi in sul monte eminente alla Grotta, scendesse subito levato il romore, per impedire che gli inimici non potessino entrare nella Grotta. Succedette il principio di questa fazione felicemente, perché le genti di Lautrech avendogli incontrati gli combatterno e messeno in fuga; avendo tra morti e presi piú che trecento uomini e cento cavalli utili e moltissime bagaglie. Fu scavalcato nel combattere don Ferrando da Gonzaga e fatto prigione, ma la furia de' tedeschi lo riscattò. Ma il capitano Buria, o per negligenza o per timore, non si rappresentò al luogo destinato; il che se avesse fatto si crede sarebbeno periti tutti. Aveva anche Lautrech mandato a Gaeta sei galee de' viniziani, e due ne erano restate alla bocca del Garigliano, per dare favore al principe di Melfi; e perché le galee non potevano proibire che con le fregate non entrasse in Napoli qualche rinfrescamento, messe in mare certe piccole barchette per impedirle; ordinò anche che i bestiami si discostassino, per tutto, quindici miglia da Napoli, perché non fussino cosí facili a essere tolti dagli imperiali. I quali in tutte le scaramuccie ricevevano danno, quando non si facevano nel forte loro.



IV

Defezione di Andrea Doria dal re di Francia. Accordi del Doria con Cesare; l'armata del Doria lascia il porto di Napoli. Insuccessi dei collegati sotto Napoli. Tardi provvedimenti presi dal Lautrech. Cattive condizioni dell'esercito dei collegati; morte del Lautrech. Rotta dei collegati. Cause dell'infelice fine dell'impresa.

Ma nuovo accidente che si scoperse, e del quale era molto prima apparito qualche indizio, perturbò gravemente le cose franzesi: perché Andrea Doria deliberò di partirsi dagli stipendi del re di Francia, ai quali era obligato per tutto il mese di giugno; deliberazione, per quel che si potette congetturare, fatta piú mesi innanzi; donde era proceduto che ritiratosi a Genova non era voluto andare con le galee nel regno di Napoli, e che offerendogli il re di farlo capitano della armata la quale si preparava a Marsilia lo recusò, allegando che per la età era inabile a tollerare piú queste fatiche. La origine di tale deliberazione si attribuiva poi, da lui e da altri, a varie cagioni. Esso si lamentava che il re, dopo l'averlo servito con tanta fedeltà cinque anni, avesse fatto ammiraglio e dato la cura del mare a monsignore di Barbigios; quasi parendogli conveniente che 'l re, dopo la sua recusazione, avesse dovuto replicare e fargli instanza che la accettasse: che non lo pagasse di ventimila ducati degli stipendi passati, senza i quali non poteva sostentare le sue galee: non avere voluto sodisfare a' giusti prieghi suoi di restituire a' genovesi la solita superiorità di Savona, anzi essersi trattato nel consiglio regio di farlo decapitare, come uomo che troppo superbamente usasse la sua autorità. Altri allegavano essere stata la prima origine della sua indignazione le contenzioni succedute tra Renzo da Ceri e lui nella impresa di Sardegna, nella quale pareva che il re avesse piú udito la relazione di Renzo che le sue giustificazioni: essersi sdegnato per la instanza grande fattagli dal re che gli concedesse i prigioni; i quali come cosa importante molto desiderava, massime il marchese del Guasto e Ascanio Colonna, benché con offerta di pagargli la taglia loro. Allegoronsi queste e altre cagioni; ma si credette poi che la vera, la principale fusse non tanto lo sdegno di non essere stato tenuto conto da' franzesi di lui quanto gli pareva meritare, o qualche altra mala sodisfazione, quanto che, pensando alla libertà di Genova, per introdurre sotto nome della libertà della patria la sua grandezza né potendo conseguire questo fine con altro modo, avesse deliberato non seguitare piú gli stipendi del re, né aiutarlo di conseguire con le sue galee la vittoria di Napoli: come si credeva che, per interrompere l'acquisto di Sicilia, avesse proposta la impresa di Sardigna. Però, indirizzato l'animo a questi pensieri, trattava per mezzo del marchese del Guasto di condursi con Cesare; non ostante la professione dell'odio grande che, per la memoria del sacco di Genova, aveva fatta, molti anni, contro alla nazione spagnuola, e la acerbità con la quale gli aveva trattati, quando alcuno di loro era venuto nelle sue mani. Ma procedendo simulatamente, non era ancora noto al re il suo disegno; però non era stato sollecito a procurare i rimedi a infermità tanto importante, ancora che n'avesse conceputo qualche sospetto; perché fu presa una sua galea che portava in Spagna uno spagnuolo mandato sotto pretesto della taglia di certi prigioni, al quale si trovò una lettera credenziale di Andrea Doria a Cesare: benché, per le querele sue grandi, gli fu permesso che senza essere esaminato continuasse il suo cammino. Finalmente, essendo arrivato Barbigios con quattordici galee a Savona, Andrea Doria, temendo di lui, si ritirò da Genova con le sue galee e co' prigioni a Lerice: la qualcosa come il re intese, gustando il pericolo quando era fatto irrimediabile, mandò a lui Pierfrancesco da Nocera per ricondurlo agli stipendi suoi; per il quale gli offerse sodisfare al desiderio suo delle cose di Savona, pagargli i ventimila ducati de' soldi corsi, pagargli altri ventimila ducati per la taglia del principe di Oranges, preso altre volte da lui e dipoi liberato dal re quando a Madril fece la pace con Cesare; e in caso volesse concedergli i prigioni, pagare, innanzi uscissino delle sue mani, la taglia loro; quando anche recusasse di concedergli, non volere il re gravarnelo. Non prestò il Doria orecchi a queste offerte, giustificando la partita sua dal re con le querele; donde Barbigios fu forzato, con detrimento grande delle cose del reame di Napoli, soprastare a Savona: nondimeno, passando poi piú innanzi, lasciò per la guardia di Genova cinquecento fanti a dieci miglia appresso a quella città, perché dentro era peste grandissima; e per la medesima cagione pose in terra, trenta miglia appresso a Genova, mille dugento fanti tedeschi venuti nuovamente: i quali avevano avuta la prima paga da' franzesi, ma per non avere i viniziani pagata la seconda, come erano obligati, fu necessario che il Triulzio governatore di Genova gli provedesse.

In queste agitazioni del Doria, il pontefice, presentendo quel che trattava con Cesare, significò il vigesimo primo dí di giugno la cosa a Lautrech, dimandandogli il consenso di condurlo agli stipendi suoi per privarne Cesare, e affermandogli che Filippino con le galee partirebbe tra dieci dí da Napoli: perciò Lautrech restituí a Filippino, per non lo esasperare, il secretario Serone, ritenuto sempre per avere lume da lui di molte cose secrete; e nondimeno, per sospetto già conceputo del pontefice, interpetrò sinistramente lo avviso suo. Finalmente Andrea Doria, benché Barbigios, nel passare innanzi con l'armata, che era di diciannove galee due fuste e quattro brigantini e vi era su il principe di Navarra, avesse parlato seco, non dissimulando piú quel che aveva in animo di fare, mandò uno uomo suo a Cesare in compagnia del generale, creato cardinale, mandato dal pontefice, a stabilire le sue convenzioni; le quali furono: la libertà di Genova sotto la protezione di Cesare, la suggezione di Savona a' genovesi, venia a lui che tanto aveva perseguitato il nome spagnuolo, condotto a servizio di Cesare con dodici galee e per soldo sessantamila ducati l'anno; e con altri patti molto onorevoli. Per le quali cose Filippino con tutte le galee partí, il quarto dí di luglio, da Napoli: la partita del quale, procedendo come già aveva cominciato a procedere, non noceva a' franzesi se non per la riputazione; perché, già molti dí, non solo faceva mala guardia, anzi talvolta i suoi brigantini conducevano furtivamente vettovaglia in Napoli; ed egli, oltre allo avere parlato con alcuni di Napoli, aveva portato i figliuoli di Antonio de Leva a Gaeta e fatto, molti dí, spalle che in Napoli entrassino vettovaglie. Ma se avesse servito fedelmente, come nel principio, n'arebbono ricevuto danno gravissimo. Perciò sollecitava tanto piú Lautrech la venuta della armata franzese: la quale si era fermata con somma imprudenza, per ordine del pontefice, a pigliare Civitavecchia.

Per la partita di Filippino con le galee, l'armata viniziana, la quale aveva preso l'assunto di lavorare dalla marina insino rincontrasse la trincea di Pietro Navarra, fu necessitata intermettere per attendere alla guardia del mare: il quale perché stesse piú serrato, si era ordinato che alcune fregate armate scorressino dí e notte la costa; e si usava anche per terra maggiore diligenza, opponendosi agli spagnuoli, che ogni dí scorrevano ma incontrati fuggivano senza combattere: in modo che Napoli era ridotto in estrema necessità, e i tedeschi protestavano di partirsi se presto non fussino soccorsi di danari e di vettovaglie. Donde Lautrech, sostentandolo assai la speranza di queste cose, si persuadeva che, per la pratica tenuta lungamente con loro, di giorno in giorno passerebbono allo esercito. Ma il quintodecimo dí di luglio le galee viniziane, eccetto quelle che erano intorno a Gaeta, ritornorono in Calavria per provedersi di biscotti; e però, essendo restato il porto aperto, entrorono in Napoli molte fregate con vettovaglie di ogni sorte, da vino in fuora, cosa molto opportuna perché in Napoli non era grano per tutto luglio. Ma nell'esercito, nel quale era anche passata la peste per contagione di genti uscite di Napoli, moltiplicavano grandemente le solite infermità. Valdemonte era vicino alla morte, e ammalato Lautrech: per la infermità del quale disordinandosi le cose, gl'imperiali, i quali correvano senza ostacolo per tutte le strade, tolseno le vettovaglie che venivano allo esercito che ne aveva strettezza. E nondimeno non si soldavano nuovi cavalli leggieri, anzi Valerio Orsino, condottiere de' viniziani, con cento cavalli leggieri si partí dello esercito per non essere pagato, e gli altri cavalli leggieri parte si erano partiti per non essere pagati parte per le infermità erano inutili; la gente d'arme franzese si era ridotta in guarnigione alle terre circostanti, e i guasconi sparsi per il paese attendevano a fare le ricolte e guadagnare. Speravasi pure ne fanti, i quali si diceva condurre l'armata: la quale, soprastata piú di venti dí da poi che si era partita da Livorno, arrivò finalmente il decimo ottavo dí di luglio con molti gentiluomini e con denari per lo esercito; ma non aveva se non ottocento fanti, perché gli altri che portava erano restati parte per la guardia di Genova parte alla impresa della fortezza di [Civitavecchia]. Alla venuta della quale avendo Lautrech mandato gente alla marina per ricevere i denari, non potetteno le galee per il mare grosso venire a terra; però vi ritornò, il dí seguente, il marchese di Saluzzo con le sue lance e con grossa banda di guasconi svizzeri e tedeschi e con le bande nere, ma nel ritorno loro incontrorono gl'imperiali che erano usciti grossi di Napoli, i quali caricorono in modo i cavalli franzesi, che voltorno le spalle e nel fuggirsi urtorono talmente i fanti loro medesimi che gli disordinorono; e trovandosi il conte Ugo de' Peppoli, che dopo la morte di Orazio Baglione era succeduto nel governo delle genti de' fiorentini, a piede con quaranta archibusieri, innanzi alla battaglia delle bande nere uno tiro di archibuso, restò prigione de' cavalli: e fu tale lo impeto degl'imperiali che se la battaglia delle bande nere non gli riteneva facevano grande strage; perché combatterono, massime la cavalleria loro, egregiamente. Restorono morti piú di cento e altrettanti presi, tra' quali parecchi gentiluomini franzesi smontati dall'armata; e fu preso anche Ciandalé nipote di Saluzzo: nondimeno, i denari si condusseno salvi. E fu attribuito il disordine a' cavalli franzesi, molto inferiori di virtú a' cavalli degl'inimici: donde si diminuiva l'animo a' fanti dello esercito, conoscendo non potersi fidare del soccorso de' cavalli.

Ma aveva nociuto sommamente all'esercito la infermità di Lautrech, il quale benché si sforzasse di sostentare con la virtú dell'animo la debolezza del corpo nondimeno non poteva né vedere né provedere a tutte le cose, le quali continuamente declinavano; perché gli imperiali, scorrendo fuori, non solo si provedevano di tutti i bisogni, eccetto il vino che non potevano condurre, ma toglievano spesso le vettovaglie dello esercito, toglievano le bagaglie e i saccomanni insino in su' ripari e i cavalli insino allo abbeveratoio; in modo che allo esercito, diminuito molto per le infermità, cominciavano a mancare le cose necessarie, diventato di assediante, assediato e in pericolo; e se non si fusse fatto guardia a' passi tutti i fanti sarebbeno fuggiti: e per contrario in Napoli, crescendo e le comodità e la speranza, i tedeschi non piú tumultuavano, e gli altri pigliavano in gloria il patire. Da' quali pericoli tanto manifesti vinta pure finalmente la pertinacia di Lautrech (il quale, pochi dí innanzi, aveva spedito in Francia perché mandassino per mare semila fanti), mandò Renzo, venuto credo in su l'armata, verso l'Aquila perché conducesse quattromila fanti e secento cavalli, assegnandogli il tesoriere dell'Aquila e dello Abruzzi; il quale prometteva condurgli in campo in brevi dí; provisione che, fatta prima, sarebbe stata di somma utilità.

A' ventinove erano rotte le strade, che, non che altro, insino a Capua, quale avevano alle spalle, non si andava sicuro; e nello esercito, ammalato quasi ognuno: Lautrech, sollevatosi prima dalla febbre, ritornato in maggiore indisposizione che il solito; la gente d'arme quasi tutta sparsa per le ville, o per essere ammalati o per rinfrescarsi sotto quella scusa, e i fanti quasi ridotti a niente; ed essendo in Napoli declinata la peste e l'altre infermità, per le quali erano ridotti a settemila fanti (altri dicono a cinquemila), si temeva non assaltassino il campo. Però Lautrech fermò i cinquecento fanti di Renzo mandati dopo la rotta di Simone, per impedire che le genti inimiche di Calavria non venissino verso Napoli, e mandò intorno nel paese a soldarne mille; condusse il duca di Nola con dugento cavalli leggieri e Rinuccio da Farnese con cento, che promettevano menargli presto; chiamò dugento stradiotti de' viniziani dalla impresa di Taranto, rivocò con gravi pene tutti gli uomini d'arme sani: sollecitava ogni dí Renzo; e riscaldava, ma tardi, con grandissima veemenza ed efficacia tutte le provisioni. A' due di agosto non erano nel campo franzese pure cento cavalli, e gli imperiali correvano ogni dí in su le trincee; e la notte dinanzi avevano scalato e saccheggiato Somma, dove era una banda d'uomini d'arme e di cavalli leggieri. Però Lautrech, vedendosi quasi assediato, sollecitava San Polo che gli mandasse gente per mare, e i fiorentini che voltassino a lui dumila fanti i quali avevano ordinato di mandare a San Polo; i quali prontamente lo consentivano. Era morto in campo Candela, lasciato in su la fede; era malato il Navarra, Valdemonte, Paolo Cammillo da Triulzi, il maestro del campo nuovo e vecchio, M. Ambrogio da Firenze; Lautrech era ricaduto; ammalati tutti gli oratori, tutti i segretari e tutti gli uomini di conto, da Saluzzo e il conte Guido in fuora; né si trovava in tutto il campo quasi una persona sana. Morivano i fanti di fame, ed essendo mancate quasi tutte le cisterne vi si pativa anche di acqua; gli imperiali padroni di tutta la campagna; né poteva fare altro l'esercito che starsi nel suo forte a buona guardia, aspettando il soccorso, che non poteva esservi fra quindici dí: e la negligenza anche accresceva i disordini. Roppeno poi gli spagnuoli l'acqua di Poggioreale, e benché si rassettasse non si usava senza grave pericolo. Aspettava Lautrech fra due dí il duca di Somma con mille cinquecento fanti, e presto i cavalli e fanti dello abate di Farfa; il quale Lautrech, poi che aveva rotto il vescovo Colonna, aveva mandato a chiamare. E a' sei si era avuta per accordo la fortezza di Castello a mare, importante per poter ridurre le galee in quel porto; e si disegnava pigliare quella di Baia. Ritornorono le galee de' viniziani malissimo armate, e sí male proviste di vettovaglie che bisognava che per guadagnare da vivere, lasciata la cura del guardare il porto di Napoli, scorressino per le marine circostanti. Agli otto gli spagnuoli, tornati a Somma, di nuovo la spogliorono; e preseno ogni resto di cavalli che vi aveva il conte Guido in guarnigione: e spesso in campo non era da mangiare. Assaltorono due dí innanzi la scorta delle vettovaglie con la quale erano dugento tedeschi, che rifuggiti in due case si arrenderono vilmente. E accresceva tutte le incomodità il circuito dello alloggiamento, che insino da principio era stato giudicato troppo grande, il che faceva pericolo e consumava i fanti per le troppe fazioni; e nondimeno Lautrech, intrattenendosi in su la speranza di Renzo, non voleva udire di ristrignerlo: e ancora non bene riavuto scorreva per tutto il campo, per mantenere gli ordini e le guardie, temendo non fusse assaltato. Declinavano le cose giornalmente, in modo che a' quindici, per la troppa potenza de' cavalli imperiali, non era piú commercio tra il campo e le galee; né potevano quegli del campo, per non avere cavalli, uscire delle strade. Davasi ogni notte all'arme due o tre volte: però gli uomini, consumati da tante fatiche e incomodità, non potevano andare alle scorte delle vettovaglie quanto bisognava. E quel che aggravò tutti i disordini fu che, la notte medesima venendo i sedici, morí Lautrech, in su l'autorità e virtú del quale si riposavano tutte le cose: credendosi per certo che le fatiche grandi, che aveva, avessino rinnovato la sua infermità.

Restò il pondo del governo nel marchese di Saluzzo, non pari a tanto peso. E moltiplicando ogni dí i disordini, e arrivato Andrea Doria, come soldato di Cesare, con dodici galee a Gaeta, in modo che l'armata franzese allentò la guardia, il conte di Sarni, con mille fanti spagnuoli, prese Sarni; cacciatine trecento fanti che vi erano alle stanze: dipoi andato il vigesimo secondo dí di agosto, con piú gente, di notte, a Nola, la prese. E Valerio Orsino che vi era a guardia si ritirò nella fortezza, dicendo essere ingannato da' paesani. E avendo mandato a Saluzzo per soccorso, gli promesse dumila fanti. Ma scrive il Borgia che il messo, preso nello andare, per riavere la moglie e i figliuoli che erano in Nola, fece la spia al conte di Sarni; e che però, venendo di notte, i fanti del campo, assaltati dalle genti di Napoli furono rotti. Altri, non facendo menzione di questo stratagemma, dicono che i franzesi vi andorono la notte seguente, e non la pigliorono. A' ventitré il campo, quasi senza gente e senza governo, si sostentava solo dalla speranza della venuta di Renzo, che ancora era all'Aquila; non desiderato piú per pigliare Napoli né per speranza di potere resistere in quello alloggiamento, ma solo per potersi levare sicuramente. Era morto Valdemonte, e il marchese di Saluzzo, conte Guido, conte Ugo e Pietro Navarra ammalati. E Maramaus uscí fuora con quattrocento fanti per privargli in tutto delle vettovaglie, e trovato Capua quasi abbandonata vi entrò dentro: per il che i franzesi, abbandonato Pozzuolo, messeno la guardia che vi era in Aversa, molto importante al campo. Ma perduta Capua e Nola restavano serrate quasi tutte le vettovaglie, in modo che, non potendo piú sostenersi, per ultimo partito si levorono una notte per ritirarsi in Aversa; ma presentita dagl'imperiali, che stavano intenti a questo caso, la levata loro, gli ruppeno nel cammino: dove fu preso Pietro Navarra e il principe di Navarra e molti altri capi e uomini di ogni condizione; e il marchese di Saluzzo si ritirò con una parte in Aversa. Dove avendolo seguitato gl'imperiali, non potendo difendersi, mandato fuori il conte Guido Rangone a parlare col principe di Oranges, capitolò per mezzo suo con lui: di lasciare Aversa con la fortezza, artiglierie e munizioni; restasse lui e gli altri capitani prigioni, dal conte Guido in fuora, al quale, in premio della concordia o per altra causa, fu consentita la libertà; facesse il marchese ogni opera che i franzesi e i viniziani restituissino tutto il regno; i soldati e quegli che per lo accordo restavano liberi lasciassino le bandiere l'armi i cavalli e le robe, concedendo però a quegli di piú qualità ronzini muli e cortialti; i soldati italiani non servissino per sei mesi contro a Cesare. Cosí restò tutta la gente rotta, e tutti i capitani o morti o presi nella fuga, o nello accordo restati prigioni. Aversa fu saccheggiata dallo esercito imperiale, che si ritirò poi a Napoli, dimandando otto paghe; Renzo che il dí seguente si era appressato a Capua, il principe di Melfi, lo abate di Farfa, inteso il caso, se ne andorono in Abruzzi: il quale paese solo e qualche terra di Puglia e di Calavria si tenevano in nome de' confederati.

Questo fine ebbe la impresa del regno di Napoli, disordinata per molte cagioni ma condotta all'ultimo precipizio per due cagioni principalmente: l'una, per le infermità causate in grande parte dallo avere tagliato gli acquidotti di Poggioreale per tôrre a Napoli la facoltà del macinare, perché l'acqua sparsa per il piano, non avendo esito, corroppe l'aria, donde i franzesi intemperanti e impazienti del caldo si ammalorono (aggiunsesi la peste, la contagione della quale penetrò per alcuni infetti di peste mandati studiosamente da Napoli nello esercito); l'altra, che Lautrech, il quale aveva menati di Francia la maggiore parte de' capi esperimentati nelle guerre, sperando piú che non era conveniente, né si ricordando essergli stato di poco onore l'avere, quando era alla difesa dello stato di Milano, scritto al suo re che impedirebbe agli inimici il passo del fiume dell'Adda, aveva in questo assedio scrittogli molte volte che piglierebbe Napoli. Perciò, per non fare da se stesso falso il suo giudicio, stette ostinato a non si levare, contro al parere degli altri capitani, che vedendo il campo pieno di infermità lo consigliavano a ritirarlo a Capua o in qualche altro luogo salvo; perché avendo in mano quasi tutto il regno non gli sarebbe mancato né vettovaglie né denari, e arebbe consumato gli imperiali a' quali mancava ogni cosa.



V

Accordi fra i comandanti dei francesi e dei veneziani in Lombardia. Forze e movimenti degli eserciti avversari. Perdita di Genova da parte dei francesi. Presa e sacco di Pavia da parte dei collegati.

Non erano in questo mezzo state le cose di Lombardia senza travaglio: perché San Polo, raccolte le genti e la provisione delle vettovaglie, prese di là dal Po alcune terre e castella occupate prima da Antonio da Leva, che a' tre di agosto era alla Torretta attendendo a condurre piú vettovaglie poteva in Milano, dove non era piú persona di conto, e in tutto lo stato erano sí strette le ricolte che non vi era da vivere per otto mesi solamente per gli uomini del paese; dipoi si ritirò a Marignano, non potendo anche, per mancamento di denari, soprastare molto in quel luogo. Al quale tempo, il duca d'Urbino era ancora a Brescia e San Polo a Castelnuovo di Tortona: donde venuto a Piacenza si abboccorono, agli undici dí, a Monticelli in sul Po, dove si conchiuse che gli eserciti si unissino intorno a Lodi. Passò poi San Polo il Po presso a Cremona, essendogli comportato tacitamente a Piacenza che avesse barche per fare il ponte; e però Antonio de Leva, che aveva il ponte a Casciano e a sua divozione Caravaggio e Trevi, levò il ponte e abbandonò i luoghi di Ghiaradadda, come prima anche aveva abbandonata Novara; ma in Pavia aveva messi settecento fanti e in Santo Angelo cinquecento. Fu anche deliberato che il Vistarino con seicento fanti andasse alla impresa di Casé, in su la riva del Po dicontro a Tortona, perché impediva assai le vettovaglie.

Aveva San Polo quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri mille cinquecento fanti tedeschi a pagamento, ma in numero, per la negligenza di San Polo e per la fraude de' ministri suoi, molto minore; per i quali, e per gli altri tedeschi e svizzeri che si aspettavano, avevano convenuto i viniziani di pagare ciascuno mese a San Polo dodicimila ducati; e in campo trecento svizzeri, pagati a Ivrea per novecento, e tremila fanti franzesi. Avevano i viniziani trecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e seimila fanti, e il duca di Milano piú di duemila fanti eletti; il Leva quattromila tedeschi mille spagnuoli tremila italiani e trecento cavalli leggieri. Passorono le genti de' collegati Adda (avendo, secondo scrive l'oratore fiorentino, avuto, se il duca di Urbino avesse voluto, grande occasione di rompere Antonio de Leva), e si unirono a' ventidue di agosto; stando ancora fermo Antonio de Leva a Marignano. Da quello alloggiamento mandò il duca di Urbino a Santo Angelo tremila fanti e trecento cavalli leggieri con sei cannoni, sotto Giovanni di Naldo, che nello accamparsi fu morto da una artiglieria: però vi andò egli in persona, e l'ottenne. Alloggiorono il vigesimo quinto dí di agosto a San Zenone, in sul fiume del Lambro, propinquo a due miglia e mezzo a Marignano. A' ventisette le genti de' collegati, passato Lambro, si accostorono a Marignano; i quali accostandosi, gli spagnuoli si ritrassono in Marignano a uno riparo vecchio; e dopo scaramuccia di piú ore uscirono al largo, e si credette volessino combattere; e tirato per una ora da ogni banda, approssimandosi già la notte, si ritirorno in Marignano e Riozzo, e in su lo alloggiare il campo l'assaltorono bravamente. E a' ventiotto si ritirò Antonio de Leva con tutta la gente a Milano, i collegati a Landriano. Consultossi dipoi se fusse da tentare di sforzare Milano: il che mentre si praticava, andò lo esercito a Loccà con disegno di entrare in Milano per furto; che fu interrotto da una pioggia grossa che impedí, per la trista via, andare a porta Vercellina dove si aveva a entrare. Però, esclusi da questo disegno, ed essendo riferito, da chi fu mandato a riconoscere Milano, non essere riuscibile quella impresa, si deliberò di andare, per il cammino di Biagrassa, che altro non si poteva fare, a campo Pavia; sperando pigliarla facilmente, perché non vi erano piú di dugento fanti tedeschi e ottocento italiani. Cosí andando a quella volta, spinti certi fanti di là dal Tesino, fu preso Vigevano; e a' nove dí di settembre era San Polo a Santo Alesso, a tre miglia di Pavia: dove accostatisi l'uno e l'altro esercito, sopravenne avviso che gli messe in maggiore disputazione.

Perché, essendo in Genova la peste grandissima e per questo abbandonata quasi da ciascuno, eziandio quasi da tutti i soldati, e per il medesimo pericolo Teodoro governatore ritiratosi in castello, Andrea Doria, presa questa occasione, si approssimò alla città con alcune galee ma, non avendo piú che cinquecento fanti, con poca speranza di sforzarla. Ma l'armata franzese che era nel porto, temendo non gli fusse chiuso il cammino di andarsene in Francia, senza avere cura alcuna di Genova, si partí verso Savona; dove la prima che arrivasse fu la galea di Barbigios: benché alcuni dichino che Andrea Doria l'assaltò e prese sei galee, l'altre fuggirono. Donde essendo nella città pochi soldati, se bene Teodoro fusse tornato ad abitare nel palazzo, e il popolo, per la ingiuria della libertà data a Savona, inimico al nome di Francia, il Doria, avuta poca resistenza, vi entrò dentro. Fu cagione di tanta perdita la negligenza e il troppo promettersi del re, perché non pensando che le cose sue nel regno di Napoli cadessino sí presto, e persuadendosi che, in ogni caso, la ritirata dell'armata a Genova e la vicinità di San Polo bastassino a salvarla, pretermesse di farvi le provisioni necessarie. E Teodoro, ritirato nel castello, dimandava soccorso a San Polo, dando speranza di ricuperare la terra se gli fussino mandati subito tremila fanti. Sopra che consultandosi tra i capitani de' collegati, i franzesi erano disposti a andarvi subito con tutto il campo; e il duca d'Urbino mostrava che il provedere le barche per fare uno ponte in su Po, e il provedere le vettovaglie, era cosa piú lunga che non ricercava il bisogno presente: però, secondo il suo consiglio, si risolvé che Montigian voltasse, da Alessandria dove erano arrivati, a Genova tremila fanti tedeschi e svizzeri, i quali venivano all'esercito di San Polo; e quando pure non volessino andare gli conducesse in campo, e in cambio loro vi si mandassino tremila altri fanti; che intratanto si attendesse a strignere Pavia. E i viniziani davano intenzione, eziandio in caso non si pigliasse, soccorrere Genova con tutte le genti, purché restassino assicurati delle cose da quella banda.

Continuossi adunque la oppugnazione di Pavia: per la quale, a' quattordici, erano stati piantati in su il Tesino, di qua, al piano della banda di sotto, nove cannoni a uno bastione appiccato con l'arzanà, che in poche ore lo rovinorono quasi mezzo; e di là dal Tesino tre cannoni, per battere, quando si desse lo assalto, uno fianco che risponde all'arzanà; e in su uno colle di qua dal Tesino cinque cannoni che battevano due altri bastioni, e al finire del colle tre altri che tiravano alla muraglia: tutta artiglieria de' viniziani. Poi l'artiglieria di San Polo che levava le difese. E il dí seguente, Annibale castellano di Cremona si era condotto con una trincea in su il fosso del bastione del canto dell'arzanà, che era già giú piú che i due terzi; in modo che quegli dentro l'avevano quasi abbandonato: il quale dí fu morto da una artiglieria Malatesta da Sogliano condottiere de' viniziani. Cosí, continuato a battere tutto [il] dí e la notte seguente, si preparò l'esercito per dare la battaglia, essendo da ogni banda de' tre bastioni gittata muraglia assai; ma volendo la mattina cavare l'acqua de' fossi, vi trovorono uno muro sí gagliardo che vi consumorono tutto il dí ed eziandio il dí seguente, tanto che l'assalto si prolungò insino a' dí diciannove, essendo levata quasi tutta l'acqua. Nel quale dí, essendo al principio della mattina stato preso il bastione del canto, si cominciò a dare l'assalto; del quale, essendo divisa la gente in tre parti, toccava il primo assalto a Antonio da Castello con le genti de' viniziani, il secondo a Lorges con quelle di San Polo, l'ultimo al castellano con le genti di Milano, che (secondo il Cappella) erano mille dugento fanti; e il duca d'Urbino si messe a piede con dugento uomini d'arme e affrontò i bastioni, che si difeseno piú di due ore. Scrive il Cappella che dentro non erano piú che dugento tedeschi e ottocento italiani, che benché si portassino egregiamente, pure, per il poco numero, si difendevano con difficoltà. Ma il Martello scrive che dentro erano prima dumila fanti, e che di piú, a' diciotto, all'apparita del dí, vi entrorono cinquecento archibusieri eletti, in modo che fu difesa bravamente; ma l'artiglieria piantata di là dal Tesino strisciava tutti i loro ripari. E scrive il Cappella che e' fu ferito in una coscia, d'uno scoppio, Pietro da Birago che morí fra pochi dí, che non volle essere levato di terra acciò che i suoi non abbandonassino la battaglia; e fu ferito anche di scoppio Pietro Botticella, che si partí dalla battaglia: capitani tutt'e due del duca di Milano. Finalmente, a ore ventidue, si entrò dentro con poco danno, e con laude grande (secondo il Martello) del duca d'Urbino; e il Cappella scrive, con laude grande del Pizinardo. E scrive il Martello che di quegli di dentro furono ammazzati da seicento in ottocento, tra' quali quasi tutti i tedeschi (che erano quattrocento) che erano stati messi dagli spagnuoli alle difese; e che, innanzi si entrasse, mille fanti tra spagnuoli e italiani, usciti per la porta del castello, furno rotti da' cavalli. Ma cominciato a entrare dentro l'esercito, Galeazzo da Birago con molti soldati e uomini della terra si ritirò in castello. La città tutta andò a sacco, poco utile per i due sacchi precedenti. Il castello si accettò a patti, perché era necessario batterlo e in campo non era munizione, e i fossi larghissimi e profondissimi da non si riempiere sí presto, e dentro rifuggitivi cinquecento uomini di guerra. I patti furono che gli spagnuoli (che secondo il Martello in Pavia furno seicento), con l'artiglierie e munizioni che e' potessino tirare a braccia e ogni loro arnese, avessino facoltà, insieme co' tedeschi che erano restati pochissimi, di andarsene a Milano; e gl'italiani, in ogni luogo fuora che Milano.



VI

Proposito di San Polo di provvedere alle sorti di Genova. Provvedimenti del de Leva ritornato in Milano. Fallimento dell'impresa di San Polo; resa di Savona e del Castelletto di Genova. Mutamento del governo in Genova; azione per togliere le fazioni nella cittadinanza. Scontri fra le navi del Doria e quelle francesi; dispareri fra i collegati. Mutamento di dominio nel marchesato di Saluzzo. Vani tentativi dei francesi contro Andrea Doria. Fazioni di guerra in Lombardia. Manifestazioni dell'inclinazione del pontefice per Cesare.

Presa Pavia, consigliò il duca d'Urbino che non si pensasse a sforzare Milano, perché bisognava esercito bastante a due batterie, ma per fargli danno grande si pigliasse Biagrassa, San Giorgio, Moncia e Como, e che si attendesse al soccorso di Genova: perché se bene i tedeschi e svizzeri avevano risposto a Montigian di volere andare a Genova, nondimeno i tedeschi, per non essere pagati, se ne andorono a Ivrea; in modo che non si era mandato soccorso alcuno al Castelletto, dove Andrea Doria minava sollecitamente. Però San Polo, che era restato con cento lance e dumila fanti, partí a' ventisette alla volta di Genova, passando il Po a Portostella in bocca del Tesino, al cammino di Tortona; promettendo di ritornare indietro se intendesse il soccorso essere non riuscibile, e che il duca d'Urbino l'aspettasse in Pavia; al quale erano restati quattromila fanti. Ma con le genti viniziane andavano sempre dumila fanti del duca di Milano; ed erano anche in Savona mille fanti de' franzesi, ma senza denari.

E Antonio de Leva, ritirato in Milano, proibí allora che alcuno non potesse fare pane in casa o tenervi farina, eccetto i conduttori di quello dazio; i quali gli pagorono, nove mesi continui, per ogni moggio di farina tre ducati: co' quali denari pagò, tutto quello tempo, i cavalli e i fanti spagnuoli e i tedeschi. Il che non solo lo difese dal pericolo presente ma lo sostenne tutta la vernata futura, avendo alloggiati i fanti italiani a Novara e in alcune terre di Lomellina e per le ville del contado di Milano; ne' quali luoghi comportò che tutta la vernata predassino e taglieggiassino.

Giunse, al primo d'ottobre, San Polo a Gavi, lontano venticinque miglia da Genova, lasciata l'artiglieria a Novi, e il seguente prese la rocca del Borgo de' Fornari; e fattosi piú innanzi verso Genova, dove erano entrati settecento fanti corsi, si ritornò al Borgo de' Fornari; non si trovando in tutto, per mancamento di denari, quattromila fanti, tra i suoi quegli condotti da Montigian e mille che erano stati mandati dal campo con Niccolò Doria; e quegli pochi che gli erano restati continuamente passavano in Francia. Però (potendo dire a imitazione di Cesare, ma per contrario, Veni vidi fugi) mandò Montigian con trecento fanti a Savona, dove i genovesi erano a campo; ma non vi poterono entrare, perché era serrata con le trincee e presi attorno tutti i passi. Ritirossi, a' dieci dí d'ottobre, in Alessandria e dipoi a Senazzara tra Alessandria e Pavia, ad abboccarsi col duca di Urbino, ma restato quasi senza gente: dove consultando le cose comuni, il duca, dimostrando che tra' viniziani e il duca di Milano non erano restati quattromila fanti, e che Antonio de Leva aveva tra Milano e fuori quattromila tedeschi seicento spagnuoli e mille quattrocento italiani, si risolvé di ritirarsi in Pavia e che San Polo si ritirasse in Alessandria, che gli fu conceduta dal duca di Milano; ragionando di soldare tutti nuovi fanti, e poi, se i tempi servissino, fare la impresa di Biagrassa, di Mortara e del castello di Novara. Succedé che, a' ventuno di ottobre, [Savona], veduto che Montigian non vi era potuto entrare, s'arrendé in caso che fra certi dí non fusse soccorsa. Però San Polo, desideroso di soccorrerla ma avendo da sé in tutto mille fanti, dimandò tremila fanti al duca d'Urbino e al duca di Milano; i quali gliene mandorono milledugento, in modo la lasciò perdere. E il Castelletto di Genova si arrendé per la fame: il quale acquistato fu spianato da' genovesi, e pieno di sassi il porto di Savona, per renderlo inutile.

I quali, con la autorità di Andrea Doria, stabilirono in quella città uno governo nuovo, trattato prima, sotto nome di libertà; la somma del quale fu che da uno consiglio di quattrocento cittadini si creassino tutti i magistrati e degnità della loro città, e il doge principalmente e il supremo magistrato, per tempo di due anni; levata la proibizione a' gentiluomini, che prima per legge ne erano esclusi. Ed essendo il fondamento piú importante a conservare la libertà che si provedesse alle divisioni de' cittadini, le quali vi erano state lungamente maggiori e piú perniciose che in altra città di Italia (con ciò sia che non vi fusse una divisione sola, ma la parte de' guelfi e l'opposita de' ghibellini, quella tra i gentiluomini e i popolari, né anche i popolari tra loro di una medesima volontà, e la fazione molto potente tra gli Adorni e i Fregosi; per le quali divisioni si poteva credere che quella città, opportunissima per il sito e per la perizia delle cose navali allo imperio marittimo, fusse stata depressa e molto tempo in quasi continua soggezione), però per medicare dalle radici questo male, spenti tutti i nomi delle famiglie e de' casati della città, ne conservorono solamente il nome di ventotto delle piú illustri e piú chiare, eccettuate l'Adorna e la Fregosa, che del tutto furono spente. A' nomi e al numero delle quali famiglie aggregorono tutti quegli gentiluomini e popolari che restavano senza nome di casato; avendo rispetto, per confondere piú la memoria delle fazioni, di aggregare de' gentiluomini nelle famiglie popolari, de' popolari nelle famiglie de' gentiluomini, de' seguaci stati degli Adorni nelle case che avevano seguitato il nome Fregoso, e cosí, per contrario, de' Fregosi in quelle che erano state seguaci degli Adorni: ordinato ancora che tra loro non fusse distinzione alcuna di essere proibiti, piú questi che quegli, agli onori e a' magistrati. Con la quale confusione degli uomini e de' nomi speravano conseguire che, in progresso di non molti anni, si spegnesse la memoria pestifera delle fazioni: restando in quel mezzo tra loro grandissima l'autorità di Andrea Doria; senza il consenso del quale, per la riputazione dell'uomo, per l'autorità delle galee che aveva da Cesare (che ne' tempi che non andavano alle fazioni dimoravano nel porto di Genova), e per l'altre sue condizioni, non si sarebbe fatto deliberazione alcuna di quelle piú gravi; essendo manco molesto la potenza e grandezza sua, perché per ordine suo non si amministravano le pecunie, non si intrometteva nella elezione del doge e degli altri magistrati e nelle cose particolari e minori. In modo che i cittadini, quieti e intenti piú alle mercatanzie che alla ambizione, ricordandosi massime de' travagli delle suggezioni passate, avevano cagione di amare quella forma di governo.

Appiccoronsi poi l'armata franzese e quella di Andrea Doria tra Monaco e Nizza, dove una galea del Doria fu messa in fondo. Abboccoronsi, perduta Savona, di nuovo il duca di Urbino e San Polo a Senazé, tra Alessandria e Pavia; dove il duca, con poca sodisfazione di Francesco Sforza e di San Polo, risolvé di andarsene di là da Adda, lasciando al duca di Milano la guardia di Pavia e confortando San Polo a fermarsi quella vernata in Alessandria. Delle quali cose non solo si sodisfaceva poco a' ministri, ma ancora il re di Francia, non accettando alcune scuse leggiere dategli da' viniziani, si lamentava sommamente che i viniziani non avessino dato soccorso al Castelletto di Genova e alla città di Savona; la quale i genovesi sfasciavano, e avevano anche preso Vitadé e Gavi. Venneno dipoi a San Polo mille fanti tedeschi; co' quali, computati mille fanti che aveva Valdicerca in Lomellina, si trovava quattromila fanti.

Ed era anche nato nuovo tumulto nel marchesato di Saluzzo. Perché avendone preso, dopo la morte del marchese Michele Antonio, il dominio Francesco monsignore suo fratello, che era entrato dentro, perché Gabriello secondogenito, eziandio vivente il fratello maggiore, era stato tenuto prigione nella rocca di Ravel, per ordine della madre che in puerizia aveva governato i figliuoli, sotto titolo che e' fusse quasi mentecatto, il castellano di Ravel lo liberò; però, presa la madre che lo teneva prigione, acquistò, accettato da' popoli, tutto lo stato, del quale fuggí il fratello; che poco dipoi entrò in Carmignuola, e raccolte genti roppe poco di poi il fratello.

Non si fece piú in questo anno cosa di momento in Lombardia, se non che il conte di Gaiazzo scorse insino a Milano. Ma i viniziani non davano i fanti promessi a San Polo, per la impresa di Sarravalle, Gavi e altri luoghi del genovese. Tentossi bene una fazione importante, perché Montigian e Villacerca, con dumila fanti e cinquanta cavalli, partirno a ore ventidue da Vitadé, per pigliare Andrea Doria nel suo palazzo; il quale, posto accanto al mare, è quasi contiguo alle mura di Genova. Non ebbe effetto, perché i fanti, stracchi per la lunghezza del cammino che è ventidua miglia, non arrivorno di notte ma che già era qualche ora di dí: però, essendosi levato il romore, Andrea Doria, dalla banda di dietro saltato in su una barca, campò il pericolo; e i franzesi, non fatto altro effetto che saccheggiato il palazzo, salvi tornorono indietro. E il conte di Gaiazzo, fatta una imboscata tra Milano e Moncia, roppe cinquecento tedeschi e cento cavalli leggieri che andavano per fare scorta a vettovaglie; benché di poi, mandato da loro a Bergamo, afflisse con le ruberie in modo quella città che il senato viniziano, il quale l'aveva fatto capitano generale delle fanterie sue, non potendo piú tollerare tanta insolenza e avarizia lo rimosse ignominiosamente dagli stipendi suoi. Nel quale tempo gli spagnuoli anche preseno la terra di Vigevano. Ma sopravvenneno in quel di Genova dumila fanti spagnuoli, che a' venticinque di dicembre erano al Borgo de' Fornari, mandati di Spagna da Cesare per difendere Genova o per andare a Milano, secondo fusse di bisogno. A' quali per condurgli andò, per ordine di Antonio de Leva, il Belgioioso, che era fuggito di mano de' franzesi; e il quale, pochi dí innanzi, si era presentato una notte con dumila fanti e qualche artiglieria a Pavia, dove non erano piú che cinquecento fanti del duca di Milano, ma la cosa fu presentita, però si era ritirato senza frutto. Preparavasi San Polo per impedire la venuta di questi fanti, i quali accennavano fare il cammino o di Casé o di Piacenza, e instava che le genti viniziane si facessino forti a Lodi perché da Milano non fusse fatto loro spalle; e cercava anche persuadergli a fare comunemente la impresa di Milano (la quale il duca di Urbino dissuadeva), dove era carestia e tutte le calamità. Ma procedevano i viniziani freddi per l'ordinario alle fazioni gagliarde, ma in questo tempo molto piú, perché per le relazioni di Andrea Navaiero, che era tornato loro oratore di Spagna, fatte in favore di Cesare, e per qualche pratica che si teneva in Roma con l'oratore cesareo, erano vari pareri nel loro senato, inclinandosi molti a concordare con Cesare: pure finalmente fu risoluto continuare la confederazione col re di Francia. Nel quale tempo il Torniello, passato Tesino con dumila fanti, prese Basignana, e andava verso Lomellina; e l'abate di Farfa, andato a Crescentino, luogo del ducato di Savoia, co' suoi cavalli, fu di notte rotto e fatto prigione, ma liberato per opera della marchesa di Monferrato; e il marchese di Mus roppe alcune genti di Antonio de Leva e tolse loro le artiglierie.

Dubitavasi ancora che il pontefice non inclinasse alle parti di Cesare; perché il cardinale di Santa Croce arrivato a Napoli fece liberare i tre cardinali che erano statichi quivi, e si diceva che aveva commissione da Cesare di fare restituire Ostia e Civitavecchia; per opera del quale, avendone supplicato al pontefice, Andrea Doria restituí Portoercole a' sanesi. Ma si scopriva l'animo del pontefice a cose nuove: perché per opera sua, benché occultamente, Braccio Baglione molestava nelle cose di Perugia Malatesta, benché fusse agli stipendi suoi; e inteso il duca di Ferrara essere venuto a Modena, tentò di pigliarlo nel ritorno a Ferrara, con uno agguato di dugento cavalli, fatto da Paolo Luzasco alla casa de' Coppi nel modonese: ma non essendo quel dí partito il duca, la cosa si scoperse.



VII

Provvedimenti dei collegati per continuare la guerra nel regno di Napoli; atti di terrore ed esazioni del principe d'Oranges; fazioni di guerra. Indizi di disposizione alla pace; riconquiste del principe d'Oranges negli Abruzzi. Promesse del pontefice ai collegati e sue trattative con Cesare. Posizione degli eserciti in Puglia. Vani tentativi degli imperiali contro Monopoli. Nuove fazioni di guerra.

Ma in questo tempo il reame napoletano non era perciò, per la rotta de' franzesi, liberato interamente dalle calamità della guerra. Perché Simone Romano, raccolte di nuovo genti, aveva preso Nola, Oriolo e Amigdalara, poste in sul mare nel braccio dello Apennino; e unitosi con lui Federico Caraffa, mandato dal duca di Gravina con mille fanti e molti altri del paese, aveva esercito non contennendo: ma dopo la vittoria degli imperiali intorno a Napoli, abbandonato dalle genti del duca di Gravina, saccheggiata Barletta (nella quale città fu intromesso per la rocca), si fermò quivi; tenendosi nel tempo medesimo per i viniziani Trani guardato da Cammillo, e Monopoli guardato da Giancurrado, tutt'a due della famiglia degli Orsini. Vennonvi poi Renzo da Ceri e il principe di Melfi con mille fanti; i quali, essendosi ridotti tra Nocera e Gualdo, e dipoi partitisi per comandamento del pontefice (il quale non voleva offendere l'animo de' vincitori), imbarcatisi a Sinigaglia, si condussono per mare a Barletta, con intenzione di rinnovare la guerra in Puglia; cosa deliberata con consentimento comune de' collegati, perché l'esercito imperiale fusse necessitato a fermarsi nel regno di Napoli insino alla primavera: al quale tempo si ragionava di fare per la salute comune nuove provisioni. Però il re di Francia mandò a Renzo soccorso di danari; e i viniziani, desiderando il medesimo, eziandio per ritenere piú facilmente con gli aiuti degli altri le terre occupate nella Puglia, offerivano di accomodarlo di dodici galee, ma instando che essi le armassino, e che la spesa si computasse negli ottantamila ducati a' quali erano tenuti per la contribuzione promessa a Lautrech, non udivano; e il re di Inghilterra prometteva di non mancare delle provisioni ordinarie, e i fiorentini si erano composti di pagare la terza parte delle genti vi aveva condotte Renzo. Non erano pronti a estinguere questo incendio gli imperiali, occupati in esigere de' danari, per sodisfare a' soldati de' pagamenti decorsi: le quali esazioni per fare piú facili, e per assicurare il reame con gli esempli della severità, fece il principe di Oranges decapitare publicamente in sulla piazza del mercato di Napoli, dove era la peste grande, Federigo Gaetano figliuolo del duca di Traietto ed Enrico Pandone duca di Boviano nato di una figliuola di Ferdinando vecchio re di Napoli, e quattro altri napoletani; usando ancora simili supplíci in altri luoghi del regno. Col quale esempio spaventati gli animi di ciascuno, procedendo contro agli assenti che avevano seguitato i franzesi, e confiscando i loro beni, gli componevano poi in danari; non pretermettendo acerbità alcuna per esigerne maggiore quantità potessino. Le quali cose tutte si trattavano da Ieronimo Morone, al quale in premio delle opere sue fu donato il ducato di Boviano. Aggiunsesi a questi movimenti che nello Abruzzi Giaiacopo Franco entrò per il re di Francia nella Matrice, che è vicina alla Aquila: per il che tutto il paese era sollevato, e nella Aquila si stava con sospetto; dove era Sciarra Colonna, ammalato, con seicento fanti. Provedevano anche i viniziani le cose di Puglia, e mandando per mare alcuni cavalli leggieri per fornire Barletta dettono a traverso in parte della spiaggia di Barletta e di Trani, dove il proveditore loro annegò, che era montato in su uno battello; i cavalli, de' quali era capo Giancurrado Orsino, maltrattati detteno nelle mani degl'imperiali; e Giampaolo da Ceri, che roppe presso al Guasto, restò prigione del marchese. Dettesi, nella fine dell'anno, l'Aquila alla lega, per opera del vescovo di quella città e del conte di Montorio e d'altri fuorusciti; a che dette causa l'essere maltrattata dagl'imperiali.

Seguita l'anno mille cinquecento ventinove; nel principio del quale cominciò ad apparire qualche indizio di disposizione, da qualunque parte, alla pace; dimostrando di volerla trattare appresso al pontefice: perché sapendosi che il cardinale di Santa Croce (cosí era il titolo del generale spagnuolo) andava a Roma con mandato di Cesare a potere conchiudere la pace, il re di Francia che ne aveva sommo desiderio spedí il mandato agl'imbasciadori suoi, e il re di Inghilterra mandò imbasciadori a Roma per la medesima cagione. Le quali pratiche, aggiunte alla stracchezza de' príncipi, facevano che i collegati alle provisioni della guerra procedevano lentamente. Perché e in Lombardia era il maggiore pensiero se gli spagnuoli, venuti a Genova, arebbeno facoltà di passare a Milano (donde per mancamento, di denari erano partiti quasi tutti i tedeschi); a' quali condurre andato il Belgioioso con cento cavalli insino a Casé, passò di quivi sconosciuto a Genova, donde condusse i fanti a Savona per raccôrre cinquecento fanti venuti di nuovo di Spagna e sbarcati a Villafranca. Ma nel regno di Napoli, dubitando gli imperiali che la rebellione dell'Aquila e della Matrice, e la testa fatta in Puglia, non partorissino cosa di maggiore momento, deliberorno voltare alla espugnazione di quegli luoghi le genti che aveano: però fu deliberato che 'l marchese del Guasto andasse co' fanti spagnuoli alla recuperazione delle terre di Puglia, e il principe co' fanti tedeschi andasse alla recuperazione dell'Aquila e della Matrice. Il quale come si accostò all'Aquila, quegli che erano nell'Aquila se ne uscirono, e Oranges compose la città e tutto il suo contado in centomila ducati; tolta ancora la cassa di argento, la quale Luigi decimo re di Francia aveva dedicata a san Bernardino. Di quivi mandò gente alla Matrice, dove era Cammillo Pardo con quattrocento fanti, che se ne era uscito prima con promessa di tornare; ma o temendo perché non vi era vino e tolto l'acqua, e discordia tra la terra e i fanti, o per altra cagione, non solo non vi tornò ma non mandò anche loro tutti i denari che gli mandorono i fiorentini per sostentare quel luogo: però i fanti se ne uscirono per le mura, e la terra si arrendé. E si temeva che Oranges non passasse in Toscana a instanza del pontefice.

In quale, riconvaluto di pericolosissima benché breve infermità, non desisteva di trattare e di dare speranza a ciascuno. Perché a' franzesi prometteva aderire alla lega se gli era restituita Ravenna e Cervia, componendo eziandio con oneste condizioni co' fiorentini e col duca di Ferrara; il quale, nel pagamento de' danari a Lautrech, aveva affermato pagargli per sua liberalità non già perché fusse obligato, non avendo il pontefice ratificato. Da altra parte, avendo recuperato, benché con grossi beveraggi, per la commissione portata dal cardinale di Santa Croce, le fortezze di Ostia e di Civitavecchia, aveva pratiche piú occulte e piú fidate con Cesare; trattando piú insieme le cose particolari che le universali della pace: le quali cominciavano ad avere piú secreto e piú fondato maneggio per altre mani, perché, di febbraio, uno uomo di madama Margherita venuto in Francia, parlato che ebbe al re, passò in Spagna.

Ma in Puglia questo era lo stato delle cose. Tenevasi Barletta per il re di Francia, nella quale era Renzo da Ceri, e con lui il principe di Melfi, Federico Caraffa, Simone Romano, Cammillo Pardo, Galeazzo da Farnese e Giancurrado Orsino e il principe di Stigliano. Tenevano i viniziani Trani, Pulignano e Monopoli, avendo in questi luoghi dumila fanti e secento cappelletti, de' quali ne erano in Monopoli dugento. Tenevano anche il porto di Biestri. Ma a queste genti il re di Francia, mandata che ebbe da principio piccola quantità di danari, non faceva alcuna provisione, né aveva accettati i corpi delle dodici galee offertigli da' viniziani; de' quali si roppono, nella spiaggia di Bestrice, tre galee e una fusta grossa, che andavano a provedere di vettovaglie Trani e Barletta: ma in piú volte n'aveano perdute cinque, ma ricuperata l'artiglieria e gli altri armamenti. Tenevasi ancora per i franzesi il monte di Santo Angelo, Nardoa in terra di Otranto e Castro, dove era il conte di Dugento, e facendo la guerra con gli uomini del regno e con le forze del paese, erano adunati in vari luoghi molti rebelli di Cesare e molti che seguitavano come soldati di ventura la guerra solamente per rubare; donde era piú che non si potrebbe credere miserabile la condizione del paese, sottoposto tutto a ruberie a prede a taglie e incendi da ciascuna delle parti. Ma piú che di altri erano famose le incursioni di Simone Romano, il quale, correndo co' suoi cavalli leggieri e con dugento cinquanta fanti per tutti i luoghi circostanti, conduceva spesso in Barletta bestiami frumenti e altre cose di ogni sorte; talvolta, uscendo con maggiore numero di fanti, ora per furto ora per forza saccheggiava questa e quell'altra terra: come accadde di Canosa, nella quale terra entrato di notte con le scale la svaligiò, e menonne molti cavalli di quaranta uomini d'arme alloggiati nel castello. Finalmente il marchese di Guasto, non tentata Barletta terra fortissima e bene fortificata, si pose, del mese di marzo, a campo a Monopoli con quattromila fanti spagnuoli e dumila fanti italiani, perché i tedeschi, in numero dumila cinquecento, fermatisi nell'Abruzzi recusorono di andare in Puglia; e alloggiò in una valletta coperta dal monte, in modo non poteva essere offeso dalle artiglierie della terra: nella quale Renzo mandò subito, in sulle galee, trecento fanti.

Ha Monopoli, terra di circuito piccolissimo, il mare da tre bande, e di verso la terra è la muraglia di trecento o trecento cinquanta passi, col fosso intorno. A rincontro della muraglia fece il marchese uno bastione vicino a uno tiro di archibuso, e due altri in sul lito del mare, uno da ogni parte; ma questi tanto lontani che battevano il mare e la porta di verso il mare, per impedire che le galee non vi mettessino soccorso o vettovaglia. Dette, di aprile, il Guasto l'assalto a Monopoli; dove, secondo gli avvisi di Barletta, perdé piú di cinquecento uomini e molti guastatori, e rotti tre pezzi di artiglieria; e si discostò uno miglio e mezzo: perché i viniziani, usciti fuora, scorseno tutti i bastioni suoi, ammazzando piú di cento uomini; e l'artiglieria della terra gli danneggiava assai, e avevano assicurato il porto con uno bastione fatto in su il lito a rincontro del suo. E perché i viniziani non bastavano a guardare quello e l'altre terre, Renzo aveva mandato gente a Monopoli; e una delle due galee loro che andavano a Monopoli con fanti e vettovaglie si roppe in porto.

Accostossi di nuovo il Guasto a Monopoli (dove era Cammillo Orsino e Giovanni Vitturio proveditore), dove faceva due cavalieri per battere per di dentro, e trincee per condursi in su' fossi e riempiergli con seicento carra di fascine (ma poco poi, usciti di Monopoli dugento fanti, abbruciorno il bastione o cavaliere di mezzo); e accostatosi con una trincea al diritto della batteria, e fatta una altra trincea al diritto degli alloggiamenti spagnuoli, lontana al fosso uno tiro di mano, e dietro a quella fortificato uno bastione, vi piantò su l'artiglieria, e batté sessanta braccia di muro, a quattro braccia da terra vel circa. Ma inteso che la notte vi era entrato Melfi, con genti mandate da Renzo, ritirò l'artiglieria; e finalmente, essendo la fine di maggio, ne levò il campo.

Seguitorono, e mentre stava il campo a Monopoli e dopo la ritirata, varie fazioni e movimenti; perché e quegli di Barletta facevano prede e danni grandissimi e i fanti che erano nel monte di Santo Angelo, de' quali era capo Federico Caraffa, presono San Severo e, soccorsa la terra di Vico, costrinsono gli imperiali a levarne il campo. Andò poi il Caraffa per mare con ventisei vele a Lanciano, dove erano alloggiati cento sessanta uomini d'arme; ed entratovi per forza ne menò trecento cavalli da fazione e molta preda, non vi lasciato alcuno presidio. Facevano anche molti fuorusciti danni grandissimi in Basilicata. Per le quali difficoltà si impediva molto agli imperiali l'esigere le imposizioni: né è dubbio, che se il re di Francia avesse mandato danari e qualche soccorso, che sariano per tutto il regno succeduti nuovi travagli, per i quali sarebbe stato almeno implicato l'esercito cesareo alla difesa delle cose proprie. Ma non potevano finalmente genti tumultuarie e collettizie, e senza soccorso o rinfrescamento alcuno (perché soli i fiorentini davano a Renzo qualche sussidio), fare cose di momento grande (anzi il duca di Ferrara denegò a Renzo di mandargli per mare quattro pezzi di artiglierie); perché in Barletta cominciava a mancare frumento e danari; e circa secento rebelli assediati dal viceré della provincia in Monte Lione, necessitati ad arrendersi per non avere né munizioni né vettovaglie, furno condotti prigioni a Napoli. Andorono dipoi il principe di Melfi con l'armate, e Federico Caraffa per terra, a campo a Malfetta, terra già del principe; dove Federico combattendo fu ammazzato da uno sasso: donde il principe sdegnato, sforzata la terra, la saccheggiò. Simile infortunio accadde a Simone Romano: perché essendo l'armata viniziana, la quale da Cavo di Otranto infestava tutto il paese, accostatasi a Brindisi, e poste genti in terra, dove anche era Simone Romano, occuporono la città; ma combattendo la rocca, Simone fu morto di una artiglieria.



VIII

Fazioni di guerra in Lombardia; accordi fra i collegati; arrivo di fanti spagnuoli dal genovese ad Antonio de Leva. Aspirazioni del pontefice su Perugia; timori di Malatesta Baglione e suoi accordi coi fiorentini e coi francesi. Intrighi del pontefice contro il duca di Ferrara. Il pontefice fa bruciare la bolla con cui accordava il divorzio al re d'Inghilterra; disgrazia e morte del cardinale eboracense.

Ma in Lombardia, di marzo, San Polo prese per forza Serravalle, e la fortezza si accordò di stare neutrale. Ma essendovi gli inimici rientrati di notte di furto, si temeva non potere piú impedire agli spagnuoli il cammino per Milano, massime che ogni dí gli diminuivano le genti per mancamento di denari; avendone pochi dal re, e di quegli, come capitano di pochissimo governo, spendendone una parte per sé (che diceva esserne creditore del re) un'altra parte fraudata da' ministri. Disputavasi tra il re e i viniziani quale impresa fusse da fare, e il re instava di Genova, per la importanza di quella città, massime affermandosi già per cosa certa che Cesare passerebbe la state prossima in Italia, e perché il re, veduto i viniziani non l'avere mai aiutato né a soccorrere né a recuperare quella città, non ostante si fussino escusati allegando essere stato rumore della venuta in Italia di nuovi tedeschi, dubitava non fusse molesta loro la vittoria di quella impresa: ma i viniziani, allegando essere restata a Antonio de Leva pochissima gente, e offerendo, acquistato che fusse Milano, mandare le genti alla espugnazione di Genova, si deliberò fare, con suo consentimento, la impresa di Milano con sedicimila fanti, provedendo ciascuno alla metà. Fu questa deliberazione fatta di marzo, e assente il duca di Urbino; il quale, per l'essersi approssimati a' confini del regno il principe di Oranges e i fanti tedeschi, si era, quasi contro alla volontà de' viniziani, ridotto nel suo stato: ma i viniziani lo condussono di nuovo, con le condizioni medesime le quali aveano prima ottenute da loro il conte di Pitigliano e Bartolommeo d'Alviano, e gli mandorono trecento cavalli e tremila fanti per sua difesa, come erano tenuti: e detteno il titolo di governatore a Ianus Fregoso. Erano nell'esercito viniziano secento uomini d'arme mille cavalli leggieri e quattromila fanti, benché fussino obligati a tenerne dodicimila; il quale esercito prese, il sesto dí di aprile, Casciano per forza e la rocca a discrizione: e Antonio de Leva e il Torniello, usciti di Milano per divertire, vi si ritirorono. Succedette la passata de' fanti spagnuoli, che erano mille dugento, del genovese a Milano; per impedire la quale si erano fatte tante pratiche e tante consulte. Perché, avendo creduto San Polo e i viniziani che e' tentassino di passare per il tortonese e lo alessandrino, partiti da Voltaggio, preseno, per ordine del Belgioioso, cammino piú lungo per la montagna di Piacenza e luoghi sudditi alla Chiesa; ed essendo venuti a Varzi nella montagna predetta, non ostante che San Polo inviasse in là centocinquanta cavalli, e desse avviso del cammino loro a Lodi e alle genti de' viniziani (i quali, per ovviare, mandorono parte delle loro genti al duca di Milano, ma piú tardi uno giorno di quello che era necessario e minore numero di quelle che avevano promesso), passorono di notte il Po ad Arena, serviti di navi di Piacenza (né si poteva piú ovviare l'unione loro col Leva, che per facilitarla era venuto a Landriano, dodici miglia da Pavia); e condottisi a Milano, essendo sí poveri d'ogni cosa che si conveniva loro il nome di bisognoso, accrebbeno le calamità de' milanesi, spogliandogli insino per le strade. Cosí restorono vani i disegni de' franzesi e de' viniziani, di tutta la vernata, che erano stati di impedire la passata di questi fanti, pigliare Gavi e i luoghi circostanti per conto di Genova, e Case, che faceva danno grande a tutto il paese. Prese ancora Antonio de Leva a patti Binasco. Ma l'essere stati gli spagnuoli accomodati di barche da Piacenza, e il credersi che non si sarebbeno mossi se non avessino avuto certezza di potere in caso di necessità ritirarsi in quella città, aggiunto a molti altri indizi, accresceva a' collegati il sospetto (e massime veduta la restituzione delle fortezze) che il pontefice non fusse accordato o per accordare con Cesare.

Il quale avendo volto, benché occultamente, tutti i suoi pensieri a ricuperare lo stato di Firenze, se bene aggirando gli oratori franzesi tenesse varie pratiche e proponesse varie speranze, a loro e agli altri confederati, di accostarsi alla lega, nondimeno, parte movendolo il timore della grandezza di Cesare e la prosperità de' suoi successi, parte lo sperare di indurre piú facilmente lui che non arebbe indotto il re di Francia ad aiutarlo a rimettere i suoi in Firenze, desiderava estremamente, per facilitare questo disegno, tirare a sua divozione lo stato di Perugia: però si credeva che fomentasse Braccio Baglione e Pirro, che tutto dí tentavano nuovi travagli in quegli confini. Per il quale sospetto Malatesta, dubitando che mentre stava a' soldi suoi non avesse a essere oppresso con il suo favore, gli pareva necessario cercarsi di altra protezione. E però, mosso o da questa cagione o da cupidità di maggiori partiti, o dall'odio antico, negava di ricondursi seco, pretendendo non essere tenuto all'anno del beneplacito, perché diceva non apparirne scrittura, benché il pontefice affermasse che gli era obligato: però trattando di condursi col re di Francia e co' fiorentini, e lamentandosi eziandio di pratiche tenute dal cardinale di Cortona contro a lui, e di una lettera, che aveva intercetta, del cardinale de' Medici a Braccio Baglione. Ma il pontefice, volendo per indiretto interrompere questa condotta, proibí per editti publici che niuno suo suddito pigliasse senza sua licenza soldo da altri príncipi, sotto pena di confiscazione. Nondimeno, non restò per questo Malatesta di condursi. Al quale i franzesi si obligorono di dare dugento cavalli, dumila scudi di provisione, l'ordine di San Michele e dumila fanti in tempo di guerra; e i fiorentini gli detteno titolo di governatore, dumila scudi di provisione, mille fanti in tempo di guerra, cinquanta cavalli al figliuolo suo e cinquanta al figliuolo di Orazio, e cinquecento scudi per il piatto di tutti due; preseno la protezione del suo stato e di Perugia; e tra il re di Francia e loro cento scudi il mese a tempo di pace, per intrattenere dieci capitani. Pagavongli i fiorentini anche dugento fanti per guardare Perugia; ed egli obligato, ne' bisogni loro, di andare a servirgli con mille fanti soli, non avendo eziandio le genti promesse da' franzesi. Querelossi molto appresso al re di Francia il pontefice di questa condotta, come fatta direttamente per impedirgli di potere disporre a suo arbitrio d'una città suddita alla Chiesa. L'animo del quale non volendo il re offendere, differiva il ratificarla; e il pontefice per questo sperando di poterne rimuovere Malatesta, lo persuadeva che continuasse l'anno del beneplacito, e nel tempo medesimo fomentava occultamente Braccio Baglione, Sciarra Colonna e i fuorusciti di Perugia, i quali raccogliendo gente si erano accampati a Norcia: cose tutte vane, perché Malatesta era deliberato non continuare negli stipendi del pontefice; e aiutandolo scopertamente i fiorentini, non temeva di questi movimenti: i quali conoscendo il pontefice non bastare alla sua intenzione, presto cessorono. Non lasciava anche il pontefice stare quieto il duca di Ferrara, tanto alieno dalle convenzioni fatte in nome del collegio de' cardinali con lui che, essendo vacato di nuovo il vescovato di Modona per la morte del cardinale da Gonzaga, promesso al figliuolo del duca in quella convenzione, lo conferí a uno figliuolo di Ieronimo Morone; cercando, per la denegazione del possesso, occasione di provocargli contro questo ministro di autorità appresso allo esercito imperiale. Ma si crede che ancora, per mezzo di Uberto da Gambara governatore di Bologna, trattasse con Ieronimo Pio di occupare Reggio: del quale il duca, pervenutogli indizio di questa pratica, fece pigliare il debito supplicio. Trattava anche di recuperare furtivamente Ravenna, cosa che medesimamente riuscí vana.

Nel quale tempo anche, o poco poi, il pontefice, inclinando ogni dí piú con l'animo alle parti di Cesare, ed essendo già con lui in pratiche molto strette, per le quali mandò il vescovo di Vasone suo maestro di casa a Cesare, avocò in ruota la causa del divorzio di Inghilterra: cosa che arebbe fatto molto innanzi se non l'avesse ritenuto il rispetto della bolla che era in Inghilterra, in mano del Campeggio. Perché, essendo augumentate le cose di Cesare in Italia, non solamente non volendo offenderlo piú ma rivocare l'offesa che gli aveva fatta, deliberato eziandio, innanzi che ammalasse, di avocare la causa, mandò Francesco Campana in Inghilterra al cardinale Campeggio, dimostrando al re mandarlo per altre cagioni pure attenenti a quella causa, ma con commissione al Campeggio che abbruciasse la bolla: il che benché differisse di eseguire, per essere sopravenuta la infermità del pontefice, guarendo poi, messe a effetto il comandamento suo. Però il pontefice, liberato da questo timore, avocò la causa, con indegnazione grandissima di quel re, massime quando dimandando la bolla al cardinale intese quello che ne era successo. Partorirono queste cose la ruina del cardinale eboracense, perché il re presupponeva la autorità del cardinale essere tale appresso al pontefice che, se gli fusse stato grato il matrimonio con Anna, arebbe ottenuto tutto quello che avesse voluto. Per la quale indegnazione aperti gli orecchi alla invidia e alle calunnie de' suoi avversari, toltogli i danari e le robe sue mobili di immoderata valuta, e delle entrate ecclesiastiche lasciatagli una piccola parte, lo relegò al suo vescovado con pochi servitori; né molto poi, o per avere intercette sue lettere al re di Francia o per altra cagione, istigato dai medesimi, i quali per certe parole dette dal re, che dimostravano desiderio di lui, temevano che egli non recuperasse la pristina autorità, lo citò a difendere una accusazione introdotta contro a lui nel consiglio regio; per la quale essendo menato alla corte come prigione, sopravenutogli, nel cammino, flusso o per sdegno o per timore, morí il secondo dí della sua infermità: esempio, a' tempi nostri, memorabile di quel che possa la fortuna e la invidia nelle corti de' príncipi.



IX

Saggi indirizzi di politica del gonfaloniere fiorentino Niccolò Capponi; opposizione di cittadini ambiziosi, che diffondono sospetti fra la moltitudine; sostituzione del gonfaloniere.

Ma in questo tempo succedette in Firenze nuova alterazione contro a Niccolò Capponi gonfaloniere, quasi alla fine del secondo anno del suo magistrato, concitata principalmente dalla invidia di alcuni cittadini principali, i quali usorono per occasione il sospetto vano e la ignoranza della moltitudine. Aveva Niccolò avuto in tutto il suo magistrato due obietti principali: difendere contro alla invidia fresca quegli che erano stati onorati dai Medici, anzi, che co' principali di loro si comunicassino, come con gli altri cittadini, gli onori e i consigli publici; e nelle cose che non erano di momento alla libertà non esacerbare l'animo del pontefice: cosa l'una e l'altra molto utile alla republica, perché molti di quegli medesimi che, come inimici del governo, erano perseguitati sarebbono stati amicissimi, sapendo massime che il pontefice, per le cose succedute ne' tempi che si mutò lo stato, aveva mala sodisfazione di loro; e il pontefice, se bene desiderasse ardentissimamente il ritorno de' suoi, pure, non provocato di nuovo, aveva minore causa di precipitarsi e di querelarsi, come continuamente faceva, con gli altri príncipi. Ma a queste cose si opponeva la ambizione di alcuni i quali, conoscendo, se erano ammessi nel governo quegli altri, uomini senza dubbio di maggiore esperienza e valore, dovere restare minore la loro autorità, non attendevano ad altro che a tenere la moltitudine piena di sospetto del pontefice e di loro; calunniando il gonfaloniere per queste cagioni, e perché non ottenesse la prorogazione nel magistrato per il terzo anno, che non avesse l'animo alieno, quanto ricercava la autorità della republica, da' Medici. Dalle quali calunnie egli inconcusso, e giudicando molto utile che il pontefice non si esasperasse, intratteneva con lettere e con imbasciate il pontefice privatamente; pratiche però non cominciate né proseguite senza saputa sempre di alcuni de' principali e di quegli che erano ne' primi magistrati, né a altro fine che per rimuoverlo da qualche precipitazione. Ma essendogli per caso caduta una lettera ricevuta da Roma, nella quale era qualche parola da generare sospetto a quegli che non sapevano la origine e il fondamento di queste cose, e pervenuta nelle mani di alcuni di quegli che risedevano nel supremo magistrato, concitati alcuni giovani sediziosi, occuporono con l'armi il palagio publico, ritenendo quasi come in custodia il gonfaloniere; e chiamati i magistrati e molti cittadini, quasi tumultuosamente deliberorno che fusse privato del magistrato. La quale cosa approvata nel consiglio maggiore, si cominciò poi a conoscere legittimamente la causa sua; e assoluto dal giudicio fu con grandissimo onore accompagnato alle case sue da quasi tutta la nobiltà: ma surrogato in luogo suo Francesco Carducci, indegno, se tu riguardi la vita passata le condizioni sue e i fini pravi, di tanto onore.



X

Insuccesso dei collegati sotto Mortara. Disposizione del re di Francia e di Cesare alla pace, e primi accordi. Progressi dei collegati in Lombardia; discussioni e deliberazioni dei capitani dei collegati; vittoria degli imperiali a Landriano.

A ventisette di aprile, passò Po a Valenza San Polo: per la passata del quale gli imperiali abbandonorono il Borgo a Basignano e la Pieve al Cairo. Di quivi mandò Guido Rangone, con parte dello esercito, a Mortara, che era forte per fossi doppi, fianchi e acqua: i quali, avendo la notte piantato l'artiglieria senza provisione di gabbioni trincee e simili preparazioni, furono in su il dí assaltati da quegli di dentro, che feciono loro danno assai e inchiodorno due pezzi d'artiglierie, con pericolo di non le pigliare tutte; non senza infamia di Guido, benché, indisposto del corpo, non si fusse trovato presente quando si piantorono. Era allora in Milano mala provisione; ma non erano migliori quelle de' franzesi e de' viniziani, che ricercando e dolendosi l'uno dell'altro non facevano alcuna provisione (pure San Polo diceva aspettare dumila alamanni): donde, tra l'altre difficoltà, nasceva ne' collegati qualche dubbio che il duca di Milano, veduta la poca speranza che gli restava di avere con le forze e aiuti loro a ricuperare quello stato, non facesse per mezzo del Morone qualche concordia con gli imperiali.

Ma erano i pensieri del re di Francia indiritti tutti alla pace, diffidandosi di potere altrimenti recuperare i figliuoli. Alla quale essendo anche inclinato Cesare, erano tornati di Spagna due uomini di madama Margherita, con mandato amplissimo in lei per fare la pace: di che essendo certificato il re da Lelu Baiard suo segretario, quale per questa cagione aveva spedito in Fiandra, dimandò a' collegati che mandassino anche loro i mandati. Ed essendosi spiccato con l'animo effettualmente da tutte le provisioni della guerra, cercando pure tirare a sé qualche giustificazione, si lamentava che i viniziani ricusavano contribuire a' denari per la passata sua: i quali, se bene da principio l'avessino stimolato caldamente, passando Cesare, a passare, e il re avesse offerto di farlo con dumila quattrocento lancie mille cavalli leggieri e ventimila fanti, in caso che da' confederati gli [si] dessino danari per pagare, oltre a questi, mille cavalli leggieri e ventimila fanti, e concorressino alla metà della spesa delle artiglierie, nondimeno poi, qual fusse la cagione, si ritiravano.

San Polo in questo tempo sforzò con quattro cannoni Santo Angelo, dove erano quattrocento fanti; poi si volse a San Colombano, per aprirsi le vettovaglie di Piacenza, che si accordò: e inteso Pavia essere di nuovo provista insino a mille fanti e in Milano quattromila, ma molti ammalati, volse il pensiero a Milano; e il Leva messe fanti in Moncia. Arrendessi, a' due di maggio, Mortara a San Polo a discrezione, battuta in modo che non poteva piú difendersi; e il Torniello, lasciata la terra di Novara ma non la rocca, dove messe pochissimi fanti, si ritirò a Milano: in modo che gli imperiali non tenevano, di là dal Tesino, altro che Gaia e la rocca di Bià, avendo San Polo anche presa la rocca di Vigevano. Andò, a' dieci, al Ponte a Loca con piú di seimila fanti vivi, per unirsi, al borgo a San Martino, co' viniziani, che ne avevano manco di quattro. Arrivò dipoi il duca di Urbino allo esercito; e venuti insieme a parlamento, a Belgioioso, determinorono nel consiglio comune di accamparsi a Milano con due eserciti da due parti, e che perciò San Polo, passato il Tesino, girasse a Biagrassa per sforzarla, e il dí medesimo i viniziani al borgo di San Martino, lontano da Milano cinque miglia; affermando i viniziani avere dodicimila fanti e San Polo otto, col quale dovevano unirsi i fanti del duca di Milano. Però San Polo passò il Tesino, e avendo trovato la terra di Biagrassa abbandonata ottenne per accordo la rocca; ed essendo, il dí davanti alloggiato San Polo a Gazano, in su il navilio grande, a otto miglia di Milano, parlorono di nuovo, il terzo dí di giugno, a Binasco. Nel quale luogo, essendo certificati che i viniziani non aveano la metà de' dodicimila fanti a' quali erano tenuti per i capitoli della confederazione, e querelandosene gravemente San Polo, fu deliberato di accostarsi con uno campo solo a Milano dalla banda del lazaretto; non ostante che il conte Guido dicesse che Antonio de Leva, il quale non teneva altro che Milano e Como, usava dire che Milano non si poteva sforzare se non con due campi. Ma pochi dí poi, congregati i capi dell'uno e l'altro esercito in Lodi, per consultare di nuovo, il duca di Milano e il duca di Urbino, benché prima avessino fatto instanza che si andasse a campo a Milano e dissuaso lo andare a Genova, consigliorono il contrario; allegando il duca di Urbino, per questa nuova deliberazione, molte ragioni, ma principalmente che, poiché Cesare si preparava a passare in Italia (per il quale condurre era partito con le galee il Doria, agli otto di giugno, da Genova), e che si intendeva che in Germania si faceva preparazione di mandare nuovi tedeschi sotto il capitano Felix non sapeva quello che fusse meglio, o pigliare Milano o non lo pigliare. Allegavansi da lui queste ragioni, ma si credeva che veramente lo movesse l'antica sua consuetudine di non fare né dell'animo né della virtú esperienza alcuna, o che forse, persuadendosi dovere succedere la pace che si trattava in Fiandra, avesse dimostrato al senato viniziano, il quale fortificava Bergamo, essere inutile, o ammesso o escluso che ne fussi, spendere per la recuperazione di Milano. La somma del suo consiglio fu che le genti de' viniziani si fermassino a Casciano, quelle del duca di Milano a Pavia, San Polo a Biagrassa, attendendo a vietare co' cavalli che vettovaglie non entrassino a Milano, dove si stimava fussino per mancare presto, perché era seminata piccolissima parte di quello contado. Non potette San Polo rimuovergli da questa sentenza, ma non approvò già il fermarsi col suo esercito a Biagrassa, allegando che ad affamare Milano bastava che le genti viniziane si fermassino a Moncia, le sforzesche a Pavia e a Vigevano, e che il re lo stimolava, in caso non si andasse a campo a Milano, di fare la impresa di Genova: la quale aveva in animo di tentare con celerità grande, sperando che, in assenza del Doria, Cesare Fregoso, che era accordato col re di Francia di esserne governatore lui e non il padre, la volterebbe con pochi fanti. I quali progressi, e il sapere quanto fussino diminuiti di fanti, aveva assicurato, in modo Antonio de Leva del pericolo di Milano che e' mandò Filippo Torniello, con pochi cavalli e trecento fanti, a ricuperare Novara e i luoghi circostanti, mentre che i franzesi e i viniziani erano tra il Tesino e Milano: il quale, entrato per la rocca che si teneva per loro, ricuperò Novara, e dipoi uscí fuora con le genti a predare e raccôrre vettovaglie. Ma accadde che essendo uscito della rocca e andando per la terra il castellano di Novara, due soldati sforzeschi e tre di Novara che erano nella rocca prigioni, ammazzati, con aiuto di alcuni che lavoravano nella rocca, e presi certi fanti spagnuoli, l'occuporono, sperando essere soccorsi da' suoi; perché il duca di Milano, come aveva inteso la partita del Torniello da Milano, dubitando di Novara, aveva mandato a quella volta Giampaolo suo fratello con non piccolo numero di cavalli e di fanti, che già era arrivato a Vigevano. Ma il Torniello, come seppe il caso della rocca, tornò subito a Novara, e con minacci e con preparazione di dare lo assalto spaventò in modo quegli soldati sforzeschi che, pattuita solo la sua salute senza curarsi di quella de' novaresi che erano con loro, arrenderono la rocca. Deliberossi adunque di infestare Milano con le genti de' viniziani e del duca di Milano: benché il duca di Urbino disse che, per essere piú vicino allo stato de' viniziani, non si fermerebbe a Moncia ma a Casciano; e San Polo, il quale era alloggiato alla badia di Viboldone, deliberò di tornare di là dal Po per andare verso Genova. Con questo consiglio andò ad alloggiare a Landriano, lontano dodici miglia da Milano tra le strade di Lodi e di Pavia. E volendo andare il dí seguente, che era ventiuno di giugno, ad alloggiare a Lardirago alla volta di Pavia, scrive il Cappella che mandò innanzi l'artiglierie e i carriaggi e la vanguardia, e lui partí piú tardi con la battaglia e col retroguardo; e che il Leva, avvisato dalle spie del ritardare suo e della partita dell'antiguardia, uscí di notte di Milano con la gente incamiciata (egli, perché aveva già lungamente il corpo impedito da dolori, armato in su una sedia, portato da quattro uomini); e giunto a due miglia di Landriano, andando senza suoni, avuto dalle spie San Polo non essere ancora partito da Landriano, accelerato il passo gli assaltò innanzi sapessino la sua venuta: essendo già il primo squadrone, sotto Gian Tommaso da Gallerà, camminato tanto innanzi che non era a tempo al soccorso de' suoi. E benché San Polo sperasse ne' tedeschi, che ne aveva dumila cinquecento, loro cominciorno a ritirarsi; ma furono sostenuti da Gianieronimo da Castiglione e da Claudio Rangone capi di dumila italiani, che combatterno egregiamente; ma al fine, voltando le spalle i cavalli e i tedeschi, gli italiani feciono il medesimo. E San Polo, volendo passare col cavallo una grande fossa restò prigione; e furno presi i cavalli e i carriaggi quasi di tutto lo esercito, e l'artiglieria; e quegli che fuggirono furono svaligiati, presso a Pavia, da' fanti del Piccinardo che vi erano a guardia. Ma il Martello scrive: che, essendo San Polo a mezzo il cammino tra Landriano e Lardirago, gl'imperiali assaltorno il retroguardo che gli fece piegare, ma scoprendosi una grossa imboscata di archibusieri incamiciati, assaltò la battaglia per fianco e la roppe; che San Polo, smontato a piè, combatté con la picca gagliardamente e restò prigione egli, Gianieronimo da Castiglione, Claudio Rangone, Carbone, Lignach e altri, e la vanguardia menata dal conte Guido, che era già alloggiata, si salvò in Pavia; che i franzesi si portorono vilmente e i tedeschi il medesimo, e anche gli italiani eccetto Stefano Colonna e Claudio, che restò ferito in una spalla; che le lance si salvorono quasi tutte, e si ridusseno a Pavia circa dumila fanti di varie nazioni col conte Guido e, al principio della notte de' ventitré, se ne andorno a Lodi, sí impauriti che furono per rompersi da loro medesimi, e ne restorno assai in cammino; e i capitani si scusavano per non essere pagate le genti, delle quali le franzesi se ne ritornorono tutte in Francia.



XI

Pace di Barcellona fra il pontefice e Cesare; le condizioni della pace e gli accordi presi. Pace di Cambrai fra il re di Francia e Cesare; le condizioni della pace; contegno del re verso gli ambasciatori dei collegati.

Cosí posate l'armi quasi per tutta Italia, per due rotte ricevute, nella estremità di quella, da' franzesi, i pensieri de' príncipi maggiori erano volti agli accordi. De' quali il primo che successe fu quello del pontefice con Cesare, che si fece in Barzalona, molto favorevole per il pontefice; o perché Cesare desiderosissimo di passare in Italia, cercasse di rimuoversi gli ostacoli, parendogli avere per questo rispetto bisogno dell'amicizia del pontefice, o volendo, con capitoli molto larghi, dargli maggiore cagione di dimenticare l'offese avute da' suoi ministri e dal suo esercito. Che tra il pontefice e Cesare fusse pace e confederazione perpetua, a mutua difensione; concedesse il pontefice il passo, per le terre della Chiesa, all'esercito cesareo se volesse partire del regno di Napoli: Cesare, per rispetto del matrimonio nuovo e per la quiete di Italia rimetterà in Firenze i nipoti di Lorenzo de' Medici nella medesima grandezza che erano innanzi fussino cacciati; avuto nondimeno rispetto delle spese farà per la detta restituzione, come tra il papa e lui sarà dichiarato: curerà, il piú presto si potrà, o con le armi o in altro modo piú conveniente, che il pontefice sia reintegrato nella possessione di Cervia e di Ravenna, di Modena di Reggio e di Rubiera, senza pregiudicio delle ragioni dello imperio e della sedia apostolica: concederà il pontefice, riavute le terre predette, a Cesare, per rimunerazione del beneficio ricevuto, la investitura del regno napoletano, riducendo il censo dell'ultima investitura a uno cavallo bianco per ricognizione del feudo; e gli conceda la nominazione di ventiquattro chiese cattedrali, delle quali erano in controversia, restando al papa la disposizione delle chiese che non fussino di padronato, e degli altri benefici: il pontefice e Cesare, quando passerà in Italia, si abbocchino insieme per trattare la quiete di Italia e la pace universale de' cristiani, ricevendosi l'uno l'altro con le debite e consuete cerimonie e onore: Cesare, se il pontefice gli domanderà il braccio secolare per acquistare Ferrara, come avvocato, protettore e figliuolo primogenito della sedia apostolica, gli assisterà insino alla fine con tutto quello che sarà allora in sua facoltà, e converranno insieme delle spese, modi e forme da tenersi, secondo la qualità de' tempi e del caso: il pontefice e Cesare, di comune consiglio, penseranno qualche mezzo che la causa di Francesco Sforza si vegga di giustizia, legittimamente e per giudici non sospetti, acciò che trovatolo innocente sia restituito; altrimenti Cesare offerisce che, benché la disposizione del ducato di Milano appartenga a lui, ne disporrà con consiglio e consentimento del pontefice e ne investirà persona che gli sia accetta, o ne disporrà in altro modo come parrà piú espediente alla quiete di Italia: promette Cesare che Ferdinando re di Ungheria, suo fratello, consentirà che, vivente il pontefice e due anni poi, il ducato di Milano piglierà i sali di Cervia, secondo la confederazione fatta tra Cesare e Lione, confermata nell'ultima investitura del regno di Napoli, non approvando perciò la convenzione fattane col re di Francia, e senza pregiudizio delle ragioni dello imperio e del re di Ungheria: non possi alcuno di loro, in pregiudicio di questa confederazione, quanto alle cose di Italia, fare leghe nuove né osservare le fatte contrarie a questa; possino nondimeno entrarvi i viniziani, lasciando quello posseggono nel regno di Napoli, e adempiendo quello a che sono obligati a Cesare e a Ferdinando per l'ultima confederazione fatta tra loro, e rendendo Ravenna e Cervia, riservate eziandio le ragioni de' danni e interessi patiti per conto di queste cose: faranno Cesare e Ferdinando ogni opera possibile perché gli eretici si riduchino alla vera via, e il pontefice userà i rimedi spirituali; e stando contumaci, Cesare e Ferdinando gli sforzeranno con le armi, e il pontefice curerà che gli altri príncipi cristiani vi assistino secondo le forze loro: non riceveranno il pontefice e Cesare protezione di sudditi, vassalli e feudatari l'uno dell'altro, se non per conto del diretto dominio che avessino sopra alcuno, né si estendendo oltre a quello; e le protezioni altrimenti prese si intendino derogate infra uno mese. La quale amicizia e congiunzione, perché fusse piú stabile, la confermorno con stretto parentado; promettendo di dare per moglie Margherita figliuola naturale di Cesare, con dote di entrata di ventimila ducati l'anno, ad Alessandro de' Medici figliuolo di Lorenzo già duca di Urbino, al quale il pontefice disegnava di volgere la grandezza secolare di casa sua; perché, nel tempo che era stato in pericolo di morte, aveva creato cardinale Ippolito figliuolo di Giuliano. Convennono, nel tempo medesimo, in articoli separati: concederà il pontefice a Cesare e al fratello, per difendersi contro a' turchi, il quarto delle entrate de' benefici ecclesiastichi, nel modo conceduto da Adriano suo predecessore; assolverà tutti quegli che, in Roma o in altri luoghi, hanno peccato contro alla sedia apostolica, e quegli che hanno dato aiuto consiglio e favore, o che sono stati partecipi o hanno avuto rate le cose fatte, approvatele tacitamente o espressamente o prestato il consenso; non avendo Cesare publicato la crociata, concessagli dal pontefice meno ampia che le altre concesse innanzi, il pontefice, estinta quella, ne concederà un'altra in forma piena e ampia, come furono le concedute da Giulio e da Leone pontefici. Il quale accordo, essendo già risolute tutte le difficoltà, innanzi si stipulasse sopravenne a Cesare l'avviso della rotta di San Polo; e, ancora si dubitasse che per vantaggiare le sue condizioni non volesse variare delle cose ragionate, nondimeno prontamente confermò tutto quello che si era trattato; ratificando il medesimo dí, che fu il vigesimo nono di giugno, innanzi all'altare grande della chiesa cattedrale di Barzalona piena di innumerabile moltitudine, e promettendo l'osservanza con solenne giuramento.

Ma con non minore caldezza procedevano le pratiche della concordia tra Cesare e il re di Francia. Per le quali, poi che furono venuti i mandati, fu destinato Cambrai, luogo fatale a grandissime conclusioni; nel quale si abboccassino madama Margherita e madama la reggente madre del re di Francia; studiandosi il re, con ogni diligenza e arte, e con promettere (ancora quello che aveva in animo di non osservare) agli imbasciadori de' collegati di Italia (perché il re di Inghilterra consentiva a questi maneggi) di non fare concordia con Cesare senza consenso e sodisfazione loro; perché temeva che, insospettiti della sua volontà, non prevenissino ad accordare seco, e cosí di non restare escluso dalla amicizia di tutti. Però si sforzava persuadere loro di non sperare nella pace, anzi avere volto i pensieri alle provisioni della guerra. Sopra le quali trattando continuamente aveva mandato il vescovo di Tarba in Italia, con commissione di trasferirsi a Vinegia al duca di Milano a Ferrara e a Firenze, per praticare le cose appartenenti alla guerra, e promettere che passando Cesare in Italia passerebbe anche nel tempo medesimo con esercito potentissimo il re di Francia; concorrendo per la loro parte alle provisioni necessarie gli altri collegati. E nondimeno si strigneva continuamente la pratica dello accordo, per la quale, a' sette dí di luglio, entrorono, per diverse porte, con grande pompa tutte due le madame in Cambrai; e alloggiate in due case contigue, che avevano l'adito dell'una nell'altra, parlorono il dí medesimo insieme, e si cominciorno per gli agenti loro a trattare gli articoli; essendo il re di Francia (a chi i viniziani, impauriti di questa congiunzione, facevano grandissime offerte) andato a Compiagni, per essere piú presto a risolvere le difficoltà che occorressino. Convenneno in quel luogo non solamente le due madame ma eziandio, per il re di Inghilterra, il vescovo di Londra e il duca di Soffolt, perché senza consenso e partecipazione di quel re non si tenevano queste pratiche; e il pontefice vi mandò anche l'arcivescovo di Capua, e vi erano gli imbasciadori di tutti i collegati. Ma a questi riferivano i franzesi cose diverse alla verità di quello che si trattava, essendo nel re o tanta empietà o sí solo il pensiero dello interesse proprio (che consisteva tutto nella ricuperazione de' suoi figliuoli) che facendogli instanza grande i fiorentini che, seguitando l'esempio di quel che il re Luigi suo suocero e antecessore aveva fatto l'anno mille cinquecento dodici, consentisse che per salvarsi accordassino con Cesare, aveva ricusato; promettendo che mai non conchiuderebbe l'accordo senza includervegli, e che si trovava preparatissimo a fare la guerra; come, anche nella maggiore strettezza del praticare, prometteva continuamente a tutti gli altri. Sopravenne a' ventitré di luglio l'avviso della capitolazione fatta tra il pontefice e Cesare, ed essendo molto stretta la pratica, si turbò in modo, per certe difficoltà che nacqueno sopra alcune terre della Francia Contea, che madama la reggente si messe in ordine per partirsi; ma per opera del legato del pontefice, ma piú principalmente dello arcivescovo di Capua, si fece la conclusione; ancora che, essendo già conchiusa, il re di Francia promettesse le cose medesime che aveva prima promesse a' collegati. Finalmente, il quinto dí di agosto, si publicò nella chiesa maggiore di Cambrai solennemente la pace. Della quale il primo articolo fu: che i figliuoli del re fussino liberati, pagando il re a Cesare per la taglia loro, credo, uno milione e dugento migliaia di ducati; e per lui al re d'Inghilterra, credo, dugentomila: restituire a Cesare, tra sei settimane dopo la ratificazione, tutto quello possedeva nel ducato di Milano; lasciargli Asti e cederne le ragioni; lasciare, piú presto potesse, Barletta e quel teneva nel regno di Napoli; protestare a viniziani che, secondo la forma de' capitoli di Cugnach, restituissino le terre di Puglia; e in caso non lo facessino dichiararsi loro inimico e aiutare Cesare, per la ricuperazione, con trentamila scudi il mese e con dodici galee quattro navi e quattro galeoni pagati per sei mesi: pagare quello che era in sua possanza delle galee prese a Portofino, o la valuta, defalcato quello che poi avessino preso Andrea Doria o altri ministri di Cesare; abolire, come prima erano convenuti a Madril, la superiorità di Fiandra e di Artois, e cedere le ragioni di Tornai e di Arazzo, il possesso di Nivers, per disobligare Cesare dello stato sopra Brabante: annullare il processo di Borbone, e restituire l'onore al morto e i beni a' successori (benché Cesare si querelasse poi che il re, subito che ebbe recuperati i figliuoli, di nuovo gli tolse loro): restituissinsi i beni occupati ad alcuno per conto della guerra o a' suoi successori (il che anche dette a Cesare causa di querela, perché il re non restituí i beni occupati al principe di Oranges): intendessinsi estinti tutti i cartelli, ed eziandio quello di Ruberto della Marcia. Fu compreso in questa pace per principale il pontefice, e vi fu incluso il duca di Savoia, sí generalmente come suddito dello imperio sí specialmente come nominato da Cesare; e che il re non si avesse a travagliare piú in cose di Italia né di Germania, in favore di alcuno potentato, in pregiudicio di Cesare; benché il re di Francia affermasse, ne' tempi seguenti, non essergli proibito per questa concordia di recuperare quello che il duca di Savoia occupava del regno di Francia, e quel che pretendeva appartenersegli per le ragioni di madama la reggente sua madre. Vi fu ancora uno capitolo che nella pace si intendessino inclusi i viniziani e i fiorentini in caso che, fra quattro mesi, fussino delle differenze loro d'accordo con Cesare (che fu come una tacita esclusione); e credo il simile del duca di Ferrara. Né de' baroni e fuorusciti del regno di Napoli fu fatto menzione alcuna. Di che il re, che, fatto l'accordo, andò subito a Cambrai a visitare madama Margherita, non essendo però al tutto di atto tanto brutto senza vergogna, fuggí per qualche dí, con vari sotterfugi, il cospetto e l'udienza degli imbasciadori de' collegati. A' quali poi finalmente, uditi in disparte, fece escusazione che, per ricuperare i figliuoli, non aveva potuto fare altro; ma che mandava l'ammiraglio a Cesare per benefizio loro, e altre vane speranze: promettendo a' fiorentini di prestare loro, perché si aiutassino dagli imminenti pericoli, quarantamila ducati; che riuscivano come l'altre promesse. E dimostrando farlo per loro sodisfazione, dette licenza a Stefano Colonna, del quale non intendeva piú servirsi, che andasse agli stipendi loro.



XII

Nuovi progressi degli imperiali in Lombardia. Ordine di Cesare al principe d'Oranges di assaltare lo stato dei fiorentini, ed accordi fra il principe e il pontefice. Venuta di Cesare in Italia; i fiorentini inviano a lui ambasciatori; contegno dei veneziani, del duca di Ferrara e del duca di Milano. Preparativi dei fiorentini per la difesa. Occupazione di Spelle da parte del principe d'Oranges.

Le quali cose mentre che si trattavano, Antonio de Leva aveva ricuperato Biagrassa; e il duca di Urbino, standosi nello alloggiamento di Casciano e attendendo con numero incredibile di guastatori a fortificarlo, consigliava si tenesse Pavia e Santo Angelo, allegando l'alloggiamento di Casciano essere opportuno a soccorrere Lodi e Pavia. Andò dipoi Antonio de Leva a Enzago, a tre miglia di Casciano, donde continuamente scaramucciava con le genti viniziane; e ultimatamente, da Enzago a Vauri, o per correre nel bergamasco o per essergli state rotte l'acque da' viniziani. Entrò il Vistarino in questo tempo in Valenza, per il castello, e roppe dugento fanti che vi erano; il marchese di Mantova era ritornato alla devozione imperiale; e già erano arrivati, di luglio, per mare, a Genova dumila fanti spagnuoli per aspettare la venuta di Cesare.

Ma Cesare, subito che ebbe fatto l'accordo col pontefice, commesse al principe di Oranges che, a requisizione del pontefice, assaltasse con l'esercito lo stato de' fiorentini: il quale, venuto all'Aquila, raccoglieva a' confini del regno le genti sue. Ricercollo instantemente il pontefice che passasse innanzi; perciò il principe, senza le genti, l'ultimo dí di luglio, andò a Roma per stabilire seco le provisioni. A Roma, dopo varie pratiche, le quali talvolta furno vicine alla rottura per le difficoltà che faceva il papa allo spendere, composeno finalmente che il pontefice gli desse di presente trentamila ducati, e in breve tempo quarantamila altri; perché egli, a sue spese, riducesse prima Perugia, cacciatone Malatesta Baglione, a ubbidienza della Chiesa, dipoi assaltasse i fiorentini per restituire in quella città la famiglia de' Medici; cosa che il pontefice reputava facilissima, persuadendosi che, abbandonati da ciascuno, avessino, secondo la consuetudine de' suoi maggiori, piú presto a cedere che a mettere la patria in sommo e manifestissimo pericolo. Però raccolse il principe le sue genti, le quali erano tremila fanti tedeschi, ultime reliquie di quegli che erano, e di Spagna col viceré e di Germania con Giorgio Fronspergh, passati in Italia, e [quattro]mila fanti italiani non pagati, sotto diversi colonnelli, Pieroluigi da Farnese, il conte di San Secondo e il colonnello di Marzio e Sciarra Colonna; e il pontefice cavò di Castel Santo Angelo, per accomodarlo, tre cannoni e alcuni pezzi di artiglierie; e dietro a Oranges aveva a venire il marchese del Guasto, co' fanti spagnuoli che erano in Puglia. Ma in Firenze era deliberazione molto diversa, e gli animi ostinatissimi a difendersi. La quale perché fu cagione di cose molto notabili, pare molto conveniente descrivere particolarmente la causa di queste cose [e] il sito della città.

Le quali cose mentre da ogni parte si preparano, Cesare, partito di Barzalona con grossa armata di navi e di galee (in sulla quale erano mille cavalli e novemila fanti), poi che non senza travaglio e pericolo fu stato in mare quindici dí, arrivò il duodecimo dí di agosto a Genova; nella quale città ebbe notizia della concordia fatta a Cambrai: e nel tempo medesimo passò in Lombardia agli stipendi suoi il capitano Felix con ottomila tedeschi. Spaventò la venuta sua con tanto apparato gli animi di tutta Italia, già certa di essergli stata lasciata in preda dal re di Francia. Però i fiorentini, sbigottiti in su' primi avvisi, gli elesseno quattro imbasciadori de' principali della città, per congratularsi seco e cercare di comporre le cose loro: ma dipoi, ripigliando continuamente animo, moderorono le commissioni; ristrignendosi solo a trattare seco degli interessi suoi e non delle differenze col pontefice: sperando che a Cesare, per la memoria delle cose passate e per la piccola confidenza che soleva essere tra i pontefici e gl'imperadori, fusse molesta la sua grandezza, e però avesse a desiderare che e' non aggiugnesse alla potenza della Chiesa l'autorità e le forze dello stato di Firenze. Dispiacque molto a' viniziani che, essendo i fiorentini collegati con loro, avessino eletto al comune inimico, senza loro partecipazione, imbasciadori; e se ne lamentò anche il duca di Ferrara, benché seguitando l'esempio loro, ve ne mandò anche egli subitamente; e i viniziani consentirono al duca di Milano che facesse il medesimo: il quale, molto innanzi, aveva tenuto occultamente pratica col pontefice perché lo accordasse con Cesare, conoscendo, eziandio innanzi alla rotta di San Polo, potere sperare poco nel re di Francia e de' viniziani.

Fece Cesare sbarcare i fanti spagnuoli che aveva condotti seco a Savona, e gli voltò in Lombardia, perché Antonio de Leva uscisse potente in campagna; e aveva offerto di sbarcargli alla Spezie per mandargli in Toscana. Ma al pontefice, per la impressione che si aveva fatto, non parveno necessarie tante forze, desiderando massime, per conservazione del paese, non volgere senza bisogno tanto impeto contro a quella città. Contro alla quale e contro a Malatesta Baglione già procedendo scopertamente, fece ritenere nelle terre della Chiesa il cavaliere Sperello; il quale, spedito con danari, innanzi alla capitolazione fatta a Cambrai, dal re di Francia (il quale aveva ratificata la sua condotta), ritornava a Perugia. Fece anche ritenere, appresso a Bracciano, i danari mandati da' fiorentini allo abate di Farfa, condotto da loro con dugento cavalli, perché soldasse mille fanti; ma fu necessitato presto a restituirgli, perché avendo il pontefice deputati legati a Cesare i cardinali Farnese, Santa Croce e Medici, e passando quello di Santa Croce, l'abate avendolo fatto ritenere, non lo volle liberare se prima non riaveva i danari. Ma i fiorentini continuavano nelle loro preparazioni, avendo invano tentato con Cesare che, insino che avesse udito gli imbasciadori loro, si fermassino l'armi. Ricercorono don Ercole da Esti, primogenito del duca di Ferrara, condotto da loro sei mesi innanzi per capitano generale, che venisse con le sue genti, come era obligato loro. Il quale, benché avesse accettato i danari mandatigli per soldare mille fanti, deputati, quando cavalcava, per guardia sua, nondimeno, anteponendo il padre le considerazioni dello stato alla fede, recusò di andare, non restituiti anche i danari, benché mandò i suoi cavalli: donde i fiorentini gli disdissono il beneplacito del secondo anno. Ma già il principe di Oranges, il decimonono dí di agosto, era a Terni e i tedeschi a Fuligno, dove si faceva la massa: essendo cosa ridicola che, essendo fatta e publicata la pace tra Cesare e il re di Francia, il vescovo di Tarba, come imbasciadore del re a Vinegia a Ferrara a Firenze e a Perugia, magnificasse le provisioni potentissime del re alla guerra, e confortasse loro a fare il medesimo. Venne dipoi il principe, con seimila fanti tra tedeschi e italiani, a campo a Spelle: dove, appresentandosi con molti cavalli alla terra per riconoscere il sito, fu ferito in una coscia da quegli di dentro Giovanni d'Urbina, che, esercitato in lunga milizia di Italia, teneva il principato tra tutti i capitani di fanti spagnuoli; della quale ferita morí in pochi dí, con grave danno dello esercito, perché per consiglio suo si reggeva quasi tutta la guerra. Piantoronsi poi l'artiglierie a Spelle, dove, sotto Lione Baglione, fratello naturale di Malatesta, erano piú di cinquecento fanti e venti cavalli: ma essendosi battuto pochi colpi a una torre che era fuora della terra a canto alle mura, quegli di dentro, ancora che Lione avesse dato a Malatesta speranza grande della difesa, si arrenderono subito, con patto che la terra e gli uomini suoi restassino a discrezione del principe, i soldati, salve le persone e le robbe che potessino portare addosso, uscissino con le spade solo, né potessino per tre mesi servire contro al pontefice o contro a Cesare; ma nell'uscire furono quasi tutti svaligiati. Fu imputato di questo accordo non mediocremente Giovanbatista Borghesi fuoruscito sanese, che avendo cominciato a trattare con Fabio Petrucci, il quale era nello esercito, gli dette la perfezione con aiuto degli altri capitani: il che Malatesta attribuiva a infedeltà, molti altri a viltà di animo.



XIII

Risposta di Cesare agli ambasciatori dei fiorentini mandati a trattare con lui. Contegno del re di Francia verso Cesare e verso i collegati italiani. Trattative fra Cesare e il duca di Milano. Azione del pontefice per la concordia fra i veneziani e Cesare. Accordi del duca di Milano coi veneziani; resa di Pavia a Antonio de Leva.

Ma gli imbasciadori fiorentini, presentatisi intanto a Cesare, si erano nella prima esposizione congratulati della venuta sua, e sforzatisi di farlo capace che la città non era ambiziosa, ma grata de' benefici e pronta a fare comodità a chi la conservasse; aveano scusato che era entrata nella lega col re di Francia per volontà del pontefice che la comandava, e avere continuato per necessità; non procedendo piú oltre, perché non aveano commissione [di conchiudere, ma] di avvisare quello che fusse proposto loro, ed espresso comandamento della republica che non udissino pratica alcuna col pontefice; visitare gli altri legati suoi ma non il cardinale de' Medici. A' quali innanzi fusse risposto, disse loro il gran cancelliere, eletto nuovamente cardinale, che era necessario satisfacessino al pontefice; e querelandosi essi della ingiustizia di questa dimanda, rispose che, per essersi la città confederata con gli inimici di Cesare e mandate le genti a offesa sua, era ricaduta dai privilegi suoi e devoluta allo imperio, e che però Cesare ne poteva disporre ad arbitrio suo. Finalmente fu risposto loro, in nome di Cesare, che facessino venire il mandato abile a convenire eziandio col pontefice, e che poi si attenderebbe alle differenze tra il papa e loro; le quali se prima non si componevano, non voleva Cesare trattare con loro gli interessi propri. Mandoronlo amplissimo a convenire con Cesare, ma non a convenire col pontefice: però, essendo Cesare (che partí da Genova a' trenta di agosto) andato a Piacenza, gli imbasciadori seguitandolo non furono ammessi in Piacenza poiché si era inteso non avere il mandato nel modo che aveva chiesto Cesare. Cosí restorono le cose senza concordia.

E aveva anche Cesare, ricevuti che ebbe rigidamente gli imbasciadori del duca di Ferrara, fattigli partire; benché ritornando poi con nuove pratiche, e forse con nuovi favori, furono ammessi. Mandò anche Nassau oratore al re di Francia, a congratularsi che con nuova congiunzione avessino stabilito il vincolo del parentado, e a ricevere la ratificazione: per le quali cause mandava anche a lui il re l'ammiraglio, e a Renzo da Ceri mandò danari perché si levasse con tutte le genti di Puglia; dove preparò anche dodici galee, perché vi andassino sotto Filippino Doria contro a' viniziani (contro a' quali Cesare mandò Andrea Doria con trentasette galee): benché, giudicando dovere essere piú certa la recuperazione de' figliuoli se a Cesare restasse qualche difficoltà in Italia, dava varie speranze a' collegati; e a' fiorentini particolarmente prometteva di mandare loro occultamente, per l'ammiraglio, danari, non perché avesse in animo di sovvenire o loro o gli altri ma perché stessino piú renitenti a convenire con Cesare.

Praticavasi intratanto continuamente tra Cesare e il duca di Milano, per mano del protonotario Caracciolo, che andava da Cremona a Piacenza; e parendo strano a Cesare che il duca si piegasse manco a lui di quello che arebbe creduto, e il duca da altro canto riducendosi difficilmente a fidarsi, fu introdotta pratica che Alessandria e Pavia si deponessino in mano del papa, insino a tanto fusse conosciuta la causa sua. A che scrive il Cappella che gli imbasciadori del duca che erano appresso a Cesare non volleno consentire; ma credo che la conclusione mancasse da Cesare, non gli parendo potesse resistere alle forze sue, e tanto piú che Antonio de Leva era andato a Piacenza e (come era inimico dell'ozio e della pace), l'aveva confortato con molte ragioni alla guerra. Però Cesare gli commesse che facesse la impresa di Pavia; disegnando anche che nel tempo medesimo il capitano Felix, che [era] venuto co' nuovi lanzi e con cavalli e artiglierie verso Peschiera, e dipoi entrato in bresciano, rompesse da quella banda a' viniziani; avendo fatto il marchese di Mantova capitano generale di quella impresa.

Trattava intanto il pontefice la pace tra Cesare e i viniziani, con speranza di conchiuderla alla venuta sua di Bologna; perché avendo avuto prima in animo di abboccarsi a Genova con lui, avevano poi differito di comune consentimento, per la comodità del luogo, a convenirsi a Bologna; inducendogli a essere insieme non solo il desiderio comune di confermare e consolidare meglio la loro congiunzione, ma ancora Cesare la necessità, perché aveva in animo di pigliare la corona dello imperio, e il pontefice la cupidità della impresa di Firenze; e l'uno e l'altro di loro il desiderio di dare qualche forma alle cose d'Italia (che non poteva fare senza [comporre] le cose de' viniziani e del duca di Milano); ed eziandio di provedere a' pericoli imminenti del turco, il quale, con grande esercito entrato in Ungheria, camminava alla volta di Austria per attendere alla espugnazione di Vienna.

Nel quale tempo tra Cesare e i viniziani non si facevano fazioni di momento; perché i viniziani, inclinati ad accordare seco, per non irritare piú l'animo suo, avevano ritirato l'armata loro dalla impresa del castello di Brindisi a Corfú, attendendo solo a guardare le terre tenevano, e in Lombardia non si facendo per ancora se non leggiere escursioni. Però, intenti solo alla guardia delle terre, avevano messo in Brescia il duca d'Urbino, e in Bergamo il conte di Gaiazzo con seimila fanti. Il quale (non so se innanzi entrasse in Bergamo o poi), avendo fatto una imboscata presso a Valezzo, per avere inteso farsi una cavalcata da' cavalli borgognoni, essendo venuti grossi, lo ruppeno, preseno Gismondo Malatesta e Lucantonio; egli, fatto prigione da quattro italiani, persuasogli con grandi promesse che lo lasciassino fu da loro condotto a Peschiera e liberato. Erano i tedeschi mille cavalli e otto in diecimila fanti; i quali, stati dispersi qualche dí, si ritirorno a Lonata, disegnandosi che insieme col marchese di Mantova facessino la impresa di Cremona, dove era il duca di Milano. Il quale, vedendosi escluso dallo accordo con Cesare, e che Antonio de Leva era andato a campo a Pavia, e che già il Caracciolo andava a Cremona a denunziargli la guerra, convenne co' viniziani di non fare concordia con Cesare senza consentimento loro; i quali si obligorono dargli per la difesa del suo stato dumila fanti pagati e ottomila ducati il mese, e gli mandorono artiglierie e gente a Cremona; col quale aiuto confidava il duca potere difendere Cremona e Lodi. Perché Pavia fece contro a Antonio de Leva piccola resistenza, non solo perché non vi era vettovaglia per due mesi ma eziandio perché il Pizzinardo, proposto a guardarla, aveva mandato pochi dí innanzi quattro compagnie di fanti a Santo Angelo, dove Antonio de Leva aveva fatto dimostrazione di volersi accampare; e però, essendo restato dentro con poca gente, diffidatosi poterla difendere, non aspettata né batteria né assalto, come vedde prepararsi di piantare l'artiglierie, si accordò, salve le persone e la roba sua e de' soldati: con grande imputazione che avesse potuto piú in lui, e però indottolo ad affrettarsi, la cupidità di non perdere le ricchezze che aveva accumulate in tante prede che il desiderio di salvare la gloria acquistata per molte egregie opere fatte in questa guerra, e specialmente intorno a Pavia.



XIV

Proposte del principe d'Oranges a Malatesta Baglioni discusse fra questo e i fiorentini; accordi fra il principe e Malatesta per Perugia. Scarsissimi aiuti dei collegati ai fiorentini.

Nel quale tempo era già accesa molto la guerra di Toscana: perché il principe di Oranges, preso che ebbe Spelle, e che il marchese del Guasto, il quale lo seguitava con fanti spagnuoli, di quegli che erano stati a Monopoli, cominciò ad appropinquarsi allo esercito suo, venne al ponte di San Ianni presso a Perugia in su il Tevere, dove si unirono seco i fanti spagnuoli; nella quale città erano tremila fanti de' fiorentini. Aveva il principe, innanzi si accampasse a Spelle, mandato uno uomo a Perugia a persuadere Malatesta che cedesse alle voglie del pontefice; il quale, per ritirare a sé in qualunque modo la città di Perugia e per desiderio che l'esercito procedesse piú innanzi, offeriva a Malatesta che, uscendosi di Perugia, gli conserverebbe gli stati e beni suoi propri, consentirebbe che liberamente andasse alla difesa de' fiorentini, e si obligherebbe che Braccio e Sforza Baglioni e gli altri inimici suoi non rientrassino in Perugia: e benché Malatesta affermasse non volere accettare partito alcuno senza consentimento de' fiorentini nondimeno udiva continuamente le imbasciate del principe, il quale poiché aveva acquistato Spelle gli faceva maggiore instanza. Comunicava queste cose Malatesta a' fiorentini: inclinato senza dubbio alla concordia, perché temeva alla fine del successo, e forse che i fiorentini non continuassino in porgergli tutti gli aiuti desiderava; e quando avesse ad accordare non sperava potere trovare accordo con migliori condizioni di quelle che gli erano proposte; stimando molto meglio che, senza offendere il pontefice e dargli causa di privarlo de' beni e delle terre che se gli preservavano, gli restasse la condotta de' fiorentini che, col volersi difendere, mettere in pericolo lo stato presente e le condizioni tollerabili che poteva avere dello esilio, e farsi esosi gli amici suoi e tutta la terra. Perseverava però sempre in dire di non volere accordare senza loro, ma soggiugnendo che volendo difendere Perugia era necessario che i fiorentini vi mandassino di nuovo mille fanti, e che il resto delle genti loro facesse testa all'Orsaia, lontana cinque miglia da Cortona, ne' confini del cortonese e perugino (il che non potevano fare senza sfornire tutte le terre), e nondimeno luogo sí debole che era necessario si ritirassino a ogni movimento degli inimici. Dimostrava che se non si accordava, e il principe, lasciata indietro Perugia, pigliasse il cammino di Firenze, sarebbe necessario gli lasciassino in Perugia mille fanti vivi e anche non basterebbeno, perché il pontefice potrebbe travagliarla con altre forze che con le genti imperiali; ma che accordando, i fiorentini ritirerebbeno a sé tutti i loro fanti, e lo seguiterebbeno anche dugento o trecento uomini de' suoi eletti; e che restandogli gli stati e beni suoi, ed esclusi gli inimici di Perugia, attenderebbe alla difesa con animo piú quieto. A' fiorentini sarebbe piaciuto molto il tenere la guerra a Perugia, ma vedendo che Malatesta trattava continuamente col principe, e sapendo anche che mai aveva intermesso di trattare col pontefice, dubitavano che egli, per gli stimoli de' suoi, per i danni della città e del paese e per sospetto degli inimici e della instabilità del popolo, alla fine non cedesse; e pareva loro molto pericoloso il mettere in Perugia quasi tutto il nervo e il fiore delle loro forze, sottoposte al pericolo della fede di Malatesta, al pericolo dello essere sforzate dagli inimici, e alla difficoltà del ritirarle in caso che Malatesta si accordasse. E consideravano ancora la mutazione di Perugia potergli poco offendere, restandovi gli amici di Malatesta e a lui le sue castella, né vi ritornando Braccio e i fratelli: donde il pontefice, mentre che la perseverava in quello stato, non poteva se non starne con continuo sospetto. Nella quale titubazione di animo, stimando sopra ogni cosa la salvazione di quelle genti, né si confidando interamente della costanza di Malatesta, mandorono segretissimamente, a' sei di settembre, uno uomo loro per levarle da Perugia, temendo non fussino ingannate se si faceva l'accordo: e inteso poi che per essere già vicini gli inimici non si erano potute partire, spedirono a Malatesta il consenso che accordasse. Ma aveva già, mentre che l'avviso era in cammino, prevenuto: perché Oranges, il nono di settembre, passò il Tevere al ponte di San Ianni; ed essendo alloggiato, dopo qualche leggiera scaramuccia, la notte medesima, conchiuse l'accordo con Malatesta, obligandolo a partirsi di Perugia, datagli facoltà che e' godesse i suoi beni, potesse servire i fiorentini come soldato, ritirare salve le genti loro: le quali perché avessino tempo a ridursi in su il dominio fiorentino promesse Oranges stare fermo con l'esercito due dí. Cosí ne uscirno a' dodici, e camminando con grandissima celerità si condusseno il dí medesimo a Cortona per la via de' monti, lunga e difficile, ma sicura.

Cosí si ridusse tutta la guerra nel terreno de' fiorentini. A' quali benché i viniziani e il duca d'Urbino avessino dato speranza di mandare tremila fanti, che per sospetto della venuta del principe a quelle bande avevano mandato nello stato di Urbino, nondimeno, non volendo dispiacere al pontefice, riuscí promessa vana: solamente dettono i viniziani al commissario di Castrocaro danari per pagare dugento fanti. E non ostante che quel senato e il duca di Ferrara trattassino continuamente di comporre con Cesare, nondimeno, perché questa difficoltà lo facesse piú facile alle cose loro, confortavano i fiorentini a difendersi.



XV

Disegni dei fiorentini; perdita di Cortona e di Arezzo. Dichiarazione di Cesare di non voler udire gli ambasciatori fiorentini se non son rimessi i Medici in città. Richiesta del pontefice che Firenze si rimetta in suo potere. Dispareri in Firenze; decisione di resistenza. Il principe d'Oranges intorno a Firenze; le forze dei fiorentini. Prime scaramuccie sotto Firenze.

Due erano allora principalmente i disegni de' fiorentini: l'uno, che l'esercito ritardasse tanto a venire innanzi che avessino tempo a riparare la loro città, alle mura della quale pensavano che finalmente si avesse a ridurre la guerra; l'altro, cercare di placare l'animo di Cesare, eziandio con l'accordare col pontefice, pure che non fusse alterato la forma della libertà e del governo popolare. Però, non essendo ancora successo l'esclusione de' loro imbasciadori, avevano mandato uno uomo al principe di Oranges, ed eletti imbasciadori al pontefice; instando, quando gli significorono la elezione, che insino allo arrivare loro facesse soprasedere lo esercito: il che ricusò di fare. Però il principe, fattosi innanzi, batté e dette l'assalto al borgo di Cortona che va a l'Orsaia, nella quale città erano settecento fanti; e ne fu ributtato. In Arezzo era maggiore numero di fanti; ma Antoniofrancesco degli Albizi, commissario, inclinato ad abbandonarlo per paura che il principe, presa Cortona, lasciato indietro Arezzo, non andasse alla volta di Firenze, e che prevenendo a quelle genti che erano seco in Arezzo, la città, mancandogli la piú pronta difesa che avesse, spaventata non si accordasse; però senza consenso publico, se bene forse con tacita intenzione del gonfaloniere, si partí da Arezzo con tutte le genti, lasciati solamente dugento fanti nella fortezza: ma giunto a Feghine, per consiglio di Malatesta, che era quivi e approvava il ridurre le forze alla difesa di Firenze, rimandò mille fanti in Arezzo perché non restasse abbandonato del tutto. Ma a' diciasette dí, Cortona, alla difesa della quale sarebbeno bastanti mille fanti, non vedendo provedersi per i fiorentini gagliardamente, e inteso anche forse la titubazione di Arezzo, si arrendé, ancora che poco stretta dal principe; col quale compose di pagargli ventimila ducati. La perdita di Cortona dette cagione a' fanti che erano in Arezzo, non si reputando bastanti a difenderlo, di abbandonare quella città: la quale, a' diciannove dí, si accordò anche ella col principe: ma con capitoli e con pensieri di reggersi piú presto da se stessa in libertà sotto l'ombra e protezione di Cesare che stare piú in soggezione de' fiorentini, dimostrando essere falsa quella professione che insino allora avevano fatto di essere amici della famiglia de' Medici e inimici del governo popolare.

Nel quale tempo Cesare aveva negato espressamente non volere piú udire gli imbasciadori fiorentini se non restituivano i Medici; e Oranges, benché con gli oratori che erano appresso a lui detestasse senza rispetto la cupidità del papa e la ingiustizia di quella impresa, nondimeno aveva chiarito non potere mancare di continuarla senza la restituzione de' Medici: e trovandosi avere trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri dumila cinquecento tedeschi, di bellissima gente, dumila fanti spagnuoli tremila italiani, sotto Sciarra Colonna Piermaria Rosso Pierluigi da Farnese e Giovambatista Savello (co' quali si uní poi Giovanni da Sassatello, defraudati i danari ricevuti prima da' fiorentini, de' quali aveva accettata la condotta), e poi Alessandro Vitelli, che avevano tremila fanti, ma avendo poche artiglierie, ricercò i sanesi che l'accomodassino di artiglierie. I quali, non potendo negare allo esercito di Cesare gli aiuti chiesti, ma per l'odio contro al pontefice e per il sospetto della sua grandezza malcontenti della mutazione del governo de' fiorentini, co' quali per l'odio comune contro al papa avevano avuto molti mesi quasi tacita pace e intelligenza, mettevano in ordine l'artiglierie ma con quanta piú lunghezza potevano.

Aveva intratanto il papa udito gli oratori fiorentini, e risposto loro che la intenzione sua non era di alterare la libertà della città ma che, non tanto per le ingiurie ricevute da quel governo e dalla necessità di assicurare lo stato suo quanto per la capitolazione fatta con Cesare, era stato costretto a fare la impresa; nella quale trattandosi ora dello interesse dell'onore suo, non chiedeva altro se non che liberamente si rimettessino in potestà sua, e che fatto questo dimostrerebbe il buono animo che aveva al benefizio della patria comune. E intendendo poi che, crescendo a Firenze il timore, massime poi che avevano inteso l'esclusione fatta degli oratori loro da Cesare, avevano eletto a lui nuovi imbasciadori, pensando fussino disposti a cedergli, e desideroso della prestezza per fuggire i danni del paese, mandò in poste allo esercito l'arcivescovo di Capua: il quale, passando per Firenze, trovò disposizione diversa da quel che si era persuaso.

Fecesi intanto innanzi Oranges, e a' ventiquattro era a Montevarchi nel Valdarno, lontano venticinque miglia da Firenze, aspettando da Siena otto cannoni, che si mosseno il dí seguente; ma camminando con la medesima lunghezza con la quale erano stati preparati, furono cagione che il principe, che a' ventisette aveva condotto l'esercito insino a Feghine e l'Ancisa, soprastette in quello alloggiamento insino a tutto il dí quarto di ottobre: donde procedé la durezza di tutta quella impresa. Perché, perduto Arezzo vedendosi mancare le speranze e le promesse fatte loro da ogni banda, la fortificazione che si faceva della città dalla banda del monte non ancora ridotta in termine che, benché vi si lavorasse con grandissima sollecitudine, non paresse a' soldati che prima che fra otto o dieci dí potesse mettersi in difesa, e intendendo l'esercito inimico camminare innanzi, ed essendosi dalla banda di Bologna mosso per ordine del papa Ramazzotto con tremila fanti, saccheggiata Firenzuola ed entrato nel Mugello, e temendosi non andasse a Prato, i cittadini spaventati cominciorono a inclinarsi all'accordo, e massime che molti se ne fuggivano per timore: in modo che, nella consulta del magistrato de' dieci proposto alle cose della guerra, nella quale consulta intervenneno i cittadini principali di quel governo, fu parere di tutti di spedire a Roma libero e ampio mandato per rimettersi nella volontà del pontefice. Ma avendone fatta relazione al supremo magistrato, senza il consenso del quale non si poteva farne la deliberazione, il gonfaloniere, che ostinatamente era nella contraria sentenza, la contradisse; e congiugnendosi con lui il magistrato popolare de' collegi, che partecipava della autorità de' tribuni della plebe di Roma, nel quale per sorte erano molte persone di mala mente e di grande temerità e insolenza, potette tanto, fomentando anche la sua opinione l'ardire e le minaccie di molti giovani, che impedí che per quei dí non si fece altra deliberazione. E nondimeno è manifesto che se il dí seguente, che fu il vigesimo ottavo di settembre, il principe si fusse spinto piú innanzi uno alloggiamento, quegli che contradicevano all'accordo non arebbeno potuto alla inclinazione di tutti gli altri resistere: da tante piccole cagioni dependono bene spesso i momenti di cose gravissime. Il soprasedere vano di Oranges, interpretato da alcuni che per nutrire la guerra fusse fatto studiosamente, perché allo accostarsi presso Firenze non gli erano necessarie l'artiglierie, fu causa che in Firenze molti ripreseno animo; ma quel che importò piú fu che la fortificazione, continuata senza una minima intermissione di tempo con grandissimo numero d'uomini, si condusse in grado che, innanzi che Oranges si movesse da quello alloggiamento, giudicorono i capitani che i ripari si potessino difendere: donde cessata ogni inclinazione allo accordo, si messe la città ostinatamente alla difesa; essendosi anche aggiunto ad assicurare gli animi loro che Ramazzotto, che aveva condotto seco villani senza denari e non soldati, essendo venuto non con disposizione di combattere ma di rubare, saccheggiato che ebbe tutto il Mugello, si ritirò nel bolognese con la preda, dissolvendosi tutta la gente, la quale aveva venduto a lui la maggiore parte delle cose predate. Cosí di una guerra facile, e che si sarebbe finita con piccolo detrimento di ciascuno, risultò una guerra gravissima e perniciosissima, che non potette finirsi se non distrutto che fu tutto il paese, e condotta quella città in pericolo dell'ultima sua desolazione.

Mossesi, a' cinque di ottobre, Oranges da Feghine; ma camminando lentamente, per aspettare l'artiglierie di Siena che gli erano vicine, non ebbe condotte tutte le genti e l'artiglierie nel Piano di Ripoli, a due miglia di Firenze, prima che a' venti dí, e a' ventiquattro alloggiato tutto l'esercito in su i colli vicini a' ripari: i quali, movendosi dalla porta di Saminiato, occupavano i colli eminenti alla città, insino alla porta di San Giorgio; e movendosi anche una alia da Saminiato, che si distendeva insino in su la strada della porta di San Niccolò. Erano in Firenze ottomila fanti vivi; e la resoluzione era di difendere Prato, Pistoia, Empoli, Pisa e Livorno, nelle quali terre tutte avevano messo presidio sufficiente, e il resto de' luoghi lasciare piú presto alla fede e disposizione de' popoli e alla fortezza de' siti che mettervi grosse genti per guardargli. Ma già si empieva tutto il paese di venturieri e di predatori; e i sanesi non solo predavano per tutto, ma eziandio mandorono gente per occupare Montepulciano, sperando che poi dal principe fusse consentito loro il tenerlo; ma essendovi alcuni fanti de' fiorentini si difese facilmente: e vi sopragiunse poco poi Napolione Orsino, soldato de' fiorentini, con trecento cavalli, che non era voluto partirsi di terra di Roma insino a tanto che il pontefice non si fusse indiritto al cammino di Bologna.

Alloggiato Oranges l'esercito, e distesolo molto largo in su i colli di Montici, del Gallo e di Giramonte, e avuti guastatori e alcuni pezzi piccoli di artiglieria da' lucchesi, fece lavorare uno riparo, credevasi per dare uno assalto al bastione di Saminiato; e all'incontro, per offenderlo, furono piantati nell'orto di Saminiato quattro cannoni in su uno cavaliere. Arrenderonsi subito al principe le terre di Colle e di San Gimignano, luoghi importanti per facilitare le vettovaglie che venivano da Siena. Piantò, a' ventinove, Oranges in su uno bastione del Giramonte quattro cannoni al campanile di Saminiato per abbatterlo, perché da uno sagro che vi era piantato era molto danneggiato l'esercito; e in poche ore se ne roppeno due. Però, avendo il dí seguente condotto un altro, tratti che vi ebbeno invano circa cento cinquanta colpi, né potuto levarne il sagro, si astenneno dal tirarvi piú. E considerandosi per tutti la oppugnazione di Firenze, massime da uno esercito solo, essere difficillima, cominciorono le fazioni a procedere lentamente, piú tosto con scaramuccie che con maniera di oppugnazione. Fecesi, a' due di novembre, una grossa scaramuccia al bastione di San Giorgio e a quello di San Niccolò e della strada Romana; e a' quattro fu piantata in su il Giramonte una colubrina al palazzo de' signori, che al primo colpo si aperse. E a' sette, i cavalli che erano dentro scorseno in Valdipesa, e preseno cento cavalli la piú parte utili; e cavalli e archibusieri, usciti dal Pontedera, preseno sessanta cavalli, tra le Capanne e la torre di San Romano.



XVI

Il pontefice e Cesare a Bologna. Accordi per continuare l'impresa contro Firenze. La questione di Modena e di Reggio. Discussioni per la pace coi veneziani e per il perdono di Cesare a Francesco Sforza. Continuazione della guerra in Lombardia. Pace di Cesare col duca di Milano e coi veneziani.

Nel quale tempo essendo giunto il pontefice a Bologna, Cesare, secondo l'uso de' príncipi grandi, vi venne dopo lui; perché è costume che, quando due príncipi hanno a convenirsi, quello di piú degnità si presenta prima al luogo diputato, giudicandosi segno di riverenza che quello che è inferiore vadi a trovarlo: dove ricevuto dal papa con grandissimo onore, e alloggiato nel palazzo medesimo in stanze contigue l'una all'altra, pareva, per le dimostrazioni e per la dimestichezza che appariva tra loro, che fussino continuamente stati in grandissima benivolenza e congiunzione. Ed essendo già cessato il sospetto della invasione de' turchi, perché l'esercito loro, presentatosi insieme con la persona [di Solimanno] innanzi a Vienna, dove era grossissimo presidio di fanti tedeschi, non solo avevano dati piú assalti invano ma ne erano stati ributtati con grandissima uccisione, in modo che diffidandosi di potere ottenerla, e massime non avendo artiglieria grossa da batterla e stretti da' tempi che in quella regione erano asprissimi, essendo il mese di ottobre, se ne levorono, non ritirandosi a qualche alloggiamento vicino ma alla volta di Costantinopoli, cammino credo di tre mesi; però trovandosi Cesare assicurato di questo sospetto, che l'aveva prima inclinato, non ostante l'acquisto di Pavia, a concordare col duca di Milano, e però mandato a Cremona il Caracciolo, ma ancora indotto a persuadere al pontefice il pensare a qualche modo per la concordia co' fiorentini, acciò che spedito dalle cose di Italia potesse passare con tutte le genti in Germania a soccorso di Vienna e del fratello: ma cessato questo sospetto, cominciorono a trattare delle cose di Italia.

Nelle quali quella che premeva piú al pontefice era la impresa contro a' fiorentini; e in questa anche Cesare era molto inclinato, sí per sodisfare al pontefice di quello che si era capitolato a Barzalona come perché, avendo la città in concetto di essere inclinata alla divozione della corona di Francia, gli era grata la sua depressione. Però, essendo in Bologna quattro oratori fiorentini al pontefice e facendo anche instanza di parlare a lui, non volle mai udirgli, se non una volta sola quando parve al pontefice; da chi prese anche la sostanza della risposta che fece loro. Però si conchiuse di continuare la impresa e (perché la riusciva piú difficile che non era paruto al pontefice) di volgervi quelle genti che erano in Lombardia, se nascesse occasione d'accordo co' viniziani e con Francesco Sforza, le quali fussino pagate da Cesare, e che il papa pagasse ciascuno mese al principe d'Oranges (il quale per trattare queste cose venne a Bologna) ducati sessantamila, perché, non potendo Cesare sostenere tante spese, mantenesse quelle genti che erano già intorno a Firenze.

Parlossi poi dell'altro interesse del pontefice che erano le cose di Modena e di Reggio; nella quale [pratica] il papa, per fuggire il carico dell'ostinazione, avendo proposto quella cantilena medesima che aveva pensata prima e usata lungamente. Aveva perciò il principe mandato mille cinquecento fanti quattrocento cavalli e quattro pezzi di artiglieria a pigliare la Lastra, dove erano tre bandiere di fanti; e innanzi arrivasse il soccorso di Firenze la prese, ammazzati degli inimici circa dugento fanti. Succedé che la notte degli undici di dicembre Stefano Colonna, con mille archibusieri e quattrocento tra alabarde e partigiane, tutti in corsaletto e all'uso spagnuolo incamiciati, assaltarono il colonnello di Sciarra, alloggiato nelle case propinque alla chiesa di Santa Margherita a Montici, sforzoronle, con morte di piú di dugento uomini e molti feriti, e tutto il colonnello in sbaraglio, né perderono uno uomo solo. E andando Pirro da Castel di Piero per pigliare Montopoli, terra del contado di Pisa, i fanti che erano in Empoli, tagliatagli la strada tra Palaia e Montopoli, lo roppono, fatti molti prigioni. E da uno colpo di artiglieria fu morto, nell'orto di Saminiato, Mario Orsino e Giulio da Santa Croce. E nel Borgo da Sansepolcro entrò Napolione Orsino, soldato de' fiorentini, con cento cinquanta cavalli, perché Alessandro Vitelli, verso il Borgo e Anghiari, andava distruggendo il paese. Ma passate che ebbono l'Alpi le genti mandate nuovamente da Cesare, Pistoia e poi Prato, abbandonate dalle genti de' fiorentini, si arrendorono al pontefice: però l'esercito, non avendo alle spalle impedimento, non si andò a unire con li altri, ma fermatosi dall'ala Francesco Sforza; a che instava molto il pontefice, desideroso della quiete universale; e anche perché le cose di Cesare, disoccupate dall'altre imprese, si volgessino contro a Firenze. Riteneva Cesare piú che altro il parergli non fusse con sua degnità il credersi che quasi la necessità lo inducesse a perdonare a Francesco Sforza; e Antonio de Leva, che era con lui a Bologna, faceva ogni instanza perché di quello stato si facesse altra deliberazione, proponendo ora Alessandro nipote del papa ora altri: nondimeno, essendo difficoltà di collocare quello stato in persona di chi Italia si contentasse, né avendo il papa inclinazione a pensarvi per i suoi, non essendo cosa che si potesse spedire se non con nuove guerre e con nuovi travagli, Cesare, in ultimo, inclinando a questa sentenza, consentí di concedere a Francesco Sforza salvocondotto, sotto nome di venire a lui a giustificarsi ma in fatto per ridurre le cose a qualche composizione; consentendo ancora i viniziani alla venuta sua, perché speravano che in uno tempo medesimo si introducesse la concordia delle cose loro.

E nondimeno non cessavano però l'armi in Lombardia; perché il Belgioioso, il quale per l'assenza di Antonio de Leva era restato capo a Milano, andò con settemila fanti a campo a Santo Angelo, dove erano quattro compagnie di fanti viniziani e di Milano; e avendolo battuto con l'occasione di una pioggia continua che faceva inutili gli archibusi, che allo scoperto difendevano il muro, accostato i suoi, appoggiati agli scudi e con le spade e picche, dette l'assalto, accostandosi anche egli valentemente con gli altri: ma non potendo quegli di dentro tenere in mano le corde da dare il fuoco, ed essendo necessitati gittargli in terra e combattere con altre armi, sbigottiti cominciorono a ritirarsi e ad abbandonare le mura; in modo che, entrati dentro gli inimici, restorono tutti o morti o prigioni. Disegnò poi andare di là da Adda, e passata già parte dello esercito per il ponte fatto a Casciano, alcune compagnie de' nuovi spagnuoli si partirono per andare a Milano; ma lui prevenendogli, fece pigliare l'armi alla terra, in modo che non potendo entrare ritornorono indietro allo esercito.

Ma già, non ostante queste cose e lo essere i tedeschi ne' terreni de' viniziani, si strignevano talmente le pratiche della pace che raffreddavano tutti i pensieri della guerra. Perché Francesco Sforza, presentatosi, subito che arrivò in Bologna, al cospetto di Cesare, e ringraziatolo della benignità sua in avergli conceduto facoltà di venire a lui, gli espose confidare tanto nella giustizia sua che, per tutte le cose succedute innanzi che il marchese di Pescara lo rinchiudesse nel castello di Milano, non desiderava altra sicurtà o presidio che la innocenza propria; e che perciò, in quanto a queste, rinunziava liberamente il salvocondotto; la scrittura del quale avendo in mano la gittò innanzi a lui, cosa che molto sodisfece a Cesare. Trattoronsi circa a uno mese le difficoltà dell'accordo suo e di quello de' viniziani; e finalmente, a' ventitré di dicembre, essendosene molto affaticato il pontefice, si conchiuse l'uno e l'altro: obligandosi Francesco a pagargli in uno anno ducati quattrocentomila, e cinquecentomila poi in dieci anni cioè ogni anno cinquantamila, restando in mano di Cesare Como e il castello di Milano; quali si obligò a consegnare a Francesco come fussino fatti i pagamenti del primo anno. E gli dette la investitura, o vero confermò quella che prima gli era data. Per i quali pagamenti osservare, e per i doni promessi a' grandi appresso a lui, fece grandissime imposizioni alla città di Milano e a tutto il ducato, non ostante che i popoli fussino consumati per sí atroci e lunghe guerre e per la fame e per la peste. Restituischino i viniziani al pontefice Ravenna e Cervia co' suoi territori, salve le ragioni loro, e perdonando il pontefice a quelli che avessino macchinato o operato contro a lui: restituischino a Cesare, per tutto gennaio prossimo, tutto quello posseggono nel regno di Napoli: paghino a Cesare il resto de' dugentomila ducati, debiti per il terzo capitolo dell'ultima pace contratta tra loro, cioè venticinquemila ducati infra uno mese prossimo e dipoi venticinquemila ciascuno anno; ma in caso che infra uno anno siano restituiti loro i luoghi, se non fussino restituiti secondo il tenore di detta pace o giudicate per arbitri comuni le differenze: paghino ciascuno anno a' fuorusciti cinquemila ducati per l'entrate de' beni loro, come si disponeva nella pace predetta; a Cesare centomila altri ducati, la metà fra dieci mesi l'altra metà dipoi a uno anno. Decidinsi le ragioni del patriarca di Aquileia, riservategli nella capitolazione di Vormazia, contro al re di Ungheria; includasi in questa pace e confederazione il duca di Urbino, per essere aderente e in protezione de' viniziani. Perdonino al conte Brunoro da Gambara. Sia libero il commercio a' sudditi di tutti, né si dia ricetto a' corsali i quali perturbassino alcuna delle parti: sia lecito a' viniziani continuare pacificamente nella possessione di tutte le cose tengono: restituischino tutti i fatti ribelli per essersi aderiti a Massimiliano, a Cesare e al re di Ungheria, insino all'anno mille cinquecento ventitré; ma non si estenda la restituzione a' beni pervenuti nel fisco loro. Sia tra dette parti non solo pace ma lega difensiva perpetua per gli stati di Italia contro a qualunque cristiano. Promette Cesare che il duca di Milano terrà continuamente nel suo stato cinquecento uomini d'arme, e [egli stesso], per la difesa del duca e de' viniziani, ottocento uomini d'arme computativi i cinquecento predetti, cinquecento cavalli leggieri seimila fanti, con buona banda di artiglierie, e i viniziani il medesimo alla difesa del duca di Milano; ed essendo molestato ciascuno di questi stati, gli altri non permettino che vadia vettovaglie munizioni corrieri imbasciadori di chi offende, proibirgli ogni aiuto de' suoi stati e il transito a lui e alle sue genti. Se alcuno principe cristiano, eziandio di suprema dignità, assalterà il regno di Napoli, siano tenuti i viniziani ad aiutarlo con quindici galee sottili bene armate. Siano compresi i raccomandati di tutti, nominati e nominandi, non perciò con altra obligazione de' viniziani alla difesa. Se il duca di Ferrara concorderà col pontefice e con Cesare, si intenda incluso in questa confederazione. Per la esecuzione de' quali accordi, Cesare restituí a Francesco Sforza Milano e tutto il ducato, e ne rimosse tutti i soldati; ritenendosi solamente quegli che erano necessari per la guardia del castello e di Como; i quali restituí poi al tempo convenuto. E i viniziani restituirono al pontefice le terre di Romagna, e a Cesare le terre tenevano nella Puglia.


"Francesco Guicciardini - Opere - Storia d'Italia", a cura di Emanuella Scarano, Unione Tipografico-Editrice Torinese (U.T.E.T.), Torino, 1981







        Francesco Guicciardini - Opera Omnia  -  a cura de ilVignettificio

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