Francesco Guicciardini - Opera Omnia >>  Storia d'Italia




 

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LIBRO VENTESIMO


I

Firenze sola in guerra; il principe d'Oranges prende la Lastra; resa di terre dei fiorentini alle milizie imperiali e al pontefice. Trattative palesi e occulte di Malatesta Baglioni col pontefice. Disegni degli assedianti contro Firenze. Giuramento delle milizie in Firenze di difendere la città fino alla morte; infedeltà di Napoleone Orsini. Condotta ambigua del re di Francia per i maneggi del pontefice. Incoronazione di Cesare; come vien definita la questione fra il pontefice e il duca di Ferrara.

Posto, per la pace e confederazione predetta, fine a sí lunghe e gravi guerre, continuate piú di otto anni con accidenti tanto orribili, restò Italia tutta libera da' tumulti e da' pericoli delle armi, eccetto la città di Firenze; la guerra della quale aveva giovato alla pace degli altri, ma la pace degli altri aggravava la guerra loro. Perché, come le difficoltà che si trattavano furono in modo digerite che non si dubitava la concordia dovere avere perfezione, Cesare, levate le genti dello stato de' viniziani, mandò quattromila fanti tedeschi, dumila cinquecento fanti spagnuoli, ottocento italiani, piú di trecento cavalli leggieri, con venticinque pezzi d'artiglieria, alla guerra contro a' fiorentini. Nella quale si erano fatte pochissime fazioni, né a pena degne di essere scritte: non bastando l'animo a quegli di fuora di combattere la città, né essendo pronti quegli di dentro a tentare la fortuna; perché, reputando d'avere modo a difendersi molti mesi, speravano che, o per mancamento di danari o per altri accidenti, gli inimici non avessino a starvi lungamente. Aveva perciò il principe mandato mille cinquecento fanti quattrocento cavalli e quattro pezzi di artiglieria a pigliare la Lastra, dove erano tre bandiere di fanti; e innanzi arrivasse il soccorso di Firenze la prese, ammazzati degli inimici circa dugento fanti. Succedé che la notte degli undici di dicembre Stefano Colonna, con mille archibusieri e quattrocento tra alabarde e partigiane, tutti in corsaletto e all'uso spagnuolo incamiciati, assaltorono il colonnello di Sciarra, alloggiato nelle case propinque alla chiesa di Santa Margherita a Montici, sforzoronle, con morte di piú di dugento uomini e molti feriti, e tutto il colonnello in sbaraglio, né perderono uno uomo solo. E andando Pirro da Castel di Piero per pigliare Montopoli, terra del contado di Pisa, i fanti che erano in Empoli, tagliatagli la strada tra Palaia e Montopoli, lo roppono, fatti molti prigioni. E da uno colpo di artiglieria fu morto, nell'orto di Saminiato, Mario Orsino e Giulio da Santa Croce. E nel Borgo da Sansepolcro entrò Napolione Orsino, soldato de' fiorentini, con cento cinquanta cavalli, perché Alessandro Vitelli, verso il Borgo e Anghiari, andava distruggendo il paese. Ma passate che ebbono l'Alpi le genti mandate nuovamente da Cesare, Pistoia e poi Prato, abbandonate dalle genti de' fiorentini, si arrendorono al pontefice: però l'esercito, non avendo alle spalle impedimento, non si andò a unire con li altri, ma fermatosi dall'altra parte di Arno alloggiò a Peretola presso alle mura della città, sotto il governo del marchese del Guasto, benché a tutti era superiore il principe di Oranges: essendo già ridotte le cose piú presto in forma di assedio che di oppugnazione. Arrendessi anche Pietrasanta al pontefice.

Nella fine di questo anno, il pontefice, ricercato da Malatesta Baglione che gli dava speranza di concordia, mandò a Firenze indiritto a lui Ridolfo Pio vescovo di Faenza; col quale furono trattate varie cose, parte con saputa della città in beneficio, parte occultamente da Malatesta contro alla città; le quali non ebbono altro effetto, anzi si credette che Malatesta, che era al fine della sua condotta, l'avesse tenute artificiosamente, acciò che i fiorentini, per timore di non essere abbandonati da lui, lo riconducessino con titolo di capitano generale; il che ottenne.

Seguitò l'anno mille cinquecento trenta la impresa medesima: dove benché Oranges, con cominciare nuovi cavalieri e nuove trincee, facesse dimostrazione di volere battere i bastioni piú d'appresso, e massime quel di San Giorgio molto gagliardo, nondimeno, parte per la imperizia sua parte per la difficoltà della cosa, non si messe a esecuzione disegno alcuno; appartenendo a Stefano Colonna la guardia di tutto il monte.

Nel principio di questo anno, i fiorentini, presa speranza dalle cose trattate col vescovo di Faenza, mandorono di nuovo oratori al pontefice e a Cesare; ma con precisa commissione di non udire cosa alcuna per la quale si trattasse di alterare il governo o diminuire il dominio: però, essendo discordi nello articolo principale, non avendo anche potuto ottenere udienza da Cesare, ritornorono presto a Firenze senza conclusione. Dove erano nove in diecimila fanti vivi, ma pagati di sorte che ascendevano a piú di quattordicimila paghe. Però i soldati difendevano la città con grande affezione e prontezza di fede: i quali per stabilire tanto piú, i capitani tutti, convocati nella chiesa di San Niccolò, dopo avere udita la messa, feciono, presente Malatesta, uno solenne giuramento di difendere la città insino alla morte. Solo in questa costanza e fedeltà de' fanti italiani si dimostrò incostante e infedele Napolione Orsino; il quale, ricevuti danari da' fiorentini, se ne ritornò a Bracciano, e composte le cose sue col pontefice e con Cesare, fece opera che alcuni capitani stativi mandati da lui si partissino da Firenze.

Ma il pontefice, non lasciando indietro diligenza alcuna per ottenere lo intento suo, operò che il re di Francia mandò Chiaramonte a Firenze a scusare l'accordo fatto, per la necessità di riavere i figliuoli, e lo essere stato impossibile lo includervi loro; confortandogli a pigliare gli accordi potevano, pure che fussino utili e con la libertà: offerendo quasi di volersi intromettere. Comandò ancora a Malatesta e a Stefano Colonna, come uomini del re, e protestò loro che partissino di Firenze; benché da parte segretamente dicesse il contrario. Ma quel che importò piú, per la perdita della riputazione e spavento del popolo, fu che, per sodisfare al pontefice e Cesare, levò monsignore di Viglí che ordinariamente risedeva suo oratore in Firenze, lasciatovi però come privato Emilio Ferretto per non gli disperare del tutto; e promettendo anche loro segretamente di aiutargli, come avesse ricuperato i figliuoli. E vacillò anche il re di fare partire l'oratore fiorentino dalla sua corte: aiutandosi il pontefice con tutte l'arti, perché per Tarbes mandò il cappello del cardinalato al cancelliere, e non molto dipoi la legazione del regno di Francia. Per il quale introdusse anche pratica di nuovo abboccamento, a Turino, tra Cesare il re di Francia e lui. Ma fu risposto a Tarbes, nel consiglio regio, che stando i figli in prigione era stoltizia che il re andasse cercando di entrarvi anche lui.

Statuirono poi il pontefice e Cesare andare a Siena, per dare piú dappresso favore alla impresa, e poi trasferirsi a Roma per la corona: ma essendo già in procinto di partirsi, o vera o simulata che fusse la deliberazione, sopravenneno lettere di Germania che lo sollecitavano a trasferirsi di là facendone instanza gli elettori e i príncipi per conto delle diete; Ferdinando per essere eletto re de' romani, gli altri per rispetto del concilio. Però, omesso il pensiero di andare innanzi, prese in Bologna, con concorso grande ma con piccola pompa e spesa, la corona imperiale, il giorno di san Mattia, giorno a lui di grandissima prosperità; perché in quel dí era nato, in quel dí era stato fatto suo prigione il re di Francia, in quel dí assunse i segni e ornamenti della degnità imperiale. Attese nondimeno, innanzi partisse, alla concordia del duca di Ferrara col pontefice; il quale a' sette di marzo venne a Bologna con salvocondotto. Né si trovando altro esito a questa differenza, fecieno compromesso di ragione e di fatto di tutte le loro controversie in Cesare: inducendosi il pontefice a farlo perché, essendo il compromesso generale, in modo che includeva ancora la controversia di Ferrara, la quale non si dubitava che seconda i termini giuridichi non fusse devoluta alla sedia apostolica, gli parve che Cesare avesse il modo facile, col porgli silenzio sopra Ferrara, a restituirgli Modena e Reggio; e perché Cesare gli impegnò la fede, trovando che avesse ragione sopra quelle due città, pronunziare il giudizio, trovando altrimenti lasciare spirare il compromesso. E per sicurtà della osservanza del laudo, convenneno che il duca deponesse Modena in mano di Cesare: il quale prima, a instanza di Cesare, [aveva] rimosso l'oratore suo di Firenze e mandato guastatori allo esercito. Partí dipoi Cesare da Bologna a' ventidue, avuta intenzione dal pontefice di consentire al concilio se si conoscesse essere utile per estirpare la eresia de' luterani; e con lui andò legato il cardinale Campeggio. Ma arrivato a Mantova, ricevuti dal duca di Ferrara sessantamila ducati, gli concedette la terra di Carpi in feudo perpetuo. E il pontefice partí, a' trentuno, alla volta di Roma; restando le cose di Firenze nelle medesime difficoltà.



II

Scaramuccie sotto Firenze. Francesco Ferruccio riconquista Volterra arresasi al pontefice. Nuove scaramuccie tra fiorentini e imperiali. Speranza de' fiorentini nel re di Francia e scarsi aiuti avutine. Conquista della fortezza di Empoli da parte degli imperiali; ragioni per cui i fiorentini non possono piú sperare negli aiuti del re di Francia. Vani assalti degli imperiali a Volterra; sortita di assediati da Firenze. Strettezze del vivere in Firenze; battaglia di Gavinana; morte del principe d'Oranges e uccisione del Ferruccio. Stato d'animo in Firenze; come Malatesta Baglioni forza i fiorentini agli accordi; patti dell'accordo; mutamento del governo in Firenze. Persecuzioni, e tristi condizioni della città.

Facevano [gli imperiali] molti segni di volere assaltare la città, però si lavorava la trincea innanzi al bastione di San Giorgio; dove essendosi fatta, a' ventuno di marzo, una grossa scaramuccia, riceverono quegli di fuora assai danno. Batté Oranges a' venticinque la torre di... a canto al bastione di San Giorgio verso la porta Romana, perché offendeva molto l'esercito; ma trovandola solidissima, dopo molte cannonate, se ne astenne. E accumulandosi ogni dí nuova gente, poiché in Italia non erano né altre guerre né altre prede, il Maramaus venne in quel di Siena, contro alla volontà del pontefice, con dumila fanti.

Erasi la città di Volterra arrenduta al pontefice; ma tenendosi la fortezza per i fiorentini, si batteva in nome degli imperiali con due cannoni e tre colubrine venute da Genova: la quale desiderando i fiorentini soccorrere, mandorono a Empoli cento cinquanta cavalli e cinque bandiere di fanti, i quali, usciti di notte, passorono per il campo tra Monte Uliveto e San Giorgio; ed essendo scoperti furno mandati dietro a loro cavalli, i quali gli raggiunseno, ma combattuti dagli archibusieri si ritirorono con qualche danno; e i cavalli usciti di Firenze, per altra via dietro al campo, si condusseno salvi. Entrorono adunque, a' ventisei di aprile a ventuna ora, nella fortezza di...; e rinfrescati i soldati, assaltò subito la terra: e prese, insino alla notte, due trincee; in modo che, la mattina seguente, la città si dette. E guadagnò il Ferruccio l'artiglieria venuta da Genova. E trovandosi in Volterra con quattordici compagnie di fanti, arebbe fatto rivoltare Sangeminiano e Colle e, interrompendo le vettovaglie che per quella via venivano da Siena, messo lo esercito in grave difficoltà: i capitani del quale non pensando piú se non allo assedio, il marchese del Guasto ritirò in Prato l'artiglierie. Ma essendo opportunamente sopragiunto in quelle bande il Maramaus, con dumila cinquecento fanti non pagati, soccorso venuto (tanto sono incerte le cose della guerra) contro alla volontà del pontefice, fermò l'impeto suo.

A' nove di maggio si fece una grossa scaramuccia fuora della porta Romana: morti e feriti di quegli di dentro cento trenta, di quegli di fuori piú di dugento; tra' quali il capitano Baragnino spagnuolo.

Speravano pure ancora i fiorentini dal re di Francia qualche sussidio, il quale continuava di promettere grandissimo soccorso recuperati che avesse i figliuoli; e per nutrirgli in questo mezzo con speranza, dette assegnamento a mercatanti fiorentini per ventimila ducati, dovuti loro molti anni innanzi, perché gli prestassino alla città; i quali furono condotti a Pisa da Luigi Alamanni, ma in piú volte, in modo che feceno poco frutto. Venne anche a Pisa Giampaolo da Ceri, condotto da' fiorentini per la guardia di quella città.

Ma l'acquisto di Volterra generò danno molto maggiore a fiorentini, perché il Ferruccio, contro alla commissione avuta, aveva, per andare piú forte a Volterra e per confidarsi troppo della fortezza di Empoli, lasciatovi sí poca guardia che, dato animo agli imperiali di espugnarlo, vi andorono a campo e lo preseno per forza e saccheggioronlo. La perdita del quale luogo afflisse, piú che altra cosa che fusse succeduta in quella guerra, i fiorentini; perché, avendo disegnato fare in quel luogo massa di nuove genti, speravano con l'opportunità del sito, che è grandissima, mettere in difficoltà grande l'esercito alloggiato da quella parte d'Arno, e aprire la comodità delle vettovaglie a' fiorentini che già molto ne pativano. E si aggiunse nuova cagione di privargli tanto piú delle speranze concepute, perché avendo il re di Francia, al principio di giugno, pagato, secondo le loro convenzioni, i danari a Cesare e riavuti i figliuoli, in luogo di tanti aiuti che aveva sempre detto di riservare a quel tempo, mandò a instanza del pontefice (il quale per gratificarsi totalmente i ministri suoi creò il vescovo di Tarba, oratore appresso a lui, cardinale) Pierfrancesco da Pontriemoli, confidente a lui in Italia, per trattare la pratica dello accordo co' fiorentini; che, per questo, al tutto perderono la speranza degli aiuti di quel re: il quale insieme col re di Inghilterra, essendo congiunti insieme, facevano ogni opera per conciliarsi in modo il pontefice che potessino sperare di separarlo da Cesare. E però il re di Francia si sforzava avere, nel fare venire Firenze in sua potestà, qualche grado e qualche partecipazione.

Preso che ebbe il marchese del Guasto Empoli, andò con quelle genti a unirsi col Maramaus nel borgo di Volterra; ed essendo circa seimila fanti cominciorono a battere la terra, ed essendo in terra forse quaranta braccia di mura detteno tre assalti invano, con la morte di piú di quattrocento uomini. Feciono poi nuova batteria, e detteno uno assalto gagliardo co' fanti italiani e spagnuoli ma con danno maggiore che negli assalti di prima; in modo che il campo si levò. E il medesimo dí, un'ora innanzi giorno, uscirono Stefano Colonna dalla porta a Faenza con una incamiciata di tremila fanti, e Malatesta dalla porticciuola al Prato, per assaltare i tedeschi che alloggiavano nel monasterio di San Donato, nel quale si erano fortificati. Passò Stefano le trincee e ne ammazzò molti, ma gli altri messisi in questo mezzo in battaglia si difeseno francamente; e Stefano ferito in bocca e nel membro virile, ma leggiermente, si ritirò, non potendo tardare molto per paura del soccorso, e lamentandosi gravemente di Malatesta che non l'avesse seguitato.

Cresceva continuamente in Firenze, dove non entrava piú vettovaglia da parte alcuna, la strettezza del vivere; e nondimeno non diminuiva la ostinazione. Ed essendo andato da Volterra a Pisa il Ferruccio e raccogliendo quanti piú fanti poteva, era ridotta tutta la speranza loro nella venuta sua: perché gli avevano commesso che, per qualunque via e con ogni pericolo, si mettesse a venire; disegnando, come fusse unito con le genti che erano in Firenze, di andare a combattere con gli inimici. Nel quale disegno non fu maggiore la felicità del successo che fusse grande la temerità della deliberazione, se temerari si possono chiamare i consigli spinti dall'ultima necessità. Perché avendo a passare per paesi inimici, e occupati da esercito molto grosso benché disperso in molti luoghi, il principe, levata una parte dello esercito e raccolte piú bande di fanti italiani, avuta (come i fiorentini sospettorono) fede occultamente da Malatesta Baglione, col quale aveva pratiche strettissime, che in assenza sua non assalterebbe l'esercito, andò a incontrarlo; e trovatolo presso a Cavinana, nella montagna di Pistoia (il quale cammino aveva preso passando da Pisa accanto a Lucca, per la confidenza della fazione Cancelliera affezionata al governo popolare), si attaccò con lui molto superiore di forze: dove, nel primo impeto, facendo il principe offizio di uomo d'arme non di capitano, spintosi temerariamente innanzi fu ammazzato. Nondimeno ottenuta da' suoi la vittoria, restò prigione insieme con molti altri Giampaolo da Ceri e il Ferruccio, che cosí prigione fu ammazzato da Fabrizio Maramaus, per sdegno, secondo disse, conceputo da lui quando, nella oppugnazione di Volterra, fece appiccare uno trombetto, mandato in Volterra da Fabrizio con certa imbasciata.

Cosí abbandonati i fiorentini da ogni aiuto divino e umano, e prevalendo la fame senza speranza alcuna che potesse piú essere sollevata, era nondimeno maggiore la pertinacia di quegli che si opponevano allo accordo: i quali, indotti dalla ultima disperazione di non volere che senza l'eccidio della patria fusse la rovina loro, né trattandosi piú che essi o altri cittadini morissino per salvare la patria ma che la patria morisse insieme con loro, erano anche seguitati da molti che avevano impresso nell'animo che gli aiuti miracolosi di Dio si avessino a dimostrare, ma non prima che condotte le cose a termine che quasi piú niente di spirito vi avanzasse. Ed era pericolo che la guerra non finisse con l'ultimo esterminio di quella città, perché in questa ostinazione concorrevano i magistrati, e quasi tutti quegli che avevano in mano la publica autorità; non restando luogo agli altri, che sentivano il contrario, di contradire per timore de' magistrati e minacci dell'arme: se Malatesta Baglioni, conoscendo le cose senza rimedio, non gli avesse quasi sforzati a concordare; movendolo forse la pietà di vedere totalmente perire, per la rabbia de' suoi cittadini, sí preclara città, e il disonore e danno che gli risulterebbe a trovarsi presente a tanta rovina; ma molto piú, secondo si credette, la speranza di conseguire dal papa, per mezzo di questo accordo, di ritornare in Perugia. Però, mentre che i magistrati e gli altri piú caldi trattano che le genti uscissino della città a combattere con gli inimici, molto maggiori di numero e alloggiati in luoghi forti, ed egli recusa, moltiplicarono in tanta insania che cassatolo del capitanato mandorono alcuni di loro de' piú pertinaci a denunziargliene, e fargli comandamento che partisse con le sue genti della città: alla quale esposizione concitato molto di animo, con uno pugnale che aveva a canto ferí uno di loro, che con fatica gli fu vivo tolto delle mani da' circostanti; di che spaventati gli altri, e cominciatasi a sollevare la città, repressa da quegli di minore insania la temerità del gonfaloniere che si armava, ora dicendo volere assaltare Malatesta ora uscire a combattere con gli inimici, finalmente l'ostinazione estrema di molti cedé alla necessità estrema di tutti. Però, mandati a' nove di agosto quattro oratori a don Ferrando da Gonzaga, che per la morte del principe teneva il primo luogo dello esercito, perché il marchese del Guasto molto prima si era partito, fu concluso il dí seguente l'accordo; del quale, oltre a obligarsi la città a pagare in pochissimi dí ottantamila ducati per levare l'esercito, furono gli articoli principali che il papa e la città detteno autorità a Cesare che infra tre mesi dichiarasse quale avesse a essere la forma del governo, salva nondimeno la libertà: e che si intendessino perdonate a ciascuno tutte le ingiurie fatte al papa e a' suoi amici e servitori; e che, insino a tanto venisse la dichiarazione di Cesare, restasse a guardia della città con dumila fanti Malatesta Baglione. Il quale accordo fatto, mentre si espediscono i denari per dare allo esercito, (bisognò si provedesse di somma molto maggiore, non essendo il papa molto pronto ad aiutare la città di denari in tanto pericolo), il commissario apostolico, che era Bartolomeo Valori, intesosi con Malatesta, intento tutto al ritorno di Perugia, convocato in piazza il popolo, secondo la consuetudine antica della città, a fare parlamento, cedendo a questo i magistrati e gli altri per timore, indusse nuova forma di governo; dandosi per il parlamento autorità a dodici cittadini che aderivano a' Medici di ordinare a modo loro il governo della città, che lo ridusseno a quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille cinquecento ventisette. Levossi poi l'esercito, avendo ricevuto i denari; i quali i capitani italiani, per convertirgli in uso suo e non pagarne i soldati, con grande ignominia della milizia, si ritirorono con essi in Firenze, licenziati con pochissimi denari i fanti: i quali restando senza capo se ne andorono dispersi in varie parti; e lo esercito degli spagnuoli e tedeschi, pagati del tutto e lasciato vacue tutte le terre e dominio fiorentino, se ne andò in quel di Siena per riordinare il governo di quella città; e Malatesta Baglione, concedendogli il papa il ritornare in Perugia, non aspettata altra dichiarazione di Cesare, lasciò la città libera in arbitrio del pontefice.

Dove, come furono partiti tutti i soldati, cominciorono i supplizi e le persecuzioni de' cittadini: perché quegli in mano di chi era il governo, parte per assicurare meglio lo stato, parte per lo sdegno conceputo contro agli autori di tanti mali e per la memoria delle ingiurie ricevute privatamente, ma principalmente perché cosí fu (benché lo manifestasse a pochi) la intenzione del pontefice, interpretorono, osservando forse la superficie delle parole ma cavillando il senso, che il capitolo per il quale si prometteva la venia a chi avesse ingiuriato il pontefice e gli amici suoi non cancellasse le ingiurie e i delitti commessi da loro nelle cose della republica. Però, messa la cognizione in mano de' magistrati, ne furono decapitati sei de' principali, altri incarcerati e relegatine grandissimo numero. Per il che essendo indebolita piú la città, e messi in maggiore necessità quegli che avevano partecipato in queste cose, restò piú libera e piú assoluta e quasi regia la potestà de' Medici in quella città, restata per sí lunga e grave guerra esaustissima di denari, privata dentro e fuora di molti abitatori, perdute le case e le sostanze, e piú che mai divisa in se medesima: la quale povertà fece ancora maggiore la necessità di provedere, per piú anni, di paesi esterni alle vettovaglie del paese. Con ciò sia che quello anno non si fusse ricolto né dipoi seminato, e i disordini di quello anno trasfusi negli altri; in modo che piú denari uscirono di quella città, estenuata sopramodo e afflitta, in fare venire frumenti di luoghi lontani e bestiami fuora del dominio che non erano usciti per conto della guerra, sí grave e piena di tante spese.



III

La questione religiosa in Germania e il desiderio generale d'un concilio; ragioni di avversione del pontefice al concilio, e condizioni poste per la convocazione di esso. Pratiche del re di Francia coi turchi.

Cesare intanto, in Germania, convocata la dieta in Augusta, aveva fatto eleggere in re de' romani Ferdinando suo fratello. E trattandosi delle cose de' luterani, sospette eziandio alla potenza de' príncipi, e derivate, per la moltitudine e ambizione de' settatori, in diverse eresie e quasi contrarie l'una a l'altra e a Martino Luter, autore di questa peste (la vita e l'autorità del quale, tanto era diffuso e radicato questo veleno, non era piú di momento alcuno), nessuno occorreva a' príncipi di Germania migliore rimedio che la celebrazione di uno concilio universale; perché e i luterani, volendo coprire la causa loro con l'autorità della religione, instavano che questo si facesse, e si credeva che l'autorità de' decreti che facesse il concilio bastasse, se non a piegare gli animi de' capi degli eretici da' loro errori, almeno a ridurre una parte della moltitudine nella migliore sentenza. Senzaché in Germania, eziandio da quegli che seguitavano le opinioni cattoliche, era desiderato molto il concilio perché si riformassino i gravamenti e gli abusi trascorsi della corte di Roma; la quale, e con l'autorità delle indulgenze e con la larghezza delle dispense e con volere l'annate de' benefizi che si conferivano, e con le spese che nella espedizione d'essi si facevano negli uffizi tanto moltiplicati di quella corte, pareva che non attendesse ad altro se non a esigere, con questa arte, quantità grande di denari da tutta la cristianità; non avendo intratanto cura alcuna della salute delle anime né che le cose ecclesiastiche fussino governate rettamente: perché e molti benefizi incompatibili si conferivano in una persona medesima, né avendo rispetto alcuno a' meriti degli uomini si distribuivano per favori, o in persone incapaci per la età o in uomini vacui al tutto di dottrina e di lettere e (quel che era peggio) spesso in persone di perditissimi costumi. Alla quale instanza di tutta la Germania desideroso Cesare di sodisfare, e perché anche era a proposito delle cose sue in quella provincia sedare le cagioni de' tumulti e della contumacia de' popoli, instette molto col papa, ricordandogli i ragionamenti avuti insieme a Bologna, che indicesse il concilio, e promettendogli, acciò che non temesse di avere a mettere in pericolo l'autorità e la degnità sua, di trovarvisi presente per avere cura particolare di lui. Nessuna cosa dispiaceva piú al papa di questa, ma per conservare la esistimazione della buona mente sua dissimulava questa inclinazione: o causata da temere che, per moderare le abusioni della corte e le indiscrete concessioni de' pontefici, non si diminuisse troppo la facoltà pontificale; o per ricordarsi che, se bene quando fu promosso al cardinalato era stato provato con testimoni che i suoi natali fussino legittimi, e nondimeno essere in verità il contrario (il che se bene non si trovasse legge scritta che proibisse ascendere al pontificato chi fusse nato in questo modo, nondimeno era inveterata e comune opinione che chi non era legittimo non potesse eziandio essere creato cardinale) o temendo che non senza qualche sospetto di simonia, usata col cardinale Colonna, fusse stato assunto al pontificato, o dubitando che la acerbità grande usata contro alla patria, con tanti tumulti di guerra, non gli desse infamia indelebile appresso al concilio, massime essendo apparito per gli effetti averlo mosso non, come da principio publicava, il desiderio di ridurla a buono e moderato governo ma la cupidità di farla tornare nella tirannide de' suoi. Però, aborrendo il concilio, né avendo per sicurtà bastante la fede di Cesare, comunicando le cose con cardinali deputati alla discussione di questa materia, sospettosi ancora loro della correzione del concilio, rispondeva mostrando molte ragioni per le quali non era opportuno a trattarne, non si vedendo ancora stabilita bene la pace tra i príncipi cristiani, temendosi di nuovi moti del turco, i quali non sarebbe utile che trovassino la cristianità occupata nelle disputazioni e contenzioni del concilio: e nondimeno, mostrando rimettersene al parere di Cesare, conchiudeva essere contento che e' promettesse nella dieta la indizione del concilio, pure che si celebrasse in Italia e presente lui, assegnato tempo congruo a congregarlo, e che i luterani e altri eretici, promettendo di stare alla determinazione del concilio, desistessino intratanto dalle corruttele loro, e rimettendo la sedia apostolica nella possessione della sua obedienza vivessino come solevano prima, e come cattolici cristiani. Da che si difficultava tutta la pratica: perché i luterani non solo non erano per desistere dalle opinioni e riti loro innanzi alla celebrazione del concilio, ma si credeva comunemente che aborrissino il concilio non potendo aspettarne altro che reprobazione delle opinioni loro (conciossiaché la maggiore parte di quelle, e le piú principali, fussino state reprobate piú volte come eretiche dagli antichi concili), ma che dimandassino la convocazione di esso perché, sapendo essere cosa spaventosa a' pontefici, si persuadessino non avesse a essere concesso, e cosí sostentare con maggiore autorità appresso a' popoli la causa loro.

Finí in queste agitazioni l'anno mille cinquecento trenta e succedette il mille cinquecento trentuno, nel quale fu piccola materia di movimenti. Perché, se bene per molti segni si comprendesse il re di Francia essere malcontento degli accordi fatti con Cesare e cupidissimo di nuovi tumulti, e a questo medesimo inclinare anche il re di Inghilterra, sdegnato con Cesare che difendendo la sorella di sua madre oppugnava la causa del divorzio, nondimeno, essendo il re di Francia esausto di denari, né ancora riposato da' travagli di sí lunghe guerre, non era ancora il tempo opportuno a suscitare innovazioni; ma attendeva intratanto a praticare, cosí in Germania co' príncipi che erano d'animo alieno da Cesare come in Italia col pontefice, proponendogli, per farselo benivolo, pratiche di matrimonio tra il figliuolo suo secondogenito e la nipote di lui; e (quello che si trattava con maggiore offesa di Dio e con orribile infamia della corona di Francia, che aveva fatto sempre precipua professione di difendere la religione cristiana, per i quali meriti aveva conseguitato il titolo del cristianissimo) tenendo pratiche col principe de' turchi per irritarlo contro a Cesare, contro al quale era per l'ordinario mal disposto, sí per l'odio naturale contro al nome de' cristiani come per cagione delle controversie che aveva col fratello, che erano quistioni per il regno d'Ungheria col vaivoda di chi egli aveva preso la protezione, come eziandio perché la grandezza di Cesare cominciava a essere sospetta anche a lui.



IV

Movimenti politici in Siena. La forma di governo in Firenze stabilita da Cesare. Giudizio di Cesare riguardo alle controversie fra il pontefice e il duca di Ferrara; malcontento del pontefice; sua ostilità verso il duca.

In Italia si levò l'esercito di quel di Siena per condurlo nel Piemonte; avendo rimesso in Siena, per sodisfazione del papa, a godere la patria e i beni loro quegli del Monte de' nove, ma non alterata la forma del governo, e messovi per sicurtà loro una guardia di trecento fanti spagnuoli, dependente dal duca di Malfi: il quale per aversi saputo poco conservare la sua autorità, ritornorno presto le cose ne' medesimi disordini; in modo che, quegli che erano stati rimessi, per timore, se ne partirono.

Dichiarò eziandio Cesare in questo tempo la forma del governo di Firenze, dissimulata quella parte dell'autorità concessagli che limitava salva la libertà: perché, secondo la propria istruzione mandatagli dal papa, espresse che la città si governasse con quegli magistrati e con quel modo che era solita governarsi ne' tempi che la reggevano i Medici, e che del governo fusse capo Alessandro nipote del pontefice e genero suo, e mancando lui succedessino di mano in mano i figliuoli e discendenti, e i piú prossimi della medesima famiglia. Restituí alla città tutti i privilegi concessigli altre volte da sé e da' suoi predecessori, ma con condizione che ne ricadessino ogni volta che attentassino cosa alcuna contro alla grandezza della famiglia de' Medici; inserendo in tutto il decreto parole che mostravano fondarsi non solo nella potestà concessagli dalle parti ma eziandio nell'autorità e degnità imperiale.

Nelle quali cose avendo sodisfatto al papa forse piú che alla facoltà concessagli nel compromesso, lo offese incontinente in cosa che gli fu molto grave. Perché, poi che da piú dottori, a' quali l'aveva commesso, fu udita ed esaminata la controversia tra il pontefice e il duca di Ferrara, sopra la quale erano stati per tutt'e due le parti prodotti molti testimoni e scritture e fatto lungo processo, pronunziò per consiglio e relazione loro, Modena e Reggio con quelle terre appartenersi di ragione al duca di Ferrara; e che il pontefice, ricevuti da lui centomila ducati e ridotto il censo al modo antico, lo rinvestisse della giurisdizione di Ferrara. Sforzossi Cesare fare capace al papa che se, contro alla promessa fattagli in Bologna (di non pronunziare in caso trovasse la causa sua non essere giusta), aveva pronunziato, doversi lamentare non di sé ma del vescovo di Vasone nunzio suo; al quale non aveva mancato di fare intendere che non voleva lodare per non essere costretto a dargli il giudizio contro, ma che egli, persuadendosi il contrario, e che questo si dicesse per scaricarsi dalla promessa fattagli di lodare se le ragioni erano per lui, aveva fatto tanta instanza che si pronunziasse che era stato necessitato di farlo per conservazione dell'onore suo: la quale scusa sarebbe stata piú capace se il giudizio non fusse stato in quel medesimo effetto nel quale Cesare aveva tentato molte volte di ridurre la cosa per concordia. Ma offese ancora molto piú il pontefice il vedere che Cesare, nel pronunziare sopra le cose di Modena e Reggio, aveva seguitato la via di giudice rigoroso; ma in quelle di Ferrara, nelle quali il rigore era manifestamente per sé, aveva seguitato l'uffizio di amicabile compositore. Però il papa non volle ratificare il lodo dato, non pigliare il pagamento de' denari ne' quali era condennato il duca; e nella prossima festività di san Piero non accettò il censo offertogli, secondo il costume antico, publicamente. Ma non restò per questo Cesare di consegnare al duca di Ferrara Modena, tenuta insino a quel dí da lui in deposito, lasciando poi decidere tra loro le altercazioni: donde, per molti mesi, né fu scoperta guerra tra il papa e il duca né sicura pace, essendo tutto intento il pontefice o a opprimerlo con insidie o ad aspettare occasione di potere, con appoggio di maggiori príncipi, offenderlo scopertamente.



V

Impresa dei turchi contro l'Ungheria; loro ritirata e lentezza di Cesare; sedizione in Germania dei fanti italiani. Prigionia e liberazione del cardinale dei Medici e di Piermaria Rosso. Rinuncia dei re di Francia e d'Inghilterra a muover guerra a Cesare in Italia.

Non ebbe questo anno trentuno altri accidenti; e si andò continuando anche la quiete nel futuro anno, il quale fu piú pericoloso per guerre esterne che per movimenti di Italia. Perché il turco, acceso dall'ignominia della ributtata di Vienna e inteso Cesare essere in Germania, preparò grossissimo esercito, magnificando gli apparati con publicare di volere fare la guerra per costrignere Cesare a fare giornata seco: per la fama delle quali preparazioni e Cesare si messe in ordine quanto poteva, facendo eziandio passare il marchese del Guasto in Germania con le genti spagnuole e con grossa banda di cavalli e di fanti italiani; e il papa gli promesse soccorrerlo con quarantamila ducati ciascuno mese, e mandò a quella espedizione per legato apostolico il cardinale de' Medici suo nipote; e i príncipi e terre franche di Germania preparorono, in favore di Cesare e per la difensione comune della Germania, uno esercito molto grosso. Ma riuscirono gli effetti molto dissimili alla fama e al terrore. Perché Solimanno, entrato tardi in Ungheria, non avendo potuto arrivarvi prima per la grandezza degli apparati e per la distanza del cammino, non andò dirittamente con l'esercito alla volta di Cesare, ma mostrata solamente la guerra e fatta una grossa scorreria se ne ritornò in Costantinopoli: né si dimostrò anche in Cesare maggiore prontezza, perché, inteso l'avvicinarsi de' turchi, non si fece loro incontro, e come intese la ritirata non ebbe pensiero di proseguire con tutte le forze l'occasione dell'acquistare per il fratello l'Ungheria; ma ardente di desiderio di ritornare in Spagna, ordinò che i fanti italiani con certo numero di tedeschi andassino alla impresa d'Ungheria. Ma gli fu disordinato anche questo disegno; perché i fanti italiani, sollevati da qualcuno de' capi loro che veddeno preposti altri capitani a quella impresa, ammutinati, non sapendo allegare cagione del loro tumulto, né bastando a placargli l'autorità di Cesare che andò in persona a parlare loro, preseno unitamente il cammino di Italia, camminando con grandissima celerità per timore di non essere seguitati, e per il cammino ardendo molte ville e case come terre degli inimici, in vendetta (secondo dicevano) degli incendi fatti da' tedeschi in Italia.

Era già anche Cesare voltatosi al cammino di Italia; e avendo disegnato con che ordine e in che alloggiamento dovesse procedere la sua corte e tutto il suo traino, il cardinale de' Medici, mosso da impeto giovinile, non volendo stare a quell'ordine che era dato, si spinse innanzi, e con lui Piermaria Rosso, a chi principalmente si attribuiva la colpa di quella sedizione: donde sdegnato Cesare, o perché attribuisse l'origine di quella cosa al cardinale o perché (secondo disse) temesse che il cardinale, che era malcontento che Alessandro suo cugino fusse proposto allo stato di Firenze, non andasse dietro a quegli fanti per condurgli a turbare le cose di là, fece in cammino ritenere il cardinale e con lui Piermaria; ma considerando poi meglio la importanza della cosa, scrisse subito che fusse liberato, e ne fece seco e col papa molte escusazioni. Restò prigione Piermaria ma non molto dipoi fu relassato, giovandogli, come si credette, appresso a Cesare assai la ingiuria che gli pareva avere fatto al cardinale.

La partita del turco alleggerí Italia dalla guerra imminente. Perché il re di Francia e il re di Inghilterra, pieni di odio e di sdegno contro a Cesare, si erano abboccati tra Cales e Bologna; dove, persuadendosi che il turco avesse a fermarsi quella vernata in Ungheria e cosí tenere implicate le forze di Cesare, trattavano che il re di Francia assaltasse il ducato di Milano; e disposti a tirare il papa nelle loro parti con asprezza e con spavento, poi che non era insino allora potuto succedere per altra via, trattavano di levargli l'ubbidienza de' regni loro in caso non consentisse a quello desideravano, che era, nel re di Francia volere lo stato di Milano, in quello di Inghilterra la sentenza per sé della causa del divorzio: e già avevano disegnato mandare a lui con acerbe commissioni i cardinali di Tornon e di Tarbes, grandi l'uno e l'altro di autorità appresso al re di Francia. Ma mollificò questi disegni lo intendere, innanzi partissino dallo abboccamento, la ritirata del turco; e interroppe anche, che il re di Inghilterra non facesse passare a Cales Anna, per celebrare publicamente in quel convento il matrimonio con lei, non ostante che la lite pendesse nella corte di Roma e che per brevi apostolici gli fusse proibito, sotto pena di gravissime censure, lo attentare cosa alcuna in pregiudizio del primo matrimonio: nondimeno il re di Francia, per dimostrare al re di Inghilterra il male animo contro alla Chiesa romana, ancora che la intenzione sua fusse cercare di guadagnarsi con modi dolci il pontefice, impose di sua autorità decime al clero per tutto il regno di Francia, ed espedí i due cardinali al papa, ma con commissione molto diversa da quelle che da principio erano state disegnate.



VI

Nuovo convegno del pontefice e di Cesare a Bologna; ragioni di minore concordia. Politica dei delegati del pontefice; difficoltà di accordi coi veneziani e col duca di Ferrara; condizioni della nuova confederazione. Scarsi risultati della discussione fra il pontefice e Cesare sull'opportunità della convocazione del concilio. Pratiche pel matrimonio del figlio del re di Francia con la nipote del pontefice; soddisfazione del pontefice e sospetti di Cesare. Confederazione segreta fra il pontefice e Cesare.

Venne Cesare in Italia, e desiderando parlare col pontefice fu statuito di nuovo tra loro il luogo di Bologna, accettato cupidamente dal papa per non dare occasione a Cesare, come era confortato da molti de' suoi, di andare nel regno di Napoli, e cosí dimorare piú tempo in Italia: il che era anche contro alla mente di Cesare, desideroso di andarsene in Spagna, e per altre ragioni; ma principalmente per desiderio di procreare figliuoli, essendovi restata la moglie. Però l'uno e l'altro di loro convenneno, alla fine dell'anno, in Bologna, dove tra loro furono servate le medesime dimostrazioni di amore e la medesima dimestichezza che era stata usata l'altra volta. Ma non erano piú corrispondenti gli animi, come era stato allora, nelle negoziazioni. Perché Cesare desiderava, per quiete e sodisfazione di Germania, sommamente il concilio; instava di volere dissolvere l'esercito, grave e a lui e agli altri, ma, per poterlo fare sicuramente, che si rinnovasse l'ultima lega fatta in Bologna per includervi dentro ognuno, e per tassare le quantità de' denari in che ciascuno avesse a contribuire, se Italia fusse assaltata da' franzesi; desiderava anche che Caterina nipote del papa si maritasse a Francesco Sforza, sí per necessitare piú il papa a attendere alla conservazione di quello stato, sí per interrompere la pratica del parentado che si era trattato col re di Francia. Delle quali cose nessuna piaceva al pontefice: perché il confederarsi era contrario al desiderio suo di mantenersi il piú poteva neutrale tra i príncipi cristiani, dubitando e degli altri pericoli e specialmente che il re di Francia, essendone massime istigato tanto dal re di Inghilterra, non gli levasse l'ubbidienza; il concilio, per l'antiche cagioni, gli era molestissimo; né gli piaceva il parentado col duca di Milano, per non pigliare quasi una aperta inimicizia col re di Francia, e perché ardeva di desiderio di congiugnere la nipote al secondogenito del re.

Trattossi di queste materie, principalmente quella della confederazione; alla quale pratica, di piú mesi, furono diputati, per la parte di Cesare, Cuovos comandatore maggiore di Leone, Granvela e Prata, suoi principali consiglieri, e per la parte del papa il cardinale de' Medici, Iacopo Salviati e il Guicciardino: i quali, non negando la confederazione (perché era uno scoprire troppo la intenzione del pontefice e dare causa a Cesare di avere giustamente gravissimo sospetto di lui), instavano che si facesse ogni opera per farvi condescendere i viniziani, allegando che e senza gli aiuti loro la difesa sarebbe debole, e che con piú riputazione si conservavano le cose comuni mantenendosi in su la fama della prima confederazione che, facendone un'altra senza loro, fare nascere per tutto opinione che tra Cesare il papa e i viniziani fusse discordia. Però furono ricercati di consentire a nuova confederazione per la difesa di tutta Italia; perché per la prima non erano tenuti ad altro che alle cose dello stato di Milano e del regno di Napoli; e desiderava sommamente Cesare che e' fussino anche obligati alla difesa di Genova, dove si pensava che, quando avesse a essere guerra, i franzesi facessino facilmente il primo assalto: perché pretendevano, per cagioni e interessi particolari, poterlo fare senza contravenire agli accordi di Madril e di Cambrai. Negò quel senato volere fare nuova confederazione o ampliare le obligazioni che in quella si contenevano, con grave sdegno di Cesare, non ostante che affermassino volere osservare inviolabilmente questa congiunzione. E nondimeno Cesare instette tanto piú col papa, ribattendo le ragioni che per la parte sua si allegavano in contrario, in modo che si entrò nel praticare gli articoli della confederazione, e si chiamorono tutti i potentati di Italia che mandassino imbasciadori a questa pratica; i quali furno ricercati che entrassino nella confederazione, contribuendo al caso della guerra secondo le forze e possibilità loro. A che non essendo fatta per alcuno difficoltà, ma solamente sforzandosi ciascuno dí alleggerire quello che gli era dimandato di contribuzione, solo Alfonso da Esti propose non potere entrare in lega per difendere gli stati di altri se prima non fusse assicurato del suo: perché, come essere conveniente che avesse a guardarsi dal pontefice e entrare in lega con lui? come potere contribuire co' suoi denari alla difesa di Milano o di Genova se era necessitato spendergli continuamente per tenere gente in Modena e in Reggio, e anche per essere sicuro di Ferrara? Da questa dimanda nacque nuova pratica di concordarlo col papa. Il quale, avendone l'animo alienissimo, né volendo cosí apertamente resistere alla instanza di Cesare, proponeva condizioni inesplicabili; perché, quando pure avesse a lasciare Modena e Reggio ad Alfonso (che altrimenti non era per convenire) voleva le riconoscesse in feudo dalla sedia apostolica: il che non si potendo fare, in modo che fusse giuridicamente valido, senza consenso degli elettori e príncipi dello imperio, metteva Cesare in una difficoltà che non aveva esito. Però si ridusse a pregare il pontefice che, almeno durante la lega, si obligasse di non offendere lo stato che teneva Alfonso: in che, dopo molte dispute, il papa consentí, di assicurarlo per diciotto mesi. E fu finalmente conchiusa la lega, la quale fu stipulata il giorno, tanto felice a Cesare, di san Mattia. Contenne la confederazione obligo, da' viniziani in fuora, di Cesare del re de' romani e di tutti gli altri potentati d'Italia, alla difesa d'Italia; non vi nominando però dentro i fiorentini, per rispetto di non turbare i loro commerci, se non nel modo che erano stati nominati nella lega di Cugnach. Fu espresso con che numero di gente avesse ciascuno di loro a concorrere, e con che quantità di denari a contribuire ciascuno mese: Cesare per trentamila ducati, il pontefice, che si disegnava pagasse per sé e per i fiorentini, per ventimila, il duca di Milano per quindicimila, il duca di Ferrara per diecimila, genovesi per [seimila], sanesi per [dumila], lucchesi per mille, e che, per trovarsi qualche preparazione a uno assalto improviso, tanto che con contribuzioni si potesse poi difendersi, si facesse allora uno deposito di somma quasi pari alle contribuzioni, che non si potesse spendere se non in caso che si vedesse in pronto le preparazioni di assaltare Italia. Ordinossi ancora una piccola contribuzione annuale per intrattenere i capitani che restavano in Italia, e per pagare certe pensioni a' svizzeri, acciò che non avessino causa di dare fanti al re di Francia: e di comune consenso fu dichiarato capitano generale di tutta la lega Antonio de Leva, con ordine si fermasse nel ducato di Milano.

Del concilio non fu conchiuso con sodisfazione di Cesare, che instava che il papa allora lo intimasse: il quale ricusava, allegando che in questa mala disposizione degli animi era pericolo non fusse ricusato da' re di Francia e di Inghilterra, e che facendosi senza loro non poteva introdurre né unione né riformazione della Chiesa, ma era pericolosissimo non ne nascesse lo scisma; essere contento mandare nunzi a tutti i príncipi per indurgli a opera sí santa. E replicando Cesare: che sarà adunque se essi dissentiranno senza giusta cagione? e volendo che in tale caso il papa gli proponesse di intimarlo, non potette disporlo. In modo che si diputorono e mandorono i nunzi con poca speranza di riportarne conclusione.

Ma non restò anche Cesare piú sodisfatto della pratica del parentado. Perché essendo venuti a Bologna i due cardinali, e introdotto di nuovo il ragionamento del parentado del re di Francia, il pontefice replicava a quello del duca di Milano, che avendogli il re molto prima proposto il matrimonio del suo figliuolo, ed egli udita la pratica con consenso di Cesare (che allora dimostrò di esserne contento), gli pareva fare troppa ingiuria al re di Francia se, pendenti questi ragionamenti, la maritasse a uno inimico suo: credere che questo fusse introdotto dal re artificiosamente, per intrattenerlo e non con animo di conchiudere, essendovi tanta disparità di grado e di condizione; ma che se prima non si escludeva del tutto questa pratica non voleva fare offesa sí grave al re. Né essendo capace a Cesare che il re di Francia volesse tôrre per uno suo figliuolo una tanto dissimile a lui, confortò il papa che per chiarirsi degli inganni del re, instesse co' due cardinali che facessino venire il mandato a poterlo contraere; i quali, dimostratisi prontissimi, lo fecieno in brevissimi dí venire in forma amplissima: donde non solo si escluse ogni speranza del parentado con Francesco Sforza, ma ancora si ristrinse la pratica col re di Francia; aggiugnendovisi ancora che, come molto prima si era tra loro ragionato, il papa e il re di Francia si convenissino insieme a Nizza, città del duca di Savoia e posta appresso al fiume del Varo, che è confine tra l'Italia e la Provenza. Le quali cose erano molto moleste a Cesare; sí per sospetto che tra il papa e il re di Francia non si facesse maggiore congiunzione in pregiudizio suo, sapendo quale fusse l'animo del re contro a sé, e dubitando che nel pontefice non risedesse ancora occultamente la memoria della sua incarcerazione, del sacco di Roma e della mutazione dello stato di Firenze; movendolo ancora lo sdegno che quello onore che gli pareva che il papa gli avesse fatto, di andare ad abboccarsi seco due volte a Bologna, si diminuisse, anzi si annichilasse, se andava a trovare per mare il re di Francia insino a Nizza. Né dissimulava questo dispiacere e le cagioni, ma invano: perché nel pontefice era fissa nell'animo, anzi ardente, la cupidità di questo parentado; movendolo piú presto l'ambizione e lo appetito della gloria, che essendo di casa quasi privata avesse conseguito per uno nipote naturale una figliuola naturale di sí potente imperadore, e ora conseguisse per una nipote sua legittima uno figliuolo legittimo del re di Francia: il che lo moveva piú che quello che gli era ricordato da molti che con questo parentado darebbe colore di ragione, benché non vero ma apparente, al re di Francia di pretendere, per il figliuolo e per la nuora, sopra lo stato di Firenze.

A queste male sodisfazioni di Cesare si aggiunse, quasi per cumulo, che facendo instanza che il papa creasse tre cardinali proposti da lui, ottenne con difficoltà solamente l'arcivescovo di Bari; scusandosi egli con la contradizione del collegio de' cardinali. Né si mitigò Cesare perché il papa concorresse molto prontamente a fare una confederazione segreta con lui, nella quale prometteva procedere giuridicamente alle censure e a tutto quello che fusse di ragione contro al re di Inghilterra e contro ad Anna Bolana, e si obligorono di non fare nuove confederazioni e accordi con príncipi senza consenso l'uno dell'altro.



VII

Ritorno di Cesare in Ispagna. Incontro del pontefice e del re di Francia a Marsiglia; matrimonio del figlio del re con la nipote del pontefice; desiderio del pontefice e del re che si conquisti lo stato di Milano per il duca di Orliens; nomina di cardinali francesi; ritorno del pontefice a Roma. Presagi del pontefice di prossima morte; triste fine de' suoi nipoti. Torbidi in Germania fomentati dal re di Francia; conquista di Tunisi da parte del Barbarossa e saccheggio di Fondi. Morte del pontefice; giudizio dell'autore. Elezione di Alessandro Farnese.

Partí adunque Cesare da Bologna, il dí da poi che fu stipulata la confederazione, già assai certo in se medesimo che andrebbe innanzi il parentado e lo abboccamento col re di Francia, e dubbio ancora di maggiore congiunzione; e imbarcatosi a Genova passò in Spagna, con intenzione assai ferma (secondo si disse) che se si contraeva il parentado col re, che quello della figliuola con Alessandro de' Medici non avesse luogo.

Partí pochi dí poi il papa per Roma, accompagnato da' due cardinali franzesi, non turbati niente della nuova confederazione; perché il pontefice, come era eccellente nelle simulazioni e nelle pratiche nelle quali non fusse soprafatto dal timore, aveva dimostrato loro che il conchiudere la lega partoriva la dissoluzione dello esercito spagnuolo, il che faceva maggiore benefizio al re di Francia che non faceva nocumento il contrarsi la confederazione, massime che tra le obligazioni e la osservanza ed esecuzioni di esse potevano nascere molte difficoltà e diversi impedimenti. Continuoronsi adunque tra loro le pratiche cominciate; e desiderando il re, per onorarsene e per ambizione piú che per altro, l'andata sua a Nizza, prometteva, per tirarvelo, non lo ricercare di confederazione, non di tirarlo alla guerra, non di deviare da' termini della giustizia nella causa del re di Inghilterra, non di ricercarlo di nuova creazione di cardinali. E lo spigneva anche a questo assai il re di Inghilterra. Il quale, avendo occultamente ingravidato la innamorata, aveva, per celare la infamia innanzi si publicasse, contratto con essa il matrimonio solennemente; e avendo poco poi avutane una figliuola, l'aveva, in pregiudizio della figliuola ricevuta della prima moglie, dichiarata principessa del regno di Inghilterra, titolo che hanno quegli che sono nella prima causa della successione; per il che, non avendo potuto il papa dissimulare tanto disprezzo della sedia apostolica, né negare giustizia a Cesare, aveva co' voti del concistorio dichiarato quel re essere caduto nelle pene degli attentati: donde egli desiderava il parentado e lo abboccamento col re di Francia, sperando che il re fusse mezzo a medicare la causa sua, e che inducendosi il pontefice a trattare cose nuove, come sperava, contro a Cesare, avesse a desiderare di reintegrarlo e tirarlo nella congiunzione loro; e, quasi per dare legge alle cose di Italia, costituire uno triumvirato.

Conchiusesi finalmente l'andata, non a Nizza, perché il duca di Savoia, per non dispiacere a Cesare, fece difficoltà di concedere al pontefice la rocca, ma a Marsilia; cosa molto desiderata dal re, per essergli molto piú onore tirarlo ad abboccarsi seco nel suo regno, ma non molesta anche al pontefice, che desiderava sodisfarlo piú con le dimostrazioni e col compiacere alla sua ambizione che con gli effetti. E sforzavasi il pontefice di persuadere a ciascuno di andare là principalmente per praticare la pace e trattare la impresa contro agli infedeli, ridurre a buona via il re di Inghilterra, e finalmente solo per gli interessi comuni; ma non potendo dissimulare la vera cagione, mandò, innanzi che andasse egli, a Nizza la nipote, in su le galee che il re di Francia mandò col duca di Albania, zio della fanciulla, a levare lui. Le quali, poi che ebbeno condotto la fanciulla a Nizza, ritornate in porto Pisano, levorono, il quarto dí di ottobre, il pontefice con molti cardinali, e con navigazione assai felice lo condusseno in pochi dí a Marsilia; dove poiché ebbe fatto l'entrata solennemente, vi entrò poi il re di Francia, che prima l'aveva visitato, di notte; e alloggiati in uno medesimo palazzo, feciono dimostrazioni grandissime di amore. Ed essendo il re tutto intento a guadagnare l'animo suo, lo ricercò che facesse venire la nipote a Marsilia; il che fatto dal papa cupidissimamente (che non lo ricercava per mostrare di volere prima trattare delle cose comuni), come la fanciulla fu condotta, si fece lo sposalizio e quasi immediate la consumazione del matrimonio, con allegrezza incredibile del pontefice. Il quale, negoziando le cose sue col re medesimo e con somma arte, gli venne in somma confidenza e affezione; ancora che, contro a quello che hanno creduto molti e che credette Cesare, non si stabilisse tra loro capitolazione alcuna. Vero è che il papa se gli dimostrò sempre propenso nel desiderio che si acquistasse lo stato di Milano per il duca di Orliens, cosa molto desiderata dal re per l'odio e per lo sdegno contro a Cesare, ma molto piú perché, mettendo Orliens in quello stato, gli pareva spegnere le cause della contenzione tra' figliuoli dopo la morte sua; le quali, altrimenti, era pericolo che non nascessino per causa del ducato di Brettagna, il quale il re, l'anno precedente, aveva, contra alle convenzioni fatte dal re Luigi con quei popoli, unito alla corona di Francia, indottigli a consentire piú con l'autorità regia che con spontanea volontà. Né solo il re non ottenne da lui cosa alcuna nella causa del re di Inghilterra; ma per le inurbanità usate da' ministri di quel re, e perché gli trovò nella camera del papa che gli protestavano e appellavano da lui al concilio, mostratane indignazione, disse al papa che a lui non sarebbe offesa se proseguitasse quel che era di giustizia contro al re. Né offese in cosa alcuna l'animo del pontefice, eccetto che, per sodisfare piú a' suoi che a se medesimo, lo ricercò che gli creasse tre cardinali; cosa molto molesta al pontefice, non solo per la reclamazione che facea l'oratore cesareo ma perché gli pareva cosa di molto momento (e per la elezione de' futuri pontefici e per le inobbedienze che potessino nascere, in vita sua e poi) aggiugnere tanti cardinali alla nazione franzese che allora n'aveva sei: nondimeno, per minore male, acconsentí a questa dimanda; e oltre a questi creò uno fratello del duca di Albania, al quale prima l'aveva promesso. Per ogni altra cosa restati tra loro in grandissima fede e sodisfazione, e avendogli comunicato il re di Francia molti de' suoi consigli, e specialmente il disegno che aveva di concitare contro a Cesare alcuni de' príncipi di Germania, massime il langravio d'Alsia e il duca di Vertimbergh (i quali poi la state seguente si sollevorono), poi che furono dimorati a Marsilia circa uno mese, partí il pontefice in sulle galee medesime: con le quali, e con travaglio grande del mare, arrivato a Savona, non confidando né nelle provisioni delle galee né nella perizia degli uomini che le reggevano, rimandatele indietro, fu condotto da quelle di Andrea Doria a Civitavecchia. E ritornato a Roma con grandissima riputazione e con maravigliosa felicità, a quegli massime che l'avevano veduto prigione in Castel Sant'Angelo, godé molti pochi mesi il favore della fortuna; avendo già l'animo presago di quello che aveva a succedere. Perché è manifesto che, quasi incontinente dopo il ritorno di Marsilia, come certo della morte imminente, fece fare l'anello e tutti gli abiti consueti a' pontefici nel seppellirsi; e a' suoi famigliari affermava con l'animo sedatissimo dovere in breve spazio di tempo succedere la sua morte. E nondimeno, non deponendo per questo i pensieri e gli studi consueti, sollecitò che per maggiore sicurtà, come pareva a lui, della sua casa, si fabricasse una cittadella munitissima in Firenze; incerto quanto presto avesse a terminare la felicità de' nipoti; de' quali, inimicissimi l'uno dell'altro, Ippolito cardinale morí non senza sospetto di veleno, non finito ancora uno anno dalla sua morte e Alessandro, l'altro nipote il quale dominava a Firenze, fu, con grandissima nota di imprudenza, ammazzato in Firenze, occultamente di notte, da Lorenzo della medesima famiglia de' Medici. Ammalò adunque, nel principio della state, di dolori di stomaco; a' quali sopravenendo febbre, conquassato da quella e da altri accidenti lungamente, ora pareva quasi ridotto al punto della morte ora sollevato in modo che dava agli altri, ma non a sé, speranza di salute.

La quale infermità pendente, il duca di Vertimbergh, con l'aiuto del langravio di Alsia e di altri príncipi, e aiutato con danari dal re di Francia, recuperò il ducato di Vertimbergh posseduto dal re de' romani. E temendosi di maggiore incendio, convennono col re de' romani contro alla volontà del re di Francia, il quale aveva sperato che Cesare per questo moto si implicasse in lunga e difficile guerra, o forse che con l'armi vittoriose passassino a turbare il ducato di Milano. Passò anche in questo tempo Barbarossa, diventato bascià e capitano generale dell'armata di Solimanno, allo acquisto del reame di Tunisi; ma nel cammino scorse i liti di Calavria e passò sopra a Gaeta; donde alcuni de' suoi, posti in terra, saccheggiorono Fondi: con tanto timore della corte e de' romani che si crede che se fussino andati innanzi sarebbe stata abbandonata quella città; non sapendo di questo accidente cosa alcuna il pontefice.

Il quale finalmente, non potendo piú resistere alla infermità, si partí il vigesimo quinto dí di settembre della vita presente; lasciate in Castello Santo Angelo molte gioie e nella camera pontificale moltissimi offici ma, contro alla opinione universale, quantità piccolissima di danari. Pontefice, esaltato di grado basso con ammirabile felicità al pontificato, ma in quello provata fortuna molto varia; ma se si pesa l'una e l'altra, molto maggiore la sinistra che la prospera. Perché, quale felicità si può comparare alla infelicità della sua incarcerazione? all'avere veduto con sí grave eccidio il sacco di Roma? allo essere stato cagione di tanto esterminio della sua patria? Morí odioso alla corte, sospetto a' príncipi, e con fama piú presto grave e odiosa che piacevole; essendo riputato avaro, di poca fede e alieno di natura da beneficare gli uomini. Però, benché nel suo pontificato creasse trentuno cardinali, non ne creò alcuno per sodisfazione di se medesimo, anzi sempre quasi necessitato, eccetto il cardinale de' Medici; il quale, oppresso allora da pericolosa infermità, e in tempo che morendo lasciava i suoi mendichi e destituti di ogni presidio, creò piú tosto stimolato da altri che per propria e spontanea elezione. E nondimeno nelle sue azioni molto grave molto circospetto e molto vincitore di se medesimo, e di grandissima capacità se la timidità non gli avesse spesso corrotto il giudicio.

Morto lui, i cardinali, la notte medesima che si serrorono nel conclave, elessono tutti concordi in sommo pontefice Alessandro della famiglia da Farnese, di nazione romano, cardinale piú antico della corte; conformandosi i voti loro col giudicio e quasi instanza che n'aveva fatto Clemente, come di persona degna di essere a tanto grado preposta a tutti gli altri. Uomo ornato di lettere e di apparenza di costumi, e che aveva esercitato il cardinalato con migliore arte che non l'aveva acquistato; perché è certo che il pontefice Alessandro sesto aveva conceduta quella degnità non a lui ma a madonna Giulia sua sorella, giovane di forma eccellentissima. E concorsono i cardinali piú volentieri a eleggerlo perché, essendo già quasi settuagenario e riputato di complessione debole e non bene sano (la quale opinione fu aiutata da lui con qualche arte), sperorono avesse a essere breve pontificato. Le azioni e opere del quale se saranno degne della espettazione conceputa di lui, e della letizia immensa ricevuta dal popolo romano di avere, dopo [centotré] anni e dopo tredici pontefici, riavuto uno pontefice del sangue romano, ne faranno testimonio quegli che scriveranno le cose succedute in Italia dopo la sua assunzione. Perché è verissimo e degno di somma laude quel proverbio, che il magistrato fa manifesto il valore di chi lo esercita.


FINE


"Francesco Guicciardini - Opere - Storia d'Italia", a cura di Emanuella Scarano, Unione Tipografico-Editrice Torinese (U.T.E.T.), Torino, 1981







Francesco Guicciardini - Opera Omnia  -  a cura de ilVignettificio

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