Francesco Guicciardini - Opera Omnia >> Storia d'Italia |
ilguicciardini testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # I Il re di Francia ordina che le milizie si ritirino nel ducato di Milano; suo contegno amichevole e di devozione al pontefice; i Bentivoglio imitano il re. Il Triulzio licenzia parte de' soldati. Condizioni di pace del pontefice. Progetti di Massimiliano e sua impotenza d'effettuarli. Aspettavasi, con grandissima sospensione degli animi di tutta Italia e della maggiore parte delle provincie de' cristiani, quel che il re di Francia, ottenuta che ebbe la vittoria, deliberasse di fare; perché a tutti manifestamente appariva essere in sua potestà l'occupare Roma e tutto lo stato della Chiesa: essendo le genti del pontefice quasi tutte disperse e dissipate e molto piú quelle de' viniziani, né essendo in Italia altre armi che potessino ritenere l'impeto del vincitore; e parendo che il pontefice, difeso solamente dalla maestà del pontificato, rimanesse per ogn'altro rispetto alla discrezione della fortuna. E nondimeno il re di Francia, o raffrenandolo la riverenza della religione o temendo di non concitare contro a sé, se procedeva piú oltre, l'animo di tutti i príncipi, deliberato di non usare l'occasione della vittoria, comandò, con consiglio per avventura piú pietoso che utile, a Giaiacopo da Triulzi che, lasciata Bologna in potestà de' Bentivogli e restituito se altro avesse occupato appartenente alla Chiesa, riducesse subitamente l'esercito nel ducato di Milano. Aggiunse a' fatti mansueti umanissime dimostrazioni e parole. Vietò che nel suo reame alcuno segno di publica allegrezza non si facesse; e affermò piú volte alla presenza di molti che, con tutto non avesse errato né contro alla sedia apostolica né contro al pontefice, né fatto cosa alcuna se non provocato e necessitato, nondimeno, che per riverenza di quella sedia voleva umiliarsi e dimandargli perdono; persuadendosi che certificato per l'esperienza, delle difficoltà che aveano i suoi concetti, e assicurato del sospetto avuto vanamente di lui, avesse a desiderare la pace con tutto l'animo: il trattato della quale non si era mai intermesso totalmente, perché il pontefice, insino innanzi si partisse da Bologna, aveva per questa cagione mandato al re lo imbasciadore del re di Scozia, continuando di trattare quel che, per il medesimo vescovo, si era cominciato a trattare col vescovo Gurgense. L'autorità del re seguitando i Bentivogli, significavano al pontefice non volere essere contumaci o rebelli della Chiesa ma perseverare in quella subiezione nella quale aveva tanti anni continuato il padre loro: in segno di che, restituito il vescovo di Chiusi alla libertà, l'aveano, secondo l'uso antico, collocato nel palazzo come apostolico luogotenente. Partí adunque il Triulzio con l'esercito, e si accostò alla Mirandola per ricuperarla; con tutto che, per i prieghi di Giovanfrancesco Pico, vi fusse entrato Vitfrust sotto colore di tenerla in nome di Cesare, e protestato al Triulzio che essendo giurisdizione dello imperio si astenesse da offenderla. Il quale alla fine, conoscendo che l'autorità vana non bastava, se ne partí, ricevute da lui certe promesse, piú tosto apparenti per l'onore di Cesare che sostanziali; e il medesimo fece Giovanfrancesco, impetrato che fusse salvo l'avere e le persone: e il Triulzio, non avendo da fare altra espedizione, mandate cinquecento lancie e mille trecento fanti tedeschi, sotto il capitano Iacob, alla custodia di Verona, licenziò gli altri fanti, eccetto duemila cinquecento guasconi sotto Molard e Mongirone; i quali e le genti d'arme distribuí per le terre del ducato di Milano. Ma al desiderio e alla speranza del re non corrispondeva la disposizione del pontefice; il quale ripreso animo per la revocazione dell'esercito, rendendolo piú duro quel che pareva verisimile lo dovesse mollificare, essendo ancora a Rimini oppressato dalla podagra e in mezzo di tante angustie, proponeva, piú tosto come vincitore che vinto, per mezzo del medesimo scozzese, che per l'avvenire fusse per il ducato di Ferrara pagato il censo consueto innanzi alla diminuzione fatta per il pontefice Alessandro, che la Chiesa tenesse uno visdomino in Ferrara come prima tenevano i viniziani, e se gli cedessino Lugo e l'altre terre che Alfonso da Esti possedeva nella Romagna: le quali condizioni benché al re paressino molto gravi, nondimeno, tanto era il desiderio della pace col pontefice, fece rispondere essere contento di consentire a quasi tutte queste dimande, pure che vi intervenisse il consentimento di Cesare. Ma già il pontefice ritornato a Roma aveva mutata sentenza; dandogli ardire, oltre a quello che si dava da se stesso, i conforti del re d'Aragona: il quale, entrato per la vittoria del re di Francia in maggiore sospezione, aveva subito intermesso tutti gli apparati potentissimi che aveva fatti per passare personalmente in Affrica, ove continuamente guerreggiava co' mori; e revocatone Pietro Navarra con tremila fanti spagnuoli lo mandò nel reame di Napoli, assicurando, in uno tempo medesimo, le cose proprie e al pontefice dando animo di alienarsi tanto piú dalla concordia. Rispose adunque non volere la pace se insieme non si componevano con Cesare i viniziani, se Alfonso da Esti, oltre alle prime dimande, non gli restituiva le spese fatte nella guerra, e se il re non si obligava a non gli impedire la recuperazione di Bologna: la quale città, come ribellata dalla Chiesa, aveva già sottoposta allo interdetto ecclesiastico e, per dare il guasto alle biade del contado loro, mandato nella Romagna Marcantonio Colonna e Ramazzotto; benché questi, affatica entrati nel bolognese, furno facilmente scacciati dal popolo. Aveva nondimeno il pontefice, vinto da' prieghi de' cardinali, quando ritornò a Roma, consentito alla liberazione del cardinale d'Aus, il quale era stato insino a quel dí custodito in Castel Sant'Angelo; ma con condizione che non uscisse del palagio di Vaticano insino a tanto non fussino liberati tutti i prelati e ufficiali che erano stati presi in Bologna, e che dipoi non potesse sotto pena di quarantamila ducati, per la quale desse idonee sicurtà, partirsi di Roma: benché non molto poi gli consentí il ritornarsene in Francia, sotto la medesima pena di non intervenire al concilio. Commosse la risposta del pontefice tanto piú l'animo del re quanto piú si era persuaso, il pontefice dovere consentire alle condizioni che esso medesimo aveva proposte: onde deliberando impedire che non recuperasse Bologna vi mandò quattrocento lancie, e pochi dí poi prese in protezione quella città e i Bentivogli senza ricevere da loro obligazione alcuna di dargli o gente o danari; e conoscendo essergli piú necessaria che mai la congiunzione con Cesare, ove prima (benché per aspettare i progressi suoi fusse venuto nella provincia del Dalfinato) aveva qualche inclinazione di non gli dare le genti promesse nella capitolazione fatta con Gurgense, se egli non passava personalmente in Italia (perché sotto questa condizione aveva convenuto di dargliene) comandò che dello stato di Milano vi andasse il numero delle genti convenuto: sotto il governo del la Palissa, perché 'l Triulzio, il quale Cesare aveva domandato, ricusava di andarvi. Era Cesare venuto a Spruch, ardente da una parte alla guerra contro a viniziani, dall'altra combattuto nell'animo suo da diversi pensieri. Perché considerando che tutti i progressi che e' facesse riuscirebbeno alla fine di poco momento se non si espugnava Padova, e che a questo bisognavano tante forze e tanti apparati che era quasi impossibile il mettergli insieme, ora si volgeva al desiderio di concordare co' viniziani, alla quale cosa molto lo confortava il re cattolico, ora traportato da' suoi concetti vani pensava di andare personalmente con lo esercito a Roma, per occupare, come era suo antico desiderio, tutto lo stato della Chiesa; promettendosi, oltre alle genti de' franzesi, di condurre seco di Germania potente esercito: ma non corrispondendo poi, per l'impotenza e disordini suoi, l'esecuzioni alle immaginazioni, promettendo ora di venire di giorno in giorno in persona ora di mandare gente, consumava il tempo senza mettere in atto impresa alcuna. E perciò al re di Francia pareva molto grave d'avere solo a sostenere tutto il peso: la quale ragione, conforme alla sua tenacità, poteva spesso piú in lui che quello che gli era da molti dimostrato in contrario, che Cesare se da lui non fusse aiutato potentemente si congiugnerebbe finalmente con gli inimici suoi; dalla qual cosa, oltre al sostenere per necessità spesa molto maggiore, gli stati suoi di Italia cadrebbeno in gravissimi pericoli. II Azione del pontefice contro la convocazione del concilio di Pisa; convocazione d'un concilio universale in San Giovanni in Laterano; intimazione a' cardinali dissidenti. Politica del pontefice verso il re di Francia. Confederazione tra i fiorentini e i senesi. Raffreddavansi in queste ambiguità e difficoltà i tumulti delle armi temporali, ma andavano riscaldando quegli dell'armi spirituali; cosí dalla parte de' cardinali autori del concilio come dalla parte del pontefice, intento tutto a opprimere questo male innanzi facesse maggiore progresso. Erasi, come è detto di sopra, inditto e intimato il concilio con l'autorità del re de' romani e del re di Francia, intervenuti alla intimazione i cardinali di Santa Croce di San Malò di Baiosa e di Cosenza, e consentendovi manifestamente il cardinale di San Severino; e successivamente, alle consulte e deliberazioni che si facevano, intervenivano i procuratori dell'uno e dell'altro re. Ma avevano i cinque cardinali, autori di questa peste, aggiunto nella intimazione, per dare maggiore autorità, il nome di altri cardinali: de' quali Alibret, cardinale franzese, benché malvolentieri vi consentisse, non poteva disubbidire a' comandamenti del suo re; e degli altri, nominati da loro, il cardinale Adriano e il cardinale del Finale apertamente affermavano non essere stato fatto con loro mandato né di loro consentimento. Però, non si manifestando in questa cosa piú di sei cardinali, il Pontefice, sperando potergli fare volontariamente desistere da questa insania, trattava continuamente con loro, offerendo venia delle cose commesse e con tale sicurtà che e' non avessino da temere di essere offesi; cose che i cardinali udivano simulatamente. Ma non per questo cessava da' rimedi piú potenti; anzi per consiglio, secondo si disse, proposto da Antonio del Monte a San Sovino, uno de' cardinali creati ultimatamente a Ravenna, volendo purgare la negligenza, intimò il concilio universale, per il primo dí di maggio prossimo, nella città di Roma nella chiesa di San Giovanni Laterano: per la quale convocazione pretendeva avere dissoluto il concilio convocato dagli avversari, e che nel concilio inditto da lui si fusse trasferita giuridicamente la potestà e l'autorità di tutti; non ostante che i cardinali allegassino che, se bene questo fusse stato vero da principio, nondimeno, poiché essi avevano prevenuto, dovere avere luogo il concilio convocato e intimato da loro. Publicato il concilio, confidando già piú delle ragioni sue, e disperandosi di potere riconciliarsi il cardinale di Santa Croce, il quale, per ambizione di essere pontefice, era stato in grande parte autore di questo moto, e il medesimo di San Malò, e di quello di Cosenza (perché degli altri non aveva ancora perduta la speranza di ridurgli sotto l'ubbidienza sua), publicò contro a quegli tre uno monitorio, sotto pena di privazione della degnità del cardinalato e di tutti i benefici ecclesiastici se infra sessantacinque dí non si presentassino innanzi a lui: alla quale cosa perché piú facilmente si disponessino, il collegio de' cardinali mandò a loro uno auditore di ruota, a invitargli e pregargli che, deposte le private contenzioni, ritornassino all'unione della Chiesa, offerendo di fare concedere qualunque sicurtà desiderassino. Nel quale tempo medesimo, o essendo ambiguo e irrisoluto nell'animo o movendolo altra cagione, udiva continuamente la pratica della pace col re di Francia, la quale appresso a lui trattavano gli oratori del re e appresso al re il medesimo imbasciadore del re di Scozia e il vescovo di Tivoli nunzio apostolico; e da altra parte trattava di fare col re d'Aragona e co' viniziani nuova confederazione contro a' franzesi. Procurò nel tempo medesimo che a' fiorentini fusse restituito Montepulciano, non per benivolenza inverso loro ma per sospetto che, essendo spirata la tregua che aveano co' sanesi, non chiamassino, per essere piú potenti a recuperare quella terra, in Toscana genti franzesi; e con tutto che al pontefice fusse molesto che i fiorentini recuperassino Montepulciano, e che per impedirgli avesse già mandato a Siena Giovanni Vitelli, condotto con cento uomini d'arme da' sanesi e da lui, e Guido Vaina con cento cavalli leggieri, nondimeno, considerando poi meglio che quanto piú la difficoltà si dimostrava maggiore tanto piú si inciterebbono i fiorentini a chiamarle, deliberò, acciò che il re non avesse occasione di mandare genti in luogo vicino a Roma, provedere con modo contrario a questo pericolo: alla qual cosa consentiva Pandolfo Petrucci, che era nel medesimo sospetto, nutritovi artificiosamente da' fiorentini. Trattossi la cosa molti dí: perché, come spesso le cose piccole non hanno minori difficoltà né meno difficili a esplicarsi che le grandissime, Pandolfo, per non incorrere nell'odio del popolo sanese, voleva si procedesse in modo che e' paresse niuno altro rimedio essere ad assicurarsi della guerra e a non si alienare l'animo del pontefice. Volevano oltre a questo, il pontefice ed egli, che nel tempo medesimo si facesse tra i fiorentini e i sanesi confederazione a difesa degli stati; e da altra parte temevano che i montepulcianesi, accorgendosi di quel che si trattava, non preoccupassino, con l'arrendersi da loro medesimi, la grazia de' fiorentini, i quali, conseguito lo intento loro, fussino poi renitenti a fare la confederazione: però fu mandato ad alloggiare in Montepulciano Giovanni Vitelli; e il pontefice vi mandò Iacobo Simonetta auditore di ruota, il quale molti anni poi fu promosso al cardinalato, perché per mezzo suo si adattassino le cose di Montepulciano. Tanto che, finalmente, in un tempo medesimo fu fatta confederazione per venticinque anni tra fiorentini e sanesi; e Montepulciano, interponendosi il Simonetta per la venia e confermazione delle esenzioni e privilegi antichi, ritornò in mano de' fiorentini. III L'esercito franco tedesco contro i veneziani; i veneziani abbandonano diverse terre; fazioni di guerra; i veneziani perdono e ricuperano il Friuli. Difficoltà poste innanzi da Massimiliano riguardo al concilio pisano; continuano le trattative di pace fra il pontefice e il re di Francia. Erano state per qualche mese piú quiete che il solito le cose tra il re de' romani e i viniziani; perché i tedeschi non abbondanti di gente e bisognosi di danari non riputavano fare poco se conservavano Verona, e l'esercito de viniziani non essendo potente a espugnare quella città stava alloggiato tra Suavi e Lunigo, donde una notte abbruciorno, di qua e di là dallo Adice, grande parte delle ricolte del veronese: benché assaltati nel ritirarsi perdessino trecento fanti. Ma alla fama dello approssimarsi a Verona la Palissa con mille dugento lancie e ottomila fanti si ridusse lo esercito loro verso Vicenza e Lignago, in luogo forte e quasi come in isola per certe acque e per alcune tagliate che avevano fatte: nel quale alloggiamento non stettono fermi molti dí perché essendo la Palissa arrivato con parte delle genti a Verona, e uscito subito, senza aspettarle tutte, insieme co' tedeschi in campagna, si ritirò quasi come fuggendo a Lunigo; e dipoi col medesimo terrore, abbandonata Vicenza e tutte l'altre terre e il Pulesine di Rovigo, preda ora de viniziani ora del duca di Ferrara, si distribuirno in Padova e Trevigi: alla difesa delle quali città vennono da Vinegia, nel modo medesimo che prima avevano fatto a Padova, molti giovani della nobiltà viniziana. Saccheggiò l'esercito franzese e tedesco Lonigo: e si arrendé loro Vicenza, diventata preda miserabile de' piú potenti in campagna. Ma ogni sforzo e ogni acquisto era di piccolissimo momento alla somma delle cose mentre che i viniziani conservavano Padova e Trevigi, perché con l'opportunità di quelle città, subito che gli aiuti franzesi si partivano da' tedeschi, recuperavano senza difficultà le cose perdute: però l'esercito, dopo questi progressi, stette fermo piú dí al Ponte a Barberano aspettando o la venuta o la determinazione di Cesare. Il quale, venuto da Trento e Roveré, intento in uno tempo medesimo a cacciare, secondo il costume suo, le fiere e a mandare fanti all'esercito, prometteva di venire a Montagnana; proponendo di fare ora la impresa di Padova ora quella di Trevigi ora di andare a occupare Roma, e in tutte per la instabilità sua variando e per l'estrema povertà trovando difficoltà: né meno che nelle altre, nell'andata di Roma, perché lo andarvi con tante forze de' franzesi pareva cosa molto aliena dalla sicurtà e dignità sua; e il pericolo che, assentandosi quello esercito, i viniziani non assaltassino Verona lo costringeva a lasciarla guardata con potente presidio; e il re di Francia faceva difficoltà di allontanare per tanto spazio di paese le genti sue dal ducato di Milano, perché pochissima speranza gli restava della concordia co' svizzeri: i quali, oltre al dimostrarsi inclinati a' desideri del pontefice, dicevano apertamente allo oratore del re di Francia essere molestissima a quella nazione la ruina de' viniziani, per la convenienza che hanno insieme le republiche. Risolveronsi finalmente i concetti e discorsi grandi di Cesare, secondo l'antica consuetudine, in effetti non degni del nome suo: perché accresciuti allo esercito trecento uomini d'arme tedeschi, e uditi da altra parte gli oratori de' viniziani, co' quali continuamente trattava, si accostò ai confini del vicentino; e fatto venire la Palissa, prima a Lungara presso a Vicenza e poi a Santa Croce, lo ricercò che andasse a pigliare Castelnuovo, passo di sotto alla Scala verso il Friuli e vicino a venti miglia di Feltro, per dare a lui facilità di scendere da quella parte. Però la Palissa andò a Montebellona distante dieci miglia da Trevigi; donde mandati cinquecento cavalli e dumila fanti ad aprire il passo di Castelnuovo, aperto che lo ebbeno se ne andorono alla Scala. Nel quale tempo i cavalli leggieri de' viniziani, i quali correvano senza ostacolo alcuno per tutto il paese, roppono presso a Morostico circa settecento fanti e molti cavalli franzesi e italiani, i quali per potere passare sicuramente allo esercito andavano da Verona a Suavi per unirsi con trecento lancie franzesi, le quali essendo venute dietro al la Palissa aspettavano in quello luogo il suo comandamento; e benché nel principio, succedendo le cose prospere per i franzesi e tedeschi, fusse preso il conte Guido Rangone condottiere de' viniziani, nondimeno, calando in favore de' viniziani molti villani, restorno vittoriosi; morti circa quattrocento fanti franzesi, e presi Mongirone e Riccimar loro capitani. Ma già continuamente raffreddavano le cose ordinate: perché e il re di Francia, vedendo non corrispondere gli apparati di Cesare alle offerte, si era, discostandosi da Italia, ritornato del Dalfinato, dove era soprastato molti giorni, a Bles; e Cesare, ritiratosi a Trento con deliberazione di non andare piú all'esercito personalmente, in luogo di occupare tutto quello che i viniziani possedevano in terra ferma o veramente Roma con tutto lo stato ecclesiastico, proponeva che i tedeschi entrassino nel Friuli e nel Trevisano, non tanto per vessare i viniziani quanto per costrignere le terre del paese a pagare danari per ricomperarsi dalle prede e da' sacchi; e che i franzesi, perché i suoi non fussino impediti, si facessino innanzi, mettendo in Verona, ove era la pestilenza grande, dugento lancie; perché de' suoi, volendo assaltare il Friuli, non vi potevano rimanere altri che i deputati alla custodia delle fortezze. Acconsentí a tutte queste cose la Palissa e, essendosi unito con lui Obigní capitano delle trecento lancie che erano a Suavi, si fermò in sul fiume della Piava. Lasciorno oltre a questo i tedeschi, per maggiore sicurtà di Verona, dugento cavalli a Suave: i quali, standovi con grandissima negligenza e senza scolte o guardie, furono una notte quasi tutti morti o presi da quattrocento cavalli leggieri e quattrocento fanti de' viniziani. Erasi tutto questo anno, nel Friuli in Istria e nelle parti di Triesti e di Fiume, travagliato secondo il solito diversamente, per terra ed eziandio per mare con piccoli legni; essendo quegli infelici paesi ora dall'una parte ora dall'altra depredati. Entrò poi nel Friuli l'esercito tedesco; ed essendosi presentato a Udine, luogo principale della provincia, e dove riseggono gli ufficiali de' viniziani, essendosene quegli fuggiti vilmente, la terra si arrendé subito: e dipoi col medesimo corso della vittoria fece il medesimo tutto il Friuli, pagando ciascuna terra danari secondo la loro possibilità. Restava Gradisca situata in sul fiume Lisonzio, dove era Luigi Mocenigo proveditore del Friuli con trecento cavalli e molti fanti; la quale, battuta dalle artiglierie e difesasi dal primo assalto, si arrendé per l'instanza de' soldati, restando prigione il proveditore. Del Friuli ritornorono i tedeschi a unirsi con la Palissa, alloggiato vicino a cinque miglia di Trevigi; alla quale città s'accostorno unitamente, perché Cesare faceva instanza grande che si tentasse di espugnarla: ma avendola trovata da tutte le parti molto fortificata, e avendo mancamento di guastatori, di munizioni e d'altri provedimenti necessari, perduta interamente la speranza di ottenerne la vittoria, si discostorono. Partí, pochi dí poi, la Palissa per ritornarsene nel ducato di Milano, per comandamento del re; perché continuamente cresceva il timore di nuove confederazioni e di movimenti de' svizzeri. Furnogli sempre alle spalle nel ritirarsi gli stradiotti de' viniziani, sperando di danneggiarlo almeno al transito de' fiumi della Brenta e dell'Adice; nondimeno passò per tutto sicuramente; avendo, innanzi passasse la Brenta, svaligiati dugento cavalli de' viniziani, alloggiati fuora di Padova, e preso Pietro da Longhena loro condottiere. Lasciò la sua partita molto confusi i tedeschi, perché non avendo potuto ottenere che alla guardia di Verona rimanessino trecento altre lancie franzesi, furno necessitati ritirarvisi, lasciate in preda agli inimici tutte le cose acquistate quella state. Però le genti de' viniziani, delle quali per la morte di Lucio Malvezzo era governatore Giampaolo Baglione, ricuperorno subito Vicenza; e dipoi entrate nel Friuli, spianata Cremonsa, ricuperorno, da Gradisca in fuora (la quale combatterono vanamente), tutto il paese; benché, pochi dí poi, certi fanti comandati del contado di Tiruolo espugnorono Cadoro e saccheggiorno Bellona. In questo modo, con effetti leggieri e poco durabili, si terminorno la state presente i movimenti dell'armi; senza utilità ma non senza ignominia del nome di Cesare, e con accrescimento della riputazione de' viniziani, che assaltati già due anni dagli eserciti di Cesare e del re di Francia ritenessino alla fine le medesime forze e il medesimo dominio. Le quali cose benché tendessino direttamente contro a Cesare nocevano molto piú al re di Francia: perché, mentre che, o temendo forse troppo le prosperità e l'augumento di Cesare o che consigliandosi con fondamenti falsi e non conoscendo i pericoli già propinqui o che soffocata la prudenza dalla avarizia, non dà a Cesare aiuti tali che potesse sperare di ottenere la vittoria desiderata, gli dette occasione e quasi necessità di inclinare l'orecchie a coloro che mai cessavano di persuaderlo che s'alienasse da lui, conservando in uno tempo medesimo in tale stato i viniziani che e' potessino con maggiori forze unirsi a quegli i quali desideravano di abbassare la sua potenza. Onde già cominciava ad apparire qualche indizio che nella mente di Cesare, specialmente nella causa del concilio, germinassino nuovi pensieri: nella quale pareva raffreddato, massimamente dopo l'intimazione del concilio lateranense; conciossiaché non vi mandasse, secondo le promesse piú volte fatte, alcuni prelati tedeschi in nome della Germania, né procuratori che vi assistessino in suo nome; non lo movendo l'esempio del re di Francia, il quale aveva ordinato che in nome comune della chiesa gallicana vi andassino ventiquattro vescovi, e che tutti gli altri prelati del suo regno o vi andassino personalmente o vi mandassino procuratori. E nondimeno, o per scusare questa dilazione o perché tale fusse veramente il suo desiderio, cominciò in questo tempo a fare instanza che, per maggiore comodità de' prelati della Germania e perché affermava volervi intervenire personalmente, il concilio inditto a Pisa si trasferisse a Mantova o a Verona o a Trento: la quale dimanda, molesta per varie cagioni a tutti gli altri, era solamente grata al cardinale di Santa Croce; il quale, ardente di cupidità di ascendere al pontificato (al qual fine aveva seminato queste discordie), sperava col favore di Cesare, nella benivolenza del quale inverso sé molto confidava, potervi facilmente pervenire. Nondimeno, rimanendo debilitata molto e quasi manca senza l'autorità di Cesare la causa del concilio, mandorno di comune consentimento a lui il cardinale di San Severino, a supplicarlo che facesse muovere i prelati e i procuratori tante volte promessi, e a obligargli la fede che principiato che fusse il concilio a Pisa lo trasferirebbono in quel luogo medesimo che egli stesso determinasse; dimostrandogli che il trasferirlo prima sarebbe molto pregiudiciale alla causa comune, e specialmente perché era di somma importanza il prevenire a quello che era stato intimato dal pontefice. Col cardinale andò a fare la instanza medesima, in nome del re di Francia, Galeazzo suo fratello; il quale, con felicità dissimile alla infelicità di Lodovico Sforza, primo padrone, era stato onorato da lui dello ufficio del grande scudiere. Ma principalmente lo mandò il re per confermare con varie offerte e partiti nuovi l'animo di Cesare, per la instabilità del quale stava in grandissima sospensione e sospetto; con tutto che nel tempo medesimo non fusse senza speranza di conchiudere la pace col pontefice. La quale, trattata a Roma dal cardinale di Nantes e dal cardinale di Strigonia e in Francia dal vescovo scozzese e dal vescovo di Tivoli, era ridotta a termini tali che, concordate quasi tutte le condizioni, il pontefice aveva mandato al vescovo di Tivoli l'autorità di dargli perfezione: benché inserite nel mandato certe limitazioni che davano ombra non mediocre che la volontà sua non fusse tale quale sonavano le parole, sapendosi massime che nel tempo medesimo trattava con molti potentati cose interamente contrarie. IV Grave malattia del pontefice e tentativo di giovani della nobiltà romana di infiammare il popolo contro il potere sacerdotale. Bolla pontificia contro la simonia nell'elezione de' papi. Il pontefice indeciso fra la pace e la preparazione della guerra alla Francia. Indecisione e sospetti del re di Francia. Nella quale dubietà mancò poco che non troncasse tutte le pratiche, e i princípi de' mali che s'apparecchiavano, la morte improvisa del pontefice: il quale, infermatosi il decimosettimo dí di agosto, fu il quarto dí della infermità oppressato talmente da uno potentissimo sfinimento che stette per alquante ore riputato dai circostanti per morto; onde, corsa la fama per tutto avere terminato i suoi giorni, si mossono per venire a Roma molti cardinali assenti, e tra gli altri quegli che aveano convocato il concilio. Né a Roma fu minore sollevazione che soglia essere nella morte de' pontefici: anzi apparirno semi di maggiori tumulti, perché Pompeio Colonna vescovo di Rieti e Antimo Savello, giovani sediziosi della nobiltà romana, chiamato nel Capitolio il popolo di Roma, cercorno di infiammarlo con sediziosissime parole a vendicarsi in libertà: assai essere stata oppressa la generosità romana, assai avere servito quegli spiriti domatori già di tutto il mondo; potersi per avventura, in qualche parte scusare i tempi passati per la riverenza della religione, per il cui nome accompagnato da santissimi costumi e miracoli, non costretti da arme o da violenza alcuna, avere ceduto i maggiori loro allo imperio de' cherici, sottomesso volontariamente il collo al giogo tanto suave della pietà cristiana; ma ora, quale necessità quale virtú quale degnità coprire in parte alcuna l'infamia della servitú? la integrità forse della vita? gli esempli santi de' sacerdoti? i miracoli fatti da loro? e quale generazione essere al mondo piú corrotta piú inquinata e di costumi piú brutti e piú perduti? e nella quale paia solamente miracoloso che Iddio, fonte della giustizia, comporti cosí lungamente tante sceleratezze? sostenersi forse questa tirannide per la virtú dell'armi, per la industria degli uomini o per i pensieri assidui della conservazione della maestà del pontificato? e quale generazione essere piú aliena dagli studi e dalle fatiche militari? piú dedita all'ozio e ai piaceri? e piú negligente alla degnità e a' comodi de' successori? avere in tutto il mondo similitudine due principati, quello de' pontefici romani e quello de' soldani del Cairo, perché né la degnità del soldano né i gradi de' mammalucchi sono ereditari ma passando di gente in gente si concedono a' forestieri: e nondimeno essere piú vituperosa la servitú de' romani che quella de' popoli dello Egitto e della Soría, perché la infamia di coloro ricompera in qualche parte l'essere i mammalucchi uomini bellicosi e feroci, assuefatti alle fatiche e a vita aliena da tutte le delicatezze; ma a chi servire i romani? a persone oziose e ignave, forestieri e spesso ignobilissimi non meno di sangue che di costumi; tempo essere di svegliarsi oramai da sonnolenza sí grave, di ricordarsi che l'essere romano è nome gloriosissimo quando è accompagnato dalla virtú, ma che raddoppia il vituperio e la infamia a chi ha messo in dimenticanza l'onorata gloria de' suoi maggiori; appresentarsi facilissima l'occasione, poi che in sulla morte del pontefice concorreva la discordia tra loro medesimi disunite le volontà de' re grandi, Italia piena d'armi e di tumulti, e divenuta, piú che mai in tempo alcuno, odiosa a tutti i príncipi la tirannide sacerdotale. Respirò da quello accidente tanto pericoloso il pontefice: dal quale alquanto sollevato, ma essendo ancora molto maggiore il timore che la speranza della sua vita, assolvé il dí seguente, presenti i cardinali congregati in forma di concistorio, il nipote dall'omicidio commesso del cardinale di Pavia; non per via di giustizia come prima si era trattato, repugnando a questo la brevità del tempo, ma come penitente per grazia e indulgenza apostolica. E nel medesimo concistorio, sollecito che l'elezione del successore canonicamente si facesse, e volendo proibire agli altri d'ascendere a tanto grado per quel mezzo col quale vi era asceso egli, fece publicare una bolla piena di pene orribili contro a quegli i quali procurassino o con danari o con altri premi di essere eletti pontefici; annullando la elezione che si facesse per simonia, e dando l'adito molto facile a qualunque cardinale di impugnarla: la quale costituzione aveva pronunziata insino quando era in Bologna, sdegnato allora contro ad alcuni cardinali i quali procuravano, quasi apertamente, di ottenere promesse da altri cardinali per essere dopo la morte sua assunti al pontificato. Dopo il quale dí seguitò miglioramento molto evidente, procedendo o dalla complessione sua molto robusta o dall'essere riservato da' fati come autore e cagione principale di piú lunghe e maggiori calamità di Italia; perché né alla virtú né a' rimedi de' medici si poteva attribuire la sua salute; a' quali, mangiando nel maggiore ardore della infermità pomi crudi e cose contrarie a' precetti loro, in parte alcuna non ubbidiva. Sollevato che fu dal pericolo della morte ritornò alle consuete fatiche e pensieri; continuando di trattare in un tempo medesimo la pace col re di Francia, e col re d'Aragona e col senato viniziano confederazione a offesa de' franzesi: e benché con la volontà molto piú inclinata alla guerra che alla pace, pure talvolta distraendolo molte ragioni ora in questa ora in quella sentenza. Inclinavanlo alla guerra, oltre all'odio inveterato contro al re di Francia e il non potere ottenere nella pace tutte le condizioni desiderava, le persuasioni contrarie del re d'Aragona, insospettito piú che mai che il re di Francia pacificato col pontefice non assaltasse, come prima n'avesse occasione, il regno di Napoli; e perché questi consigli avessino maggiore autorità avea, oltre alla prima armata passata sotto Pietro Navarra d'Affrica in Italia, mandata di nuovo un'altra armata di Spagna, in sulla quale si dicevano essere cinquecento uomini d'arme secento giannettari e tremila fanti; forze che aggiunte agli altri non erano, e per il numero e per il valore degli uomini, di piccola considerazione. E nondimeno il medesimo re, procedendo con le solite arti, dimostrava desiderare piú la guerra contro a' mori, né rimuoverlo da quella utilità o comodo proprio, né altro che la divozione avuta sempre alla sedia apostolica; ma che, non potendo solo sostentare i soldati suoi, gli era necessario l'aiuto del pontefice e del senato viniziano: alle quali cose perché piú facilmente coscendessino, le genti sue, che tutte erano discese nell'isola di Capri vicina a Napoli, dimostravano di apparecchiarsi per passare in Affrica. Onde spaventavano il pontefice le dimande immoderate, infastidivanlo queste arti, e lo insospettiva l'essergli noto che quel re non cessava di dare speranze contrarie al re di Francia. Sapeva che i viniziani non declinerebbono dalla sua volontà; ma sapeva medesimamente che per la guerra gravissima era indebolita la facoltà dello spendere, e che il senato per se stesso era piú tosto desideroso d'attendere per allora a difendere le cose proprie che a prendere di nuovo una guerra la quale non si potrebbe sostentare senza spese grandissime e quasi intollerabili. Sperava che i svizzeri per la inclinazione piú comune della moltitudine si dichiarerebbono contro al re di Francia, ma non n'avendo certezza non pareva doversi per questa speranza incerta sottomettere a tanti pericoli; essendogli noto che mai aveano troncate le pratiche col re di Francia, e che molti de' principali, a quali dalla amicizia franzese risultava utilità grandissima, s'affaticavano quanto potevano acciò che, nella dieta la quale di prossimo doveva congregarsi a..., la confederazione col re si rinnovasse. Dell'animo di Cesare, benché stimolato incessantemente dal re cattolico e naturalmente inimicissimo al nome franzese, aveva minore speranza che timore; sapendo l'offerte grandi che di nuovo gli erano fatte contro a' viniziani e contro a sé, e che il re di Francia aveva possibilità di metterle in atto maggiori di quelle che gli potessino essere fatte da qualunque altro: e quando Cesare si unisse a quel re, si rendeva per l'autorità sua molto formidabile il concilio; e congiunte con buona fede le armi sue colle forze e co' danari del re di Francia, e coll'opportunità degli stati d'amendue, niuna speranza poteva il pontefice avere della vittoria, la quale era molto difficile ottenere contro al re di Francia solo. Sollevava l'animo suo la speranza che il re di Inghilterra avesse a muovere la guerra contro al reame di Francia, indotto da consigli e persuasioni del re cattolico suo suocero e per l'autorità della sedia apostolica, grande allora nell'isola di Inghilterra, e in cui nome avea con ardentissimi prieghi supplicato l'aiuto suo contro al re di Francia, come contro a oppressore e usurpatore della Chiesa. Ma movevano molto piú quel re l'odio naturale de' re e de' popoli di Inghilterra contro al nome de' franzesi, l'età giovenile e la abbondanza grande de' danari lasciatagli dal padre; i quali era fama, nata da autori non leggieri, che ascendessino a quantità quasi inestimabile. Le quali cose accendevano l'animo del giovane, nuovo nel regno, e che nella casa sua non aveva mai veduto altro che prospera fortuna, alla cupidità di rinnovare la gloria de' suoi antecessori; i quali, intitolatisi re di Francia, e avendo in diverse età vessato vittoriosi con gravissime guerre quel reame, non solo avevano lungamente posseduta la Ghienna e la Normandia, ricche e potenti provincie, e preso in una battaglia, fatta appresso a Pottieri, Giovanni re di Francia con due figliuoli e con molti de' principali signori, ma eziandio occupata insieme con la maggiore parte del regno la città di Parigi, metropoli di tutta la Francia; e con tale successo e terrore che è costante opinione che se Enrico quinto loro re non fusse, nel fiore dell'età e nel corso delle vittorie, passato di morte naturale all'altra vita, arebbe conquistato tutto il reame di Francia. La memoria delle quali vittorie rivolgendosi il nuovo re nell'animo aveva volto totalmente l'animo a cose nuove; con tutto che dal padre, quando moriva, gli fusse stato ricordato espressamente che conservasse sopra tutte le cose la pace col re di Francia, con la quale sola potevano i re di Inghilterra regnare sicuramente e felicemente. E che la guerra fatta dagli inghilesi al re di Francia, infestato massimamente nel tempo medesimo da altre parti, fusse di momento grandissimo non era dubbio alcuno; perché e percoteva nelle viscere il regno suo e perché, per la ricordazione delle cose passate, era sommamente temuto da' franzesi il nome inghilese. E nondimeno il pontefice, per la incertitudine della fede barbara e per essere i paesi tanto rimoti, non poteva riposare in questo favore sicuramente i consigli suoi. Queste, e con queste condizioni, erano le speranze del pontefice. Da altra parte il re di Francia aborriva la guerra colla Chiesa, desiderava la pace mediante la quale, oltre al rimuoversi l'inimicizia del pontefice, si liberava dalle dimande importune e dalla necessità di servire a Cesare; né faceva difficoltà nella annullazione del concilio pisano, introdotto solamente da lui per piegare con questo timore l'animo del pontefice alla pace, pure che si perdonasse a' cardinali e agli altri che v'avevano o consentito o aderito. Ma in contrario lo teneva sospeso la dimanda della restituzione di Bologna, essendo quella città per il sito suo opportunissima a molestarlo; perché dubitava che la pace non fusse accettata dal pontefice sinceramente né con animo disposto, se l'occasioni gli ritornassino, a osservarla, ma per liberarsi dal pericolo del concilio e dell'armi. Sperava pure avere a confermare l'animo di Cesare con la grandezza dell'offerte, e perché insino a ora non come alienato ma come confederato trattava seco delle occorrenze comuni; confortandolo trall'altre cose a non consentire che Bologna, città di tanta importanza, ritornasse nella potestà del pontefice. Del re d'Aragona e del re di Inghilterra non diffidava interamente; non ostante il procedere già quasi manifesto dell'uno e i romori che si spargevano della mente dell'altro, e con tutto che gli imbasciadori loro congiunti insieme l'avessino, prima con modeste parole e sotto specie di amichevole officio e dipoi con parole piú efficaci, confortato che operasse che i cardinali e i prelati del suo regno concorressino al concilio lateranense, e che permettesse che la Chiesa fusse reintegrata della città sua di Bologna: perché da altra parte, simulando lo inghilese di volere perseverare nella confederazione che aveva seco, e facendogli fede del medesimo molti de' suoi, credeva non avesse a tentare d'offenderlo; e l'arti e le simulazioni dell'Aragonese erano tali che il re, prestando minore fede a' fatti che alle parole, colle quali affermava che mai piglierebbe l'armi contro a lui, si lasciava in qualche parte persuadere che quel re non sarebbe cosí congiunto con l'armi manifeste agli inimici suoi come era congiunto co' consigli occulti. Nelle quali vane opinioni si ingannava tanto, che essendogli data speranza, da coloro che appresso a' svizzeri seguitavano le parti sue, di potersi riconciliare quella nazione se consentiva alla dimanda di augumentare le pensioni, pertinacemente di nuovo lo dinegò, allegando non volere essere taglieggiato; anzi, usando i rimedi aspri ove erano necessari i benigni, vietò che non potessino trarre vettovaglie del ducato di Milano: delle quali patendo, per la sterilità del paese, grandissima incomodità, sperava s'avessino a piegare a rinnovare con le condizioni antiche la confederazione. V I procuratori de' cardinali dissidenti celebrano gli atti per l'apertura del concilio pisano, e il pontefice lancia l'interdetto contro Firenze e Pisa. Dissensioni in Firenze; simpatie di molti pel cardinale de' Medici. I fiorentini appellano dall'interdetto. Il concilio di Pisa e la questione di Bologna ostacoli alla pace. Confederazione fra il pontefice, il re d'Aragona e il senato veneziano e sue condizioni. Sopravenne in questo mezzo il primo dí di settembre, dí determinato a dare principio al concilio pisano; nel quale dí i procuratori de' cardinali venuti a Pisa celebrorono in nome loro gli atti appartenenti ad aprirlo. Per il che il pontefice, sdegnato maravigliosamente co' fiorentini che avessino consentito che nel dominio loro si cominciasse il conciliabolo (il quale con questo nome sempre chiamava), dichiarò essere sottoposte allo interdetto ecclesiastico le città di Firenze e di Pisa, per vigore della bolla del concilio intimato da lui; nella quale si conteneva che qualunque favorisse il conciliabolo pisano fusse scomunicato e interdetto, e sottoposto a tutte le pene ordinate severamente dalle leggi contro agli scismatici ed eretici. E minacciando di assaltargli con l'armi, elesse il cardinale de' Medici legato di Perugia, e pochi dí poi, essendo morto il cardinale Regino legato di Bologna, lo trasferí a quella legazione; acciò che, essendo con tale autorità vicino ai confini loro lo emulo di quello stato, entrassino tra se medesimi in sospetto e in confusione: dandogli speranza, che tal cosa potesse facilmente succedere, le condizioni nelle quali era allora quella città. Perché, oltre all'essere in alcuni il desiderio del ritorno della famiglia de' Medici, regnavano tra gli altri cittadini di maggiore momento le discordie e le divisioni, antica infermità di quella città, causate in questo tempo dalla grandezza e autorità del gonfaloniere; la quale alcuni per ambizione ed emulazione non potevano tollerare, altri erano malcontenti che egli, attribuendosi nella deliberazione delle cose forse piú che non si conveniva al suo grado, non lasciasse quella parte agli altri che meritavano le loro condizioni: dolendosi che il governo della città, ordinato nei due estremi, cioè nel capo publico e nel consiglio popolare, mancasse, secondo la retta instituzione delle republiche, di uno senato debitamente ordinato, per il quale, oltre a essere come temperamento tra l'uno e l'altro estremo, i cittadini principali e meglio qualificati degli altri ottenessino nella republica grado piú onorato; e che il gonfaloniere, eletto principalmente per ordinare questo, o per ambizione o per sospetto vano facesse il contrario. Il quale desiderio, se bene ragionevole non però di tanta importanza che dovesse voltare gli animi loro alle divisioni, perché eziandio senza questo ottenevano onesto luogo né, alla fine, senza loro si disponevano le cose publiche, fu origine e cagione principale de' mali gravissimi di quella città. Da questi fondamenti essendo nata la divisione tra i cittadini, e parendo agli emuli del gonfaloniere che egli e il cardinale di Volterra suo fratello avessino dependenza dal re di Francia e confidassino in quella amicizia, si opponevano quanto potevano a quelle deliberazioni che si avevano a fare in favore di quel re, desiderosi che il pontefice prevalesse. Da questo era ancora nato che il nome della famiglia de' Medici cominciava a essere manco esoso nella città; perché quegli ancora, emuli del gonfaloniere, che non desideravano il ritorno loro, cittadini di grande autorità, non concorrevano piú a perseguitargli, non a impedire (come altre volte si era fatto) la conversazione degli altri cittadini con loro, anzi dimostrando, per battere il gonfaloniere, di non essere alieni dalla amicizia loro facevano quasi ombra agli altri di desiderare la loro grandezza: dalla qual cosa nasceva che non solo quegli che veramente erano amici loro, che non erano di molto momento, entravano in speranza di cose nuove, ma ancora molti giovani nobili, stimolati o dalle troppe spese o da sdegni particolari o da cupidità di soprafare gli altri, appetivano la mutazione dello stato per mezzo del ritorno loro. E aveva con grande astuzia nutrito e augumentato piú anni questa disposizione il cardinale de' Medici; perché dopo la morte di Piero suo fratello, il cui nome era temuto e odiato, simulando di non si volere intromettere delle cose di Firenze né di aspirare alla grandezza antica de' suoi, aveva sempre con grandissime carezze ricevuto tutti i fiorentini che andavano a Roma e affaticatosi prontamente nelle faccende di tutti e, non meno degli altri, di quegli che si erano scoperti contro al fratello; trasferendo di tutto la colpa in lui, come se l'odio e l'offese fussino terminate con la sua morte: nel quale modo di procedere essendo continuato piú anni, e accompagnato dalla fama che aveva nella corte di Roma di essere, per natura, liberale ossequioso e benigno a ciascuno, era diventato in Firenze grato a molti. E però Giulio, desideroso di alterare quel governo, non imprudentemente lo propose a quella legazione. Appellorono i fiorentini dallo interdetto, non nominando, per offendere meno, nella appellazione il concilio pisano ma solamente il sacro concilio della Chiesa universale; e come se per l'appellazione fusse sospeso l'effetto dello interdetto furono, per comandamento del supremo magistrato, astretti i sacerdoti di quattro chiese principali a celebrare publicamente nelle loro chiese gli offici divini: per il che si scopriva piú la divisione de' cittadini, perché, essendo rimesso nello arbitrio di ciascuno o osservare o sprezzare lo interdetto, regolava quasi ciascuno le cose spirituali secondo il giudicio o la passione che aveva nelle cose publiche e temporali. Credette [il re di Francia] che il principiare del concilio facilitasse la concordia col pontefice, e perciò con instanza grande fu sollecitato da lui; ingannato in questo come in molte altre cose, perché e rendé il pontefice piú duro e ingelosí gli animi degli altri príncipi, ingelositi che alla fine non si creasse un pontefice ad arbitrio suo: dando, oltre a ciò, somma giustificazione; perché pareva gli movesse non gli odii e passioni particolari ma la causa dell'unione della Chiesa e l'onore della religione. Onde di nuovo feciono instanza gli imbasciadori de' re d'Aragona e d'Inghilterra, offerendogli la pace col pontefice, in caso si restituisse Bologna alla Chiesa e che i cardinali convenissino al concilio lateranense; a' quali offerivano che il papa perdonerebbe. Ma ritenendolo da consentire il rispetto di Bologna, rispose: che non difendeva una città contumace e rebelle della Chiesa, sotto il cui dominio e ubbidienza si reggeva come per moltissimi anni aveva fatto innanzi al pontificato di Giulio; il quale non doverrebbe ricercare piú della autorità con la quale l'aveano tenuta i suoi antecessori: medesimamente, il concilio pisano essere stato introdotto con onestissimo e santissimo proposito di riformare i disordini notori e intollerabili che erano nella Chiesa; alla quale, senza pericolo di scisma o di divisione, facilmente si restituirebbe l'antico splendore se il pontefice, come era giusto e conveniente, convenisse a quel concilio. Soggiugnendo, che la inquietudine sua e l'animo acceso alle guerre e agli scandoli aveva costretto lui a obligarsi alla protezione di Bologna; e però, per l'onore suo, non volere mancare altrimenti di difenderla che mancherebbe al difendere la città di Parigi. Dunque il pontefice, rimossi tutti i pensieri dalla pace, per gli odii e appetiti antichi, per la cupidità di Bologna, per lo sdegno e timore del concilio e finalmente per sospetto, se differisse piú a deliberare, di essere abbandonato da tutti, perché già i soldati spagnuoli, dimostrando d'avere a passare in Affrica, cominciavano a Capri a imbarcarsi, deliberò di fare la confederazione trattata col re cattolico e col senato viniziano: la quale fu il quinto dí di ottobre publicata solennemente, presente il pontefice e tutti i cardinali, nella chiesa di Santa Maria del popolo. Contenne che si confederavano per conservare principalmente l'unione della Chiesa, e a estirpazione, per difenderla dallo scisma imminente, del conciliabolo pisano, e per la recuperazione della città di Bologna appartenente immediatamente alla sedia apostolica e di tutte l'altre terre e luoghi che mediatamente o immediatamente se gli appartenessino, sotto il qual senso si comprendeva Ferrara; e che contro a quegli che ad alcuna di queste cose si opponessino o che di impedirle tentassino (significavano queste parole il re di Francia), a cacciargli totalmente di Italia, con potente esercito si procedesse. Nel quale il pontefice tenesse [quattrocento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e semila fanti], tenessevi il senato viniziano [ottocento uomini d'arme mille cavalli leggieri e ottomila fanti], e il re d'Aragona mille dugento uomini d'arme mille cavalli leggieri e diecimila fanti spagnuoli; per sostentazione de' quali pagasse il pontefice, durante la guerra, ciascuno mese, ventimila ducati, e altrettanti ne pagasse il senato viniziano; numerando di presente lo stipendio per due mesi, intra i quali dovessino essere venuti in Romagna o dove convenissino i confederati. Armasse il re d'Aragona dodici galee sottili, quattordici n'armassino i viniziani; i quali nel tempo medesimo movessino la guerra nella Lombardia al re di Francia. Fusse capitano generale dell'esercito don Ramondo di Cardona, di patria catelano e allora viceré del reame di Napoli. Che acquistandosi terra alcuna in Lombardia che fusse stata de' viniziani, se n'osservasse la dichiarazione del pontefice; il quale incontinente, per scrittura fatta separatamente, dichiarò si restituissino a' viniziani. A Cesare fu riservata facoltà di entrare nella confederazione, e medesimamente al re di Inghilterra; a quello con incerta speranza d'averlo finalmente a separare dal re di Francia, a questo con espresso consentimento del cardinale eboracense, intervenuto continuamente a' trattamenti della lega. La quale come fu contratta, morí Ieronimo Donato oratore veneto, per la prudenza e desterità sua molto grato al pontefice, e perciò stato molto utile alla patria nella sua legazione. VI Diversità di giudizi intorno alla politica del pontefice. Atti del pontefice contro a' cardinali dissidenti; sdegno suo contro Firenze e il Soderini. Orazione del Soderini perché si usino le entrate dei beni delle chiese se il pontefice muoverà guerra. Ragioni per cui si delibera di non assalire i fiorentini. Destò questa confederazione, fatta dal pontefice sotto nome di liberare Italia da' barbari, diverse interpretazioni negli animi degli uomini, secondo la diversità delle passioni e degli ingegni. Perché molti, presi dalla magnificenza e giocondità del nome, esaltavano con somme laudi insino al cielo cosí alto proposito, chiamandola professione veramente degna della maestà pontificale; né potere la grandezza dell'animo di Giulio avere assunto impresa piú generosa, né meno piena di prudenza che di magnanimità, avendo con la industria sua commosso l'armi de' barbari contro a' barbari; onde spargendosi contro a' franzesi piú il sangue degli stranieri che degli italiani, non solamente si perdonerebbe al sangue nostro, ma cacciata una delle parti sarebbe molto facile cacciare con l'armi italiane l'altra già indebolita ed enervata. Altri, considerando forse piú intrinsecamente la sostanza delle cose né si lasciando abbagliare gli occhi dallo splendore del nome, temevano che le guerre che si cominciavano con intenzione di liberare Italia da' barbari nocerebbono molto piú agli spiriti vitali di questo corpo che non aveano nociuto le cominciate con manifesta professione e certissima intenzione di soggiogarla; ed essere cosa piú temeraria che prudente lo sperare che l'armi italiane, prive di virtú, di disciplina, di riputazione, di capitani di autorità, né conformi le volontà de' príncipi suoi, fussino sufficienti a cacciare di Italia il vincitore; al quale quando mancassino tutti gli altri rimedi non mancherebbe mai la facoltà di riunirsi co' vinti a ruina comune di tutti gli italiani: ed essere molto piú da temere che questi nuovi movimenti dessino occasione di depredare Italia a nuove nazioni che da sperare che, per l'unione del pontefice e de' viniziani, s'avessino a domare i franzesi e gli spagnuoli. Avere da desiderare Italia che la discordia e consigli malsani de' nostri príncipi non avessino aperta la via d'entrarvi all'armi forestiere; ma che, poi che per la sua infelicità due de' membri piú nobili erano stati occupati dal re di Francia e dal re di Spagna, doversi riputare minore calamità che amendue vi rimanessino, insino a tanto che la pietà divina o la benignità della fortuna conducessino piú fondate occasioni (perché dal fare contrapeso l'un re all'altro si difendeva la libertà di quegli che ancora non servivano) che il venire tra loro medesimi alle armi; per le quali, mentre durava la guerra, si lacererebbono, con depredazioni con incendi con sangue e con accidenti miserabili, le parti ancora intere, e finalmente quel di loro che rimanesse vincitore l'affliggerebbe tutta con piú acerba e piú atroce servitú. Ma il pontefice, il quale sentiva altrimenti, divenuti per la nuova confederazione gli spiriti suoi maggiori e piú ardenti, subito che passò il termine prefisso nel monitorio fatto prima a' cardinali autori del concilio, convocato con solennità grande il concistorio publico, sedendo nell'abito pontificale nella sala detta de' re, dichiarò i cardinali di Santa Croce, di San Malò, di Cosenza e quel [di] Baiosa essere caduti dalla degnità del cardinalato, e incorsi in tutte le pene alle quali sono sottoposti gli eretici e gli scismatici. Publicò, oltre a questo, uno monitorio sotto la forma medesima al cardinale di San Severino, il quale insino a quel dí, non avea molestato; e procedendo col medesimo ardore a' pensieri delle armi sollecitava continuamente la venuta degli spagnuoli, avendo nell'animo che innanzi a ogni altra cosa si movesse la guerra contro a' fiorentini, per indurre a' voti de' confederati quella republica, rimettendo al governo la famiglia de' Medici, né meno per saziare l'odio smisurato conceputo contro a Piero Soderini gonfaloniere, come se dalla autorità sua fusse proceduto che i fiorentini non si fussino mai voluti separare dal re di Francia e che dipoi avessino consentito che in Pisa si celebrasse il concilio. Della quale deliberazione penetrando molti indizi a Firenze, e facendosi per potere sostenere la guerra diverse preparazioni, fu trall'altre cose proposto essere molto conveniente che alla guerra mossa ingiustamente dalla Chiesa si resistesse colle entrate de' beni delle chiese, e perciò si astringessino gli ecclesiastici a pagare quantità grandissima di danari; ma con condizione che, deponendosi in luogo sicuro, non si spendessino se non in caso fusse mossa la guerra, e che cessato il timore che la dovesse essere mossa si restituissino a chi gli avesse pagati: alla qual cosa contradicevano molti cittadini, alcuni temendo di non incorrere nelle censure e nelle pene imposte dalle leggi canoniche contro a' violatori della libertà ecclesiastica, ma la maggiore parte di loro per impugnare le cose proposte dal gonfaloniere, dalla autorità del quale era manifesto procedere principalmente questo consiglio. Ma essendo, per la diligenza del gonfaloniere e per la inclinazione di molti altri, deliberata già ne' consigli piú stretti la nuova legge ordinata sopra questo, né mancando altro che l'approvazione del consiglio maggiore, il quale era convocato per questo effetto, il gonfaloniere parlò per la legge in questa sentenza: - Niuno è che possa, prestantissimi cittadini, giustamente dubitare quale sia stata sempre contro alla vostra libertà la mente del pontefice, non solo per quel che ne apparisce di presente, d'averci tanto precipitosamente sottoposti allo interdetto, senza udire molte nostre verissime giustificazioni e la speranza che se gli dava di operare di maniera che dopo pochi dí si removesse il concilio da Pisa, ma molto piú per il discorso delle azioni continuate da lui in tutto il tempo del suo pontificato. Delle quali raccontando brevemente una parte (perché ridurle tutte alla memoria sarebbe cosa molto lunga) chi è che non sappia che nella guerra contro a' pisani non si potette ottenere da lui, benché molte volte ne lo supplicassimo, favore alcuno né palese né occulto? con tutto che e la giustizia della causa lo meritasse, e che lo spegnere quel fuoco, che non molti anni prima era stato materia di gravissime perturbazioni, appartenesse e alla sicurtà dello stato della Chiesa e alla quiete di tutta Italia; anzi, come insino allora si sospettò, e fu dopo la vittoria nostra piú certo sempre, quante volte ricorrevano a lui uomini de' pisani gli udiva benignamente e gli nutriva nella pertinacia loro con varie speranze: inclinazione in lui non nuova ma cominciata insino nel cardinalato; perché, come è noto a ciascuno di voi, levato che fu da Pisa il campo de' franzesi, procurò quanto potette appresso al re di Francia e il cardinale di Roano perché, esclusi noi, ricevessino in protezione i pisani. Pontefice, non concedette mai alla republica nostra alcuna di quelle grazie delle quali è solita a essere spesso liberale la sedia apostolica; perché in tante difficoltà e bisogni nostri non consentí mai che una volta sola ci aiutassimo delle entrate degli ecclesiastici (come piú volte aveva consentito Alessandro sesto, benché inimico tanto grande di questa republica) ma, dimostrando nelle cose minori l'animo medesimo che aveva nelle maggiori, ci negò ancora il trarre dal clero i danari per sostentare lo studio publico, benché fusse piccola quantità e continuata con la licenza di tanti pontefici, e che si convertiva in causa pietosa della dottrina e delle lettere. Quel che per Bartolomeo d'Alviano fu trattato col cardinale Ascanio in Roma non fu trattato senza consentimento del pontefice, come allora ne apparirono molti indizi, e tosto ne sarebbono appariti effetti manifesti se gli altri di maggiore potenza che vi intervenivano non si fussino ritirati per la morte improvisa del cardinale: ma benché, cessati i fondamenti primi non volle mai consentire a' giusti prieghi nostri di proibire all'Alviano che non adunasse o intrattenesse soldati nel territorio di Roma, ma proibí bene a' Colonnesi e a' Savelli, per mezzo de' quali aremmo con piccola spesa divertiti i nostri pericoli, che non assaltassino le terre di quegli che si preparavano per offenderci. Nelle cose di Siena, difendendo sempre Pandolfo Petrucci contro a noi, ci astrinse con minaccie a prolungare la tregua, né si interpose poi per altro, perché noi recuperassimo Montepulciano (per la difesa del quale avea mandato gente a Siena), se non per paura che l'esercito del re di Francia non fusse da noi chiamato in Toscana. Da noi, pel contrario, non gli era mai stata fatta offesa alcuna, ma proceduti sempre con la divozione conveniente verso la Chiesa, gratificato lui particolarmente in tutte le dimande che sono state in potestà nostra, concedutegli, senza alcuna obligazione anzi contro alla propria utilità, le genti d'arme alla impresa di Bologna; ma niuno officio niuno ossequio è bastato a placare la mente sua. Della quale sono molti altri segni, ma il piú potente quello, che per non parere traportato dallo sdegno e perché so essere nella memoria di ciascuno voglio tacitamente passare, d'avere prestato orecchie (voglio che le parole siano moderate) a quegli che gli offersono la morte mia; non per odio contro a me, dal quale mai avea ricevuta ingiuria alcuna, e che quando era cardinale m'avea sempre onoratamente raccolto, ma per il desiderio ardente che ha di privare voi della vostra libertà: perché avendo sempre cercato che questa republica aderisse alle sue immoderate e ingiuste volontà, fusse partecipe delle sue spese e de' suoi pericoli, né sperando dalla moderazione e maturità de' consigli vostri potere nascere imprudenti e precipitose deliberazioni, ha diritto il fine suo a procurare di introdurre in questa città una tirannide che dependa da lui, che non si consigli e governi secondo le vostre utilità ma secondo l'impeto delle sue cupidità; con le quali, tirato da fini smisurati, non pensa ad altro che a seminare guerre di guerre e a nutrire continuamente il fuoco nella cristianità. E chi è quello che possa dubitare che ora che seco si dimostrano congiunte sí potenti armi, che ora che signoreggia la Romagna, che gli ubbidiscono i sanesi (donde ha lo adito a penetrare insino nelle viscere nostre), che e' non abbi intenzione di assaltarci? che e' non sia per ingegnarsi apertamente di ottenere colle forze quel che già ha tentato occultamente colle insidie, e che con tanto ardore ha bramato sí lungamente? e tanto piú quanto piú fussimo mal preparati a difenderci. Ma quando niuna altra cosa il dimostrasse, non dimostra egli i pensieri suoi abbastanza d'avere diputato nuovamente legato di Bologna il cardinale de' Medici, con intenzione di proporlo all'esercito? cardinale non mai onorato o beneficato da lui, e nel quale non dimostrò mai alcuna confidenza. Che significa questo, altro che, dando autorità, accostando a' vostri confini anzi mettendo quasi in sul collo vostro, con tanta degnità con riputazione e con armi, quel che aspira a essere vostro tiranno, dare animo a' cittadini (se alcuni ne sono tanto pravi) che amino piú la tirannide che la libertà, e sollevare i sudditi vostri a questo nome? Per le quali cose questi miei onorevoli colleghi, e molti altri buoni e savi cittadini, hanno giudicato essere necessario che per difendere questa libertà si faccino i medesimi provedimenti che s'arebbono a fare se la guerra fusse certa; e se bene sia verisimile che il re di Francia, almeno per l'interesse proprio, ci aiuterà potentemente, non dobbiamo per questa speranza omettere i rimedi che sono in nostra potestà, né dimenticarci che facilmente molti impedimenti potrebbono sopravenire che ci priverebbono in qualche parte degli aiuti suoi. Non crediamo che alcuno nieghi che questo sia salutifero e necessario consiglio, e chi pure lo negasse potrebbe essere che altro lo movesse che 'l zelo del bene comune. Ma sono bene alcuni che allegano che, essendo noi incerti se il pontefice ha nell'animo di muoverci la guerra, è inutile deliberazione, offendendo l'autorità sua e gravando i beni ecclesiastici, dargli giusta cagione di sdegnarsi e provocarlo a farci quasi necessariamente la guerra: come se, per tanti e cosí evidenti segni e argomenti, non si comprendesse manifestamente quale sia la mente sua; o come se appartenesse a prudenti governatori delle republiche tardare a prepararsi dopo il principio dell'assalto, volere prima ricevere dall'inimico il colpo mortale che vestirsi dell'armi necessarie a difendersi. Altri dicono che, per non aggiugnere all'ira del pontefice l'ira divina, si debbe provedere alla salute nostra con altro modo, perché non è in noi quella necessità senza la quale è sempre proibito, con pene gravissime, dalle leggi canoniche, a' secolari, imporre gravezze a' beni o alle persone ecclesiastiche. È stata considerata questa ragione similmente da noi e dagli altri che hanno consigliato che si faccia questa legge: ma non bastando, come voi sapete, l'entrate publiche alle spese che occorreranno, ed essendo state sí lungamente e sí gravemente affaticate le borse vostre, ed essendo manifesto che nella guerra aranno a ogn'ora a essere di nuovo affaticate, chi è quello che non vegga essere molto conveniente e necessario che le spese che si faranno per difenderci dalla guerra mossa dalle persone ecclesiastiche si sostenghino in qualche parte co' danari delle persone ecclesiastiche? cosa molte altre volte usata nella nostra città e molto piú da tutti gli altri príncipi e republiche, ma non già mai, né qui né altrove, con maggiore moderazione e circospezione; poiché non s'hanno a spendere in altro uso, anzi s'hanno a depositare in luogo sicuro, per restituirgli, se il timore nostro sarà stato vano, a' religiosi medesimi. Se adunque il pontefice non ci moverà la guerra non spenderemo i danari degli ecclesiastici, né quanto allo effetto aremo imposto loro gravezza alcuna; se ce la moverà, chi si potrà lamentare che con tutti i modi a noi possibili ci difendiamo da una guerra tanto ingiusta? Che cagione gli dà questa republica, che per necessità non per volontà, come a lui è notissimo, ha tollerato che a Pisa si chiami il concilio, per la quale si possa dire che l'abbiamo provocato o irritato? se già non si dice provocare o irritare chi non porge il collo o il petto aperto allo assaltatore. Benché, non lo provoca o irrita chi si prepara a difendersi, chi si mette in ordine per resistere alla sua ingiusta violenza; ma lo provocheremmo o irriteremmo se non ci provedessimo, perché, per la speranza della facilità della impresa, diventerebbe maggiore lo impeto e l'ardore che ha di distruggere da' fondamenti la vostra libertà. Né vi ritenga il timore di offendere il nome divino; perché il pericolo è sí grave e sí evidente, e sono tali i bisogni e le necessità nostre (né si può in pregiudicio vostro trattare cosa di maggiore peso), che è permesso non solo l'aiutarsi con quella parte di queste entrate che non si converte in usi pii, anzi sarebbe lecito mettere mano alle cose sacre: perché la difesa è, secondo la legge della natura, comune a tutti gli uomini e approvata dal sommo Iddio e dal consentimento di tutte le nazioni; nata insieme col mondo e duratura quanto il mondo, e alla quale non possono derogare né le leggi civili né le canoniche fondate in su la volontà degli uomini, e le quali, scritte in sulle carte, non possono derogare a una legge non fatta dagli uomini ma dalla stessa natura, e scritta scolpita e infissa ne' petti e negli animi di tutta la generazione umana. Né si ha aspettare che noi siamo ridotti a estrema necessità, perché condotti in tale stato, e circondati e quasi oppressi dagli inimici, tardi ricorreremmo a' rimedi, tardi sarebbono gli antidoti, incarnato che fusse nel corpo nostro il veleno. Ma oltre a questo, come si può negare che ne' privati non sia gravissima necessità? quando le gravezze che si pongono ne costringono una grandissima parte a estremare di quelle spese senza le quali non possono vivere se non con grandissima incomodità, e con diminuire assai delle cose necessarie al grado loro. Questa è la necessità considerata dalle leggi, le quali non vogliono che si aspetti che i vostri cittadini siano ridotti al pericolo della fame e in termine che non possino sostentare piú né sé né le sue famiglie: e da altra parte, con questa imposizione, non si dà agli ecclesiastici alcuna incomodità, anzi si disagiano di quella parte delle entrate la quale o conserverebbeno inutilmente nella cassa o consumerebbeno in spese superflue, o forse molti di loro (siami perdonata questa parola) spenderebbeno in piaceri non convenienti e non onesti. È conclusione comune di tutti i savi che a Dio piaccino sommamente le libertà delle città, perché in quelle piú che in altra specie di governi si conserva il bene comune, amministrasi piú senza distinzione la giustizia, accendonsi piú gli animi de' cittadini all'opere virtuose e onorate, e si ha piú rispetto e osservanza alla religione. E voi credete che gli abbia a dispiacere che per difendere cosa sí preziosa, per la quale chi sparge il proprio sangue è laudato sommamente, vi vagliate d'una piccola parte di frutti e di entrate di cose temporali? le quali benché dedicate alle chiese sono però pervenute tutte in quelle dalle elemosine dalle donazioni e da' lasci de' nostri maggiori; e le quali si spenderanno non meno in conservazione e per salute delle chiese, sottoposte nelle guerre non altrimenti che le cose secolari alla crudeltà e avarizia de' soldati, e che non saranno piú riguardate in una guerra fatta dal pontefice che sarebbeno in una guerra fatta da qualunque empio tiranno o da' turchi. Aiutate, mentre che voi potete, cittadini, la vostra patria e la vostra libertà; e vi persuadete non potere fare cosa alcuna piú grata e piú accetta al sommo Iddio, e che a rimuovere la guerra dalle case dalle possessioni da i tempii, e da i monasteri vostri non è migliore rimedio che fare conoscere, a chi pensa di offendervi, che voi siete determinati di non pretermettere cosa alcuna per difendervi. - Udito il parlare del gonfaloniere non fu difficoltà alcuna che la legge proposta non fusse approvata dal consiglio maggiore. Dalla qual cosa benché crescesse sopra modo la indignazione del pontefice e si concitasse tanto piú al disporre i confederati a rompere la guerra a' fiorentini, nondimeno rimossono da questa sentenza e lui e quegli che in Italia trattavano per il re d'Aragona le persuasioni di Pandolfo Petrucci; il quale, confortando che si assaltasse Bologna, detestava il muovere la guerra in Toscana: allegando che Bologna, impotente per se medesima a difendersi, sarebbe solamente difesa dalle forze del re di Francia; ma per i fiorentini resisterebbe e la potenza di loro medesimi e, per l'utilità propria non meno che per Bologna, il medesimo re. I fiorentini, se bene inclinati con l'animo al re di Francia, nondimeno prudenti e gelosi della conservazione dello stato loro, non avere in tanti moti a instanza sua offeso alcuno coll'armi, né gli essere stati utili in altro che in accomodarlo, per difesa dello stato di Lombardia, di dugento uomini d'arme, per gli oblighi della capitolazione fatta comunemente col re cattolico e con lui: non potersi fare cosa piú grata né piú utile al re di Francia che necessitare i fiorentini a partirsi dalla neutralità, e fare diventare la causa loro comune con la causa sua; ed essere grande imprudenza, avendo invano il re astrettigli con molti prieghi e promesse che si dichiarino per lui, che gli inimici suoi sieno cagione di fargli conseguire quello che con l'autorità sua non avesse potuto ottenere: comprendersi da ciascuno per molti segni, ma averne egli certissima notizia, che a' fiorentini era molestissimo che il concilio si celebrasse in Pisa, né averlo consentito per altro che per non avere avuto ardire di repugnare alle dimande del re di Francia, fatte subito dopo la rebellione di Bologna e quando non si vedevano armi opposite in Italia; e che era certo concorrere al concilio l'autorità di Cesare, e si credeva che anche vi fusse il consentimento del re cattolico: sapere egli medesimamente che i fiorentini non erano per tollerare che nel dominio loro si fermassino soldati franzesi, ed essere cosa molto perniciosa il minacciargli o l'aspreggiargli, anzi per il contrario essere utilissimo il trattare con mansuetudine e con dimostrazione di ammettere le loro scuse; perché cosí procedendo o si otterrebbe da loro, col tempo o con qualche occasione, quel che ora non si poteva sperare, o almeno, non gli costringendo a fare per timore nuove deliberazioni, si addormenterebbono in modo che ne' tempi pericolosi non nocerebbeno, e ottenendosi la vittoria sarebbe in potestà de' confederati dare quella forma al governo de' fiorentini che piú giudicassino espediente. Diminuiva in questa causa l'autorità di Pandolfo il conoscersi che per l'utilità propria desiderava che nella Toscana non si incominciasse una guerra tanto grave, per la quale o dagli eserciti amici o dagli inimici sarebbono parimenti distrutti i paesi di tutti; ma parveno tanto efficaci le sue ragioni che facilmente si deliberò di non assaltare i fiorentini. Il quale consiglio fece riputare migliore la contenzione che, non molti dí poi, cominciò tra' fiorentini e i cardinali. VII I fiorentini vietano l'ingresso in Toscana e in Pisa alle milizie francesi al seguito de' cardinali del concilio. Avversione al concilio del popolo e dei sacerdoti pisani; per un tumulto i cardinali deliberano di trasferire il concilio a Milano. Avversione al concilio anche del popolo milanese. Freddezza di Massimiliano riguardo al concilio e suo contegno ambiguo di fronte alle questioni politiche. Condizioni difficili del re di Francia per la politica degli altri sovrani e del pontefice. Non erano, come è detto di sopra, intervenuti i cardinali a' primi atti del concilio; perché si erano fermati al Borgo a San Donnino, o per aspettare i prelati che venivano di Francia o quegli che aveva promesso di mandare il re de' romani, o per altre cagioni: onde essendo partiti per diverse vie, si sparse fama che i due spagnuoli, i quali aveano preso il cammino di Bologna, si riconcilierebbono col pontefice; perché continuamente trattavano collo imbasciadore del re d'Aragona che dimorava appresso al pontefice, e perché aveano dimandato e ottenuto da' fiorentini la fede publica di potere sicuramente fermarsi in Firenze. Ma arrivati nel paese di Mugello si voltorno improvisamente verso Lucca per congiugnersi con gli altri, o perché veramente avessino avuto sempre cosí nell'animo o perché nel cardinale di Santa Croce potesse piú finalmente l'antica ambizione che il nuovo timore, o perché, avendo ricevuto in quel luogo l'avviso di essere stati privati, si disperassino di potere piú essere concordi col pontefice. Passavano nel tempo medesimo l'Apennino i tre cardinali franzesi, San Malò, Alibret e Baiosa, per la via di Pontriemoli; e con loro i prelati di Francia: dietro a' quali partivano di Lombardia, per richiesta fatta da loro, trecento lancie franzesi sotto il governo di Odetto di Fois signore di Lautrech deputato da' cardinali custode del concilio, o perché giudicassino pericoloso lo stare in Pisa senza presidio tale o perché il concilio, accompagnato dall'armi del re di Francia, procedesse con maggiore autorità o veramente (come dicevano) per avere possanza di raffrenare qualunque ardisse di contraffare o di non ubbidire a' decreti loro. Ma i fiorentini, come intesono questa deliberazione, la quale insino che le genti cominciorno a muoversi era stata loro celata, deliberorno non ricevere in quella città, tanto importante, tal numero di soldati: considerando la mala disposizione de' pisani, ricordandosi che la ribellione passata era proceduta alla presenza e permettendola il re Carlo, e della inclinazione che al nome pisano avevano avuta i soldati franzesi, e dubitando oltre a questo che per la insolenza militare potesse nascervi qualche accidente pericoloso; ma molto piú temendo che se l'armi del re di Francia venivano a Pisa non ne nascesse (e forse secondo il desiderio occulto del re) che la Toscana diventasse la sedia della guerra. Perciò significorno, nel tempo medesimo: al re, essere difficile l'alloggiarle per la strettezza e sterilità del paese, incomodo non che altro a pascere la moltitudine che conveniva al concilio, né essere necessario, perché Pisa era talmente retta e custodita da loro che i cardinali potevano, senza pericolo o di insulti forestieri o di opposizione di quegli di dentro, sicurissimamente dimorarvi; e al cardinale di San Malò, colla cui volontà si reggevano in queste cose i franzesi, che aveano deliberato di non ammettere in Pisa soldati. Il quale, dimostrando colle parole di consentire, ordinava da altra parte che le genti, separatamente e con minore dimostrazione che si poteva, procedessino innanzi; persuadendosi che approssimate a Pisa vi entrerebbono, o con la violenza o con arti o perché i fiorentini non ardirebbono, con tanta ingiuria del re, di proibirlo. Ma avendo il re risposto apertamente essere contento non vi venissino e da altra parte non lo vietando, i fiorentini mandorno al cardinale di San Malò, con imbasciata pari alla sua superbia, Francesco Vettori, a certificarlo che se i cardinali entravano con l'armi nel dominio loro non solo non gli ammetterebbono in Pisa ma gli perseguiterebbono come inimici: il medesimo, se le genti d'arme passavano l'Apennino verso Toscana, perché presumerebbono non passassino per altro che per entrare poi occultamente o con qualche fraude in Pisa. Dalla quale proposta commosso il cardinale, ordinò che le genti ritornassino di là dallo Apennino; consentendogli i fiorentini che con lui rimanessino, oltre alle persone di Lautrech e di Ciattiglione, cento cinquanta arcieri. Convennonsi tutti i cardinali a Lucca, la quale città il pontefice per questa cagione dichiarò incorsa nello interdetto; ove lasciato infermo il Cosentino, che pochi dí poi vidde l'ultimo suo dí, andorno gli altri quattro a Pisa; non ricevuti né con lieti animi de' magistrati né con riverenza o divozione della moltitudine, perché a fiorentini era molestissima la loro venuta, né accetta o di estimazione alcuna appresso a' popoli cristiani la causa del concilio. Perché, con tutto che il titolo di riformare la Chiesa fusse onestissimo e di grandissima utilità, anzi a tutta la cristianità non meno necessario che grato, nondimeno a ciascuno appariva gli autori muoversi da fini ambiziosi e involti nelle cupidità delle cose temporali, e sotto colore del bene universale contendersi degli interessi particolari, e che a qualunque di essi pervenisse il pontificato non arebbono minore bisogno di essere riformati che avessino coloro i quali si trattava di riformare; e che, oltre alla ambizione de' sacerdoti, aveano suscitato e nutrivano il concilio le quistioni de' príncipi e degli stati: queste avere mosso il re di Francia a procurarlo, queste il re de' romani a consentirlo, queste il re d'Aragona a impugnarlo. Dunque, comprendendosi chiaramente che con la causa del concilio era congiunta principalmente la causa dell'armi e degli imperi, aveano i popoli in orrore che sotto pietosi titoli di cose spirituali si procurassino, per mezzo delle guerre e degli scandoli, le cose temporali. Però, non solamente nello entrare in Pisa i cardinali apparí manifestamente l'odio e il dispregio comune ma piú manifestamente negli atti conciliari. Perché avendo convocato il clero a intervenire nella chiesa cattedrale alla prima sessione, niuno religioso volle intervenirvi; e i sacerdoti propri di quella chiesa, volendo essi, secondo il rito de' concili, celebrare la messa per la quale si implora il lume dello Spirito Santo, recusorno di prestare loro i paramenti; e procedendo poi a maggiore audacia, serrate le porte del tempio, si opposono perché non vi entrassino. Delle quali cose essendosi querelati i cardinali a Firenze, fu comandato che non si negassino loro né le chiese né gli instrumenti ordinati a celebrare gli offici divini ma che non si costrignesse il clero a intervenirvi; procedendo queste deliberazioni, quasi repugnanti a se stesse, dalle divisioni de' cittadini: per le quali, ricettando da una parte nelle terre loro il concilio dall'altra lasciandolo vilipendere, si offendeva in un tempo medesimo il pontefice e si dispiaceva al re di Francia. Però i cardinali, giudicando lo stare in Pisa senza armi non essere senza pericolo, e conoscendo diminuirsi, in una città che non ubbidiva a' decreti loro, l'autorità del concilio, inclinavano a partirsene come prima avessino indirizzate le cose. Ma gli costrinse ad accelerare un caso, il quale benché fusse fortuito ebbe perciò il fondamento dalla mala disposizione degli uomini. Perché avendo un soldato franzese fatto a una meretrice certa insolenza nel luogo publico, e avendo i circostanti cominciato a esclamare, concorsono al romore coll'armi molti franzesi, cosí soldati come familiari de' cardinali e degli altri prelati; e vi concorsono da altra parte similmente molti del popolo pisano e de' soldati de' fiorentini: e gridandosi per quegli il nome di Francia, per questi quello di Marzocco (segno della republica fiorentina), cominciò tra loro uno furioso assalto; ma concorrendovi i capitani franzesi e i capitani de' fiorentini fu alla fine sedato il tumulto, essendo già feriti molti di amendue le parti; e tra gli altri Ciattiglione, corso nel principio senza arme per ovviare allo scandolo, e similmente Lautrech concorsovi per la medesima cagione, benché l'uno e l'altro ferito leggiermente. Ma questo accidente empié di tanto spavento i cardinali, congregati per sorte all'ora medesima nella chiesa quivi vicina di San Michele, che fatta il dí seguente la [seconda] sessione, nella quale statuirno che il concilio si trasferisse a Milano, si partirno con grandissima celerità, innanzi al quintodecimo dí della venuta loro: con somma letizia de' fiorentini e de' pisani, ma non meno essendone lieti i prelati che seguitavano il concilio; a' quali era molesto essere venuti in luogo che, per la mala qualità degli edifici e per molte altre incomodità procedute dalla lunga guerra, non era atto alla vita dilicata e copiosa de' sacerdoti e de' franzesi, e molto piú perché, essendo venuti per comandamento del re contro alla propria volontà, desideravano mutazione di luogo e qualunque accidente per difficultare, allungare o dissolvere il concilio. Ma a Milano i cardinali, seguitando per tutto il dispregio e l'odio de' popoli, arebbono avute le medesime o maggiori difficoltà: perché il clero milanese, come se in quella città fussino entrati non cardinali della Chiesa romana, soliti a essere onorati e quasi adorati per tutto, ma persone profane ed esecrabili, si astenne subitamente da se stesso dal celebrare gli offici divini; e la moltitudine, quando apparivano in publico, gli maladiceva gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce riputato autore di questa cosa, e che era piú negli occhi degli uomini perché nell'ultima sessione pisana l'avevano eletto presidente del concilio. Sentivansi per tutte le strade i mormorii della plebe: solere i concili addurre benedizioni pace concordia; questo addurre maladizioni guerre discordie; solersi congregare gli altri concili per riunire la Chiesa disunita, questo essere congregato per disunirla quando era unita; vulgarsi la contagione di questa peste in tutti che gli ricevevano che gli ubbidivano che gli favorivano che in qualunque modo con essi conversavano, che gli udivano o che gli guardavano; né si potere dalla venuta loro aspettare altro che sangue che fame che pestilenza che, finalmente, perdizione de' corpi e dell'anime. Raffrenò queste voci già quasi tumultuose Gastone di Fois, il quale, pochi mesi innanzi alla partita di Longavilla, era stato preposto dal re al ducato di Milano e all'esercito; perché con gravissimi comandamenti costrinse il clero a riassumere la celebrazione degli uffici, e il popolo a parlare in futuro modestamente. Procedevano per queste difficoltà poco felicemente i princípi del concilio. Ma turbava molto piú le speranze de' cardinali, che Cesare, differendo di giorno in giorno, non mandava né prelati né procuratori; con tutto che, oltre a tante promesse fatte prima, avesse affermato al cardinale di San Severino, e continuamente affermasse al re di Francia, volergli mandare: anzi, nel tempo medesimo, o allegando per scusa, o essendone fatto capace da altri, non essere secondo la sua degnità mandare al concilio pisano i prelati degli stati propri se il medesimo non si faceva in nome di tutta la nazione germanica, aveva convocati in Augusta i prelati di Germania per deliberare come nelle cose di quel concilio si dovesse comunemente procedere; affermando però a' franzesi che con questo mezzo gli condurrebbe tutti a mandarvi. Tormentava anche l'animo del re colla varietà del suo procedere: perché, oltre alla freddezza dimostrata nelle cose del concilio, prestava apertamente l'orecchie alla concordia co' viniziani, trattata con molte offerte dal pontefice e dal re di Aragona; da altra parte, lamentandosi del re cattolico che non si fusse vergognato di contravenire sí apertamente alla lega di Cambrai, e che in questa nuova non confederazione ma prodizione l'avesse nominato come accessorio, proponeva a Galeazzo da San Severino d'andare a Roma personalmente come inimico del pontefice, ma somministrandogli il re parte del suo esercito e quantità grandissima di danari: e nondimeno non proponendo queste cose con tale fermezza che e' non fusse dubbio quel che, sodisfatto eziandio di tutte le sue dimande, avesse finalmente a deliberare. Dunque, nel petto del re combattevano le consuete sospensioni: che Cesare abbandonato da lui si unirebbe con gli inimici; a sostentarlo, si comperava la sua congiunzione con prezzo smisurato il quale non si sapeva che frutto avesse a partorire, conoscendosi, per l'esperienza del passato, che spesso gli nocevano piú i propri disordini che giovassino le forze, né sapendo il re in se medesimo determinarsi quali gli avessino piú a nuocere in questo tempo, o i successi prosperi o gli avversi di Cesare. Aiutava quanto poteva la sua sospensione il re cattolico; dando speranza, per farlo procedere piú lentamente a' provedimenti della guerra, che l'armi non si moverebbono: simile officio, e per simili cagioni, faceva il re di Inghilterra; il quale aveva risposto all'oratore del re di Francia non essere vero che avesse consentito alla lega fatta a Roma, e che era disposto di conservare la confederazione fatta con lui: e nel tempo medesimo il vescovo di Tivoli proponeva in nome del pontefice la pace, purché il re non favorisse piú il concilio e si rimovesse dalla protezione di Bologna; offerendo d'assicurarlo che il pontefice non tenterebbe poi cose nuove contro a lui. Dispiaceva meno al re la pace, eziandio con inique condizioni, che il sottomettersi a' pericoli della guerra e alle spese che, avendo a resistere agli inimici e a sostentare Cesare, si dimostravano quasi infinite: nondimeno lo moveva lo sdegno di essere quasi sforzato dal re d'Aragona col terrore dell'armi a fare questo; il potersi molto difficilmente assicurare che il papa, ricuperata Bologna e liberato dal timore del concilio, osservasse la pace; e il dubbio che, quando pure si dimostrasse apparecchiato a consentire alle condizioni proposte, il pontefice non se ne ritraesse, come altre volte avea fatto: onde, offesa la sua degnità e la riputazione diminuita, Cesare si riputasse ingiuriato che, lasciato lui nella guerra co' viniziani, avesse voluto conchiudere la pace per sé solo. Però rispose precisamente al vescovo di Tivoli non volere consentire che Bologna stesse sotto la Chiesa se non nel modo che anticamente soleva stare; e nel tempo medesimo, per fare ferma determinazione con Cesare, che era a Brunech terra non molto distante da Trento, mandò a lui con ampie offerte e con celerità grandissima Andrea de Burgo cremonese, oratore cesareo appresso a sé: nel qual tempo alcuni de' suoi sudditi del contado di Tiruolo occuporno Butisten, castello molto forte all'entrata di Valdicaldora. VIII Disegni del re di Francia dopo l'interruzione delle pratiche di pace. Notizie intorno agli svizzeri. Gli svizzeri entrano nel ducato di Milano. Ne escono, dopo poco, con sorpresa generale. Il re di Francia chiede a' fiorentini che concorrano con aiuti alla guerra. Contrastanti opinioni in Firenze. Il Guicciardini inviato come ambasciatore al re d'Aragona. Interrotte del tutto le pratiche della pace, furno i primi pensieri del re che, come la Palissa, il quale [avea] lasciati in Verona tremila fanti per mitigare Cesare sdegnato della partita sua, avesse ricondotto il resto delle [genti] nel ducato di Milano, che soldati nuovi fanti e raccolto insieme tutto l'esercito si assaltasse la Romagna; sperando, innanzi che gli spagnuoli vi si fussero approssimati, occuparla o in tutto o in parte, e dipoi o procedere piú oltre secondo l'occasioni o sostenere la guerra nel territorio d'altri insino alla primavera: al qual tempo, passando in Italia personalmente con tutte le forze del suo regno, sperava dovere essere per tutto superiore agli inimici. Le quali cose mentre che disegna, procedendo piú lente le deliberazioni che per avventura non comportavano l'occasioni, e ritraendo il re da molti provedimenti e specialmente da soldare di nuovo fanti l'essere per natura alienissimo dallo spendere, sopravenne sospetto che i svizzeri non si movessino. Della quale nazione perché sparsamente in molti luoghi si è fatta menzione, pare molto a proposito e quasi necessario particolarmente trattarne. Sono i svizzeri quegli medesimi che dagli antichi si chiamavano elvezi, generazione che abita nelle montagne piú alte [di Giura, dette di San Claudio, in quelle di Briga e di San Gottardo], uomini per natura feroci, rusticani, e per la sterilità del paese piú tosto pastori che agricultori. Furono già dominati da' duchi di Austria; da' quali ribellatisi, già è grandissimo tempo, si reggono per loro medesimi, non facendo segno alcuno di ricognizione né agli imperadori né ad altri príncipi. Sono divisi in tredici popolazioni: essi le chiamano cantoni; ciascuno di questi si regge con magistrati, leggi e ordini propri. Fanno ogni anno, o piú spesso secondo che accade di bisogno, consulta delle cose universali; congregandosi nel luogo il quale, ora uno ora altro, eleggono i deputati da ciascuno cantone: chiamano, secondo l'uso di Germania, queste congregazioni diete; nelle quali si delibera sopra le guerre le paci le confederazioni, sopra le dimande di chi fa instanza che gli sia conceduto, per decreto publico, soldati o permesso a' volontari di andarvi; e sopra le cose attenenti allo interesse di tutti. Quando per publico decreto concedono soldati, eleggono i cantoni medesimi tra loro uno capitano generale di tutti, al quale con le insegne e in nome publico si dà la bandiera. Ha fatto grande il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l'unione e la gloria dell'armi, con le quali, per la ferocia naturale e per la disciplina dell'ordinanze, non solamente hanno sempre valorosamente difeso il paese loro ma esercitato fuori del paese la milizia con somma laude: la quale sarebbe stata senza comparazione maggiore se l'avessino esercitata per lo imperio proprio e non agli stipendi e per propagare lo imperio di altri, e se piú generosi fini avessino avuto innanzi agli occhi, a' tempi nostri, che lo studio della pecunia; dall'amore della quale corrotti hanno perduta l'occasione di essere formidabili a tutta Italia, perché non uscendo del paese se non come soldati mercenari non hanno riportato frutto publico delle vittorie, assuefattisi, per la cupidità del guadagno, a essere negli eserciti, con taglie ingorde e con nuove dimande, quasi intollerabili, e oltre a questo, nel conversare e nell'ubbidire a chi gli paga, molto fastidiosi e contumaci. In casa, i principali non si astengono da ricevere doni e pensioni da' príncipi per favorire e seguitare nelle consulte le parti loro: per il che, riferendosi le cose publiche all'utilità private e fattisi vendibili e corruttibili, sono tra loro medesimi sottentrate le discordie; donde, cominciandosi a non essere seguitato da tutti quel che nelle diete approvava la maggiore parte dei cantoni, sono ultimatamente, pochi anni innanzi a questo tempo, venuti tra loro medesimi a manifesta guerra, con somma diminuzione dell'autorità che avevano per tutto. Piú basse di queste sono alcune terre e villaggi chiamati vallesi perché abitano nelle valli, inferiori molto di numero, di autorità publica e di virtú, perché a giudicio di tutti non sono feroci come i svizzeri. E un'altra generazione piú bassa di queste due, chiamonsi grigioni, che si reggono per tre cantoni, e però detti signori delle tre leghe: la terra principale del paese si dice Coira; sono spesso confederati de' svizzeri, e con loro insieme vanno alla guerra e si reggono quasi co' medesimi ordini e costumi; anteposti nell'armi a' vallesi ma non eguali a' svizzeri né di numero né di virtú. I svizzeri adunque, in questo tempo non degenerati ancora tanto né corrotti come poi sono stati, essendo stimolati dal pontefice, si preparavano per scendere nel ducato di Milano; dissimulando che questo movimento procedesse dalla università de' cantoni, ma dando voce ne fussino autori il cantone di Svit e quello di Friborgo, il primo perché si querelava che uno suo corriere passando per lo stato di Milano era stato ammazzato da' soldati franzesi, questo perché pretendeva avere ricevuto ingiurie particolari. I consigli de' quali e publicamente di tutta la nazione benché prima fussino pervenuti all'orecchie del re non l'aveano però mosso a convenire con loro, come i suoi assiduamente lo confortavano e come gli amici che aveva tra loro gli davano speranza potersi ottenere; ritenendolo la solita difficoltà di non accrescere ventimila franchi (sono questi poco piú o meno di diecimila ducati) alle pensioni antiche, e cosí ricusando per minimo prezzo quella amicizia che poi molte volte con tesoro inestimabile arebbe comperata; persuadendosi che o non si moverebbono o che, movendosi potrebbono poco nuocergli, perché soliti a esercitare la milizia a piede non avevano cavalli, e perché non avevano artiglierie: essere oltre a questo in quella stagione (già era entrato il mese di novembre) i fiumi grossi, mancare a essi i ponti e le navi, le vettovaglie del ducato di Milano ridotte per comandamento di Gastone di Fois ne' luoghi forti, bene custodite le terre vicine, e potersi opporre loro alla pianura le genti d'arme; per i quali impedimenti essere necessario che, movendosi, fussino necessitati in ispazio di pochi dí a ritornarsene. E nondimeno i svizzeri, non gli spaventando queste difficoltà, erano cominciati a scendere a Varese, nel qual luogo continuamente augumentavano; avendo seco sette pezzi d'artiglieria da campagna e molti archibusi portati da' cavalli, e medesimamente non al tutto senza apparecchio di vettovaglie. La venuta de' quali faceva molto piú timorosa che, essendo i soldati franzesi divenuti piú licenziosi che 'l solito, cominciava a essere a' popoli non mediocremente grave lo imperio loro; perché il re, astretto dalla avarizia, non aveva consentito che si facesse provedimento di fanti; né le genti d'arme che allora erano in Italia, secondo il numero vero, mille trecento lancie e dugento gentiluomini, potevano tutte opporsi a' svizzeri, essendone una parte alla guardia di Verona e di Brescia, e avendo Fois mandato di nuovo a Bologna dugento lancie, per la venuta del cardinale de' Medici e di Marcantonio Colonna a Faenza: ove, se bene non avessino fanti pagati, nondimeno per le divisioni della città, e perché in quelli dí il castellano della rocca di Sassiglione, castello della montagna di Bologna, l'aveva spontaneamente dato al legato, era paruto necessario mandarvi questo presidio. Da Varese mandorno i svizzeri per uno trombetto a diffidare il luogotenente regio: il quale avendo seco poca gente d'arme, perché non aveva avuto tempo a raccorle, né piú che dumila fanti, né si risolvendo ancora per non dispiacere al re a soldarne di nuovo, era venuto ad Assaron, terra distante tredici miglia da Milano, non con intenzione di combattere ma di andargli costeggiando per impedire loro le vettovaglie; nella qual cosa solo rimaneva la speranza del ritenergli, non essendo tra Varese e Milano né fiumi difficili a passare né terre atte a essere difese. Da Varese vennono i svizzeri a Galera, essendo già augumentati insino al numero di diecimila; e Gastone, il quale seguitava Gianiacopo da Triulzi, si pose a Lignano distante quattro miglia da Galera: dalle quali cose impauriti i milanesi soldavano fanti a spese proprie per guardia della città, e Teodoro da Triulzi faceva fortificare i bastioni e, come se l'esercito avesse a ritirarsi in Milano, fare le spianate dalla parte di dentro, intorno a' ripari che cingono i borghi, perché i cavalli potessino adoperarsi. Presentossi nondimeno Gastone di Fois, con cui erano cinquecento lancie e dugento gentiluomini del re e con molta artiglieria, innanzi alla terra di Galera; all'apparire de' quali i svizzeri uscirono ordinati in battaglia: nondimeno, non volendo insino non erano maggiore numero combattere in luogo aperto, ritornorno presto dentro. Cresceva intratanto continuamente il numero loro; per il quale deliberati di non ricusare piú di combattere vennono a Busti, nella quale terra erano alloggiate cento lancie, che a fatica salvorno sé, perduti i carriaggi con parte de' cavalli. Alla fine i franzesi, ritirandosi sempre che essi procedevano innanzi, si ridussono ne' borghi di Milano; essendo incerti gli uomini se volessino fermarsi a difendergli, perché altro sonavano le loro parole altro dimostrava il fornire sollecitamente il castello di vettovaglie. Approssimoronsi dipoi i svizzeri a' sobborghi a due miglia; ma vi era già molto allentato il timore, perché continuamente sopravenivano le genti d'arme richiamate a Milano e similmente molti fanti che si soldavano, e d'ora in ora si aspettavano Molard co' fanti guasconi e Iacob co' fanti tedeschi, richiamati l'uno da Verona l'altro da Carpi. E in questo tempo furno intercette lettere de' svizzeri a' loro signori. Significavano essere debole l'opposizione de' franzesi, maravigliavansi non avere ricevuto dal pontefice messo alcuno né sapere quel che facesse l'esercito de' viniziani; e nondimeno, che procedevano secondo che si era destinato. Erano già in numero sedicimila e si voltorno verso Moncia, la quale non tentato di occupare ma standosi piú verso il fiume dell'Adda, davano timore a' franzesi di volere tentare di passarlo; però gittavano il ponte a Casciano, per impedire loro il transito con l'opportunità della terra e del ponte. Dove mentre stanno, venne, impetrato prima salvocondotto, uno capitano de' svizzeri a Milano, il quale dimandò lo stipendio di uno mese per tutti i fanti, offerendo di ritornarsene al paese loro; ma partito senza conclusione, per essergli offerta somma molto minore, tornò il seguente dí con dimande piú alte, e ancora che gli fussino fatte offerte maggiori che 'l dí dinanzi, nondimeno, ritornato a suoi, rimandò subito indietro uno trombetto a significare che non voleano piú la concordia: e l'altro dí dipoi, mossi contro all'espettazione di tutti verso Como, se ne tornorno alla patria; lasciando liberi i giudíci degli uomini se fussino scesi per assaltare lo stato di Milano o per passare in altro luogo, e per quale cagione non soprafatti ancora da alcuna evidente difficoltà fussino tornati indietro, o perché volendo ritornarsene non avessino accettato i danari, avendone massime dimandati. Come si sia, è manifesto che mentre si ritiravano sopravenneno due messi del pontefice e de' viniziani, i quali si divulgò che se fussino arrivati prima non si sarebbeno i svizzeri partiti. Né si dubita, che se nel tempo medesimo che entrorono nel ducato di Milano fussino stati gli spagnuoli vicini a Bologna, che le cose de' franzesi, non potendo resistere da tante parti, sarebbono andate senza indugio in manifesta perdizione. Il quale pericolo gustando il re per l'esperienza, che prima non l'aveva antiveduto con la ragione, commesse, innanzi sapesse la ritirata loro, a Fois che per concordargli non perdonasse a quantità alcuna di danari; né dubitando piú, quando bene i svizzeri componessino, d'avere a essere assaltato potentemente, comandò a tutte le genti d'arme che aveva in Francia che passassino i monti, eccetto dugento lancie le quali si riservò nella Piccardia; e vi mandò, oltre a questo, nuovo supplemento di fanti guasconi, e a Fois comandò che riempiesse l'esercito di fanti italiani e tedeschi. Ricercò ancora con instanza grande i fiorentini, gli aiuti de' quali erano di momento grande, per l'aversi a fare la guerra ne' luoghi vicini e per l'opportunità di turbare da' confini loro lo stato ecclesiastico e interrompere le vettovaglie e l'altre comodità all'esercito degli inimici, se si accostava a Bologna, che scopertamente e con tutte le forze loro concorressino seco alla guerra; ricercando la necessità delle cose presenti altro che aiuti piccoli o limitati o che si contenessino dentro a' termini delle confederazioni, né potere mai avere maggiore occasione d'obligarsi sé, né fare mai beneficio piú preclaro e del quale si distendesse piú la memoria in perpetuo a' suoi successori: senza che, se bene consideravano, difendendo e aiutando lui difendevano e aiutavano la causa propria, perché potevano essere certi quanto fusse grande l'odio del papa contro a loro, quanta fusse la cupidità del re cattolico di fermare in quella città uno stato dependente interamente da sé. Ma a Firenze sentivano diversamente. Molti, acciecati dalla dolcezza del non spendere di presente, non consideravano quel che potesse portare seco il tempo futuro; in altri poteva la memoria che mai dal re né da Carlo suo precessore fusse stata riconosciuta la fede e l'opere di quella republica, e l'avere con prezzo grande venduto loro il non impedire che recuperassino Pisa: col quale esempio non potersi confidare delle promesse e offerte sue, né che per qualunque beneficio gli facessino non si troverebbe in lui gratitudine alcuna; e perciò essere non piccola temerità fare deliberazione di entrare in una guerra, la quale succedendo avversa parteciperebbono piú che per rata parte di tutti i mali, succedendo prospera non arebbono parte alcuna benché minima de' beni. Ma erano di maggiore momento quegli che, o per odio o per ambizione o per desiderio di altra forma di governo, si opponevano al gonfaloniere, magnificando le ragioni già dette e adducendone di nuovo; e specialmente, che stando neutrali non conciterebbono contro a sé l'odio d'alcuna delle parti, né darebbono ad alcuno de' due re giusta cagione di lamentarsi: perché né al re di Francia erano tenuti di altri aiuti che di trecento uomini d'arme per la difesa degli stati propri, de' quali già l'aveano accomodato, né questo potere essere molesto al re d'Aragona, il quale riputerebbe guadagno non piccolo che altrimenti in questa guerra non si intromettessino, anzi essere sempre lodati e tenuti piú cari quegli che osservano la fede, e specialmente perché per questo esempio spererebbe che a lui medesimamente, quando gli sopravenisse bisogno, si osserverebbe quel che per la capitolazione fatta a comune col re di Francia e con lui era stato promesso. Procedendo cosí, se tra' príncipi nascesse pace la città sarebbe nominata e conservata da amendue; se uno ottenesse la vittoria, non si reputando offeso né avendo causa di odio particolare, non sarebbe difficile comperare l'amicizia sua con quelli medesimi danari e forse con minore quantità di quella che arebbono spesa nella guerra, modo col quale, piú che coll'armi, aveano molte volte salvata la libertà i maggiori loro: procedendo altrimenti, sosterrebbono mentre durasse la guerra, per altri e senza necessità, spese gravissime; e ottenendo la parte inimica la vittoria rimarrebbe in manifestissimo pericolo la libertà e la salute della patria. Contrario a questi era il parere del gonfaloniere, giudicando essere piú salutifero alla republica che si prendessino l'armi per il re di Francia: e perciò, prima aveva favorito il concilio e suggerito al pontefice materia di sdegnarsi, acciò che la città, provocata da lui o cominciata a insospettirne, fusse quasi necessitata a fare questa deliberazione; e in questo tempo dimostrava non potere essere se non perniciosissimo consiglio lo stare oziosi ad aspettare l'evento della guerra, la quale si faceva in luoghi vicini e tra príncipi tanto piú potenti di loro. Perché la neutralità nelle guerre degli altri essere cosa laudabile, e per la quale si fuggono molte molestie e spese, quando non sono sí deboli le forze che tu abbia da temere la vittoria di ciascuna delle parti; perché allora ti arreca sicurtà, e bene spesso, la stracchezza loro, facoltà di accrescere il tuo stato. Né essere sicuro fondamento il non avere offeso alcuno, il non avere data giusta cagione di querelarsi; perché rarissime volte, e forse non mai, si raffrena dalla giustizia o dalle discrete considerazioni l'insolenza del vincitore; né reputarsi, per queste ragioni, meno ingiuriati i príncipi grandi quando è negato loro quel che desiderano, anzi sdegnarsi contro a ciascuno che non séguita la volontà loro e che con la fortuna di essi non accompagna la fortuna propria. Credersi stoltamente che il re di Francia non s'abbia a tenere offeso quando si vedrà abbandonato in tanti pericoli, quando vedrà non corrispondere gli effetti alla fede che aveva ne' fiorentini, a quel che indubitatamente si prometteva di loro, a quel che tante volte gli era stato da loro medesimi affermato e predicato. Piú stolto essere credere che, rimanendo vincitori, il pontefice e il re d'Aragona non esercitassino contro a quella republica immoderatamente la vittoria; l'uno per l'odio insaziabile, amendue per la cupidità di fermare un governo che si reggesse ad arbitrio loro, persuadendosi che la città libera arebbe sempre maggiore inclinazione a' franzesi che a loro: e questo non si vedere egli apertamente, avendo il pontefice, con approvazione del re cattolico, destinato legato all'esercito il cardinale de' Medici? Dunque: lo stare neutrale non importare altro che volere diventare preda della vittoria di ciascuno; aderendosi a uno di essi, almeno dalla vittoria sua risultarne la sicurtà e la conservazione loro, premio, poiché le cose erano ridotte in tanti pericoli, di grandissimo momento; e se si facesse la pace dovervi avere migliori condizioni. Ed essere superfluo disputare a quale parte si dovessino piú aderire, perché niuno dubiterebbe doversi seguitare piú tosto l'antica amicizia (e dalla quale se la republica non era stata rimunerata o premiata era almeno stata piú volte difesa e conservata) che amicizie nuove, che sarebbono sempre infedeli sempre sospette. Diceva invano il gonfaloniere queste parole, impedendosi il voto suo sopra tutto per l'opposizione di coloro a' quali era molesto che il re di Francia riconoscesse dalle sue opere l'essergli congiunti i fiorentini. Nelle quali contenzioni, interrompendo l'una parte il parere dell'altra, né si deliberava il dichiararsi né totalmente lo stare neutrali; onde spesso nascevano consigli incerti e deliberazioni repugnanti a se medesime, senza riportarne grazia o merito appresso ad alcuno. Anzi, procedendo con queste incertitudini, mandorono, con dispiacere grande del re di Francia, al re d'Aragona imbasciadore Francesco Guicciardini, quello che scrisse questa istoria, dottore di legge, ancora tanto giovane che per l'età era, secondo le leggi della patria, inabile a esercitare qualunque magistrato; e nondimeno non gli dettono commissioni tali che alleggierissino in parte alcuna la mala volontà de' confederati. IX La bastia del Genivolo è presa da' fanti spagnuoli e ben presto ripresa dal duca di Ferrara. L'esercito ispano pontificio sotto Bologna. Discussioni e varietà di pareri nell'esercito. Assalto a Bologna; miracoloso effetto della mina posta alla cappella del Baracane. Entrata dell'esercito francese in Bologna, gli ispano pontifici levano il campo e si ritirano verso Imola. Ma non molto dipoi che i svizzeri furno ritornati alle case loro cominciorno i soldati spagnuoli e quegli del pontefice a entrare nella Romagna; alla venuta de' quali tutte le terre che teneva il duca di Ferrara di qua dal Po, eccetto la bastia del fossato di Genivolo, si arrenderono alla semplice richiesta di uno trombetto. Ma perché non erano ancora condotte in Romagna tutte le genti e l'artiglierie, le quali il viceré aspettando si era fermato a Imola, parve che, per non consumare quel tempo oziosamente, Pietro Navarra capitano generale de' fanti spagnuoli andasse alla espugnazione della bastia. Il quale avendo cominciato a batterla con tre pezzi di artiglieria, e trovando maggiore difficoltà a espugnarla che non avea creduto, perché era bene munita e valorosamente difesa da cento cinquanta fanti che vi erano dentro, attese a fare fabbricare due ponti di legname, per dare maggiore comodità a' soldati di passare le fosse piene d'acqua; i quali due ponti come furono finiti, il terzo dí che vi si era accostato, che fu l'ultimo dí dell'anno mille cinquecento undici, dette ferocemente lo assalto, in modo che dopo lungo e bravo combattere i fanti saliti in sulle mura colle scale finalmente l'ottenneno, ammazzati quasi tutti i fanti e Vestitello loro capitano. Lasciò Pietro Navarra alla bastia dugento fanti, contradicendo Giovanni Vitelli, il quale affermava essere tanto indebolita da' colpi delle artiglierie che senza nuova riparazione non si poteva piú difendere: ma a fatica era ritornato a unirsi col viceré che il duca di Ferrara, andatovi con nove pezzi grossi d'artiglieria, l'assaltò con tale furore che squarciato quel luogo piccolo in molte parti vi entrò per forza il dí medesimo: ammazzati, parte nel combattere parte per vendicare la morte de' suoi, il capitano con tutti i fanti; ed egli percosso di un sasso in sulla testa, benché per la difesa della celata non gli facesse nocumento. Eransi intratanto raccolte a Imola tutte le genti cosí ecclesiastiche come spagnuole, potenti di numero e di virtú di soldati e di valore di capitani; perché per il re d'Aragona vi erano, cosí divulgava la fama, mille uomini d'arme ottocento giannettari e ottomila fanti spagnuoli, e oltre alla persona del viceré molti baroni del reame di Napoli, de' quali il piú chiaro per fama e per perizia d'arme era Fabrizio Colonna, che aveva il titolo di governatore generale; perché Prospero Colonna, sdegnandosi d'avere a stare sottoposto nella guerra a' comandamenti del viceré, aveva ricusato d'andarvi. Del pontefice vi erano ottocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e [otto] mila fanti italiani, sotto Marcantonio Colonna, Giovanni Vitelli, Malatesta Baglione, figliuolo di Giampagolo, Raffaello de' Pazzi e altri condottieri, sottoposti tutti all'ubbidienza del cardinale de' Medici legato; né avevano capitano generale, perché..., duca di Termini, eletto dal pontefice come confidente al re d'Aragona, era, venendo all'esercito, morto a Civita Castellana; e il duca di Urbino, solito a ottenere questo grado, non veniva, o perché cosí fusse piaciuto al pontefice o perché non reputasse essere cosa degna di lui l'ubbidire, massimamente nelle terre della Chiesa, al viceré capitano generale di tutto l'esercito de' confederati. Con queste genti, provedute abbondantemente d'artiglierie condotte quasi tutte del regno di Napoli, si deliberò di porre il campo a Bologna, non perché non si conoscesse impresa molto difficile, per la facilità che avevano i franzesi di soccorrerla, ma perché niuna altra impresa si poteva fare che non avesse maggiori difficoltà e impedimenti: starsi con tanto esercito oziosi arguiva troppo manifesta timidità, e la instanza del pontefice era tale che chiunque avesse messo in considerazione le difficoltà gli arebbe dato cagione di credere e di lamentarsi che già cominciassino ad apparire gli artifici e le fraudi degli spagnuoli. Però il viceré, mosso l'esercito, si fermò tra 'l fiume dell'Idice e Bologna, ove ordinate le cose necessarie all'oppugnazione delle città e dirivati i canali che da' fiumi di Reno e di Savana entrano in Bologna, si accostò poi alle mura, distendendo la maggiore parte dell'esercito tra 'l monte e la strada che va da Bologna in Romagna, perché da quella parte aveva la comodità delle vettovaglie. Tra 'l ponte a Reno posto in sulla strada Romea che va in Lombardia e la porta di San Felice posta in sulla medesima strada andò ad alloggiare Fabrizio Colonna con l'avanguardia, la quale conteneva settecento uomini di arme cinquecento cavalli leggieri e seimila fanti, per potere piú facilmente vietare se i franzesi vi mandassino soccorso; e perché i monti fussino in potestà loro, messono una parte delle genti nel monasterio di San Michele in Bosco, molto vicino alla città ma posto in luogo eminente e che la sopragiudica; e occuporno similmente la chiesa piú alta, che si dice di Santa Maria del Monte. In Bologna, oltre al popolo armigero, benché forse piú per consuetudine che per natura, e alcuni cavalli e fanti soldati da' Bentivogli, aveva Fois mandato duemila fanti tedeschi e dugento lancie, sotto Odetto di Fois e Ivo di Allegri chiari capitani, questo per la lunga esperienza della guerra, quello per la nobiltà della famiglia sua e perché si vedevano in lui aperti segni di virtú e di ferocia; e vi erano due altri capitani, Faietta e Vincenzio cognominato il grandiavolo: e nondimeno collocavano piú la speranza del difendersi nel soccorso promesso da Fois che nelle forze proprie, atteso il circuito grande della città, il sito dalla parte del monte molto incomodo, né vi essere altre fortificazioni che quelle che per il pericolo presente erano state fatte tumultuariamente; sospetti molti della nobiltà e del popolo a' Bentivogli, e per essere antica laude de' fanti spagnuoli, confermata nuovamente intorno alla bastia del Genivolo, che nell'oppugnazioni delle terre fussino per la agilità e destrezza loro di gran valore. Ma confermò non poco gli animi loro il procedere lentissimo degli inimici; i quali stettono nove dí oziosi intorno alle mura innanzi tentassino cosa alcuna, eccetto che cominciorono, con due sagri e due colubrine piantate al monasterio di San Michele, a tirare a caso e senza mira certa nella città per offendere gli uomini e le case, ma presto se ne astennono conoscendo per l'esperienza non si offendere con questi colpi gli inimici, né farsi altro effetto che consumare le munizioni inutilmente. Cagione di tanta tardità fu l'avere, il dí che s'accamporono, avuto notizia che Fois venuto al Finale raccoglieva da ogni parte le genti; e pareva verisimile quel che divulgava la fama che, per considerare quanto nocesse alle cose del re e quanta riputazione gli diminuisse il lasciare perdere una città tanto opportuna, avesse a esporsi a ogni pericolo per conservarla: onde veniva quasi necessariamente in discussione non solamente da qual parte si potessino piú facilmente, e con maggiore speranza di espugnarla, piantare l'artiglierie ma ancora come si potesse vietare che non vi entrasse il soccorso de' franzesi. Perciò, fu nella prima consulta deliberato che Fabbrizio Colonna, proveduto prima di vettovaglie, passando dall'altra parte della terra, alloggiasse in sul poggio situato sotto Santa Maria del Monte, dal qual luogo potrebbe facilmente opporsi a quegli che venissino per entrare in Bologna, né essere tanto distante dal resto dell'esercito che, sopravenendogli pericolo alcuno, non potesse a tempo essere soccorso; e che nel tempo medesimo si cominciasse, dalla parte dove erano alloggiati o in luogo poco distante, a battere la terra: allegando gli autori di questo parere, non essere da credere che, dependendo la conservazione di tutto quello che i franzesi tenevano in Italia dalla conservazione dell'esercito, Fois tentasse cosa nell'esecuzione della quale fusse potuto essere costretto a combattere; né medesimamente che avesse in animo, quando bene conoscesse poterlo fare sicuramente, di impiegarsi con tutto l'esercito in Bologna, e cosí privarsi della facoltà di soccorrere, se fusse di bisogno, lo stato di Milano, non sicuro interamente da' movimenti de' svizzeri ma con maggiore sospetto di essere assaltato dall'esercito viniziano; il quale, venuto a' confini del veronese, minacciava d'assaltare Brescia. Ma il dí seguente fu, quasi da tutti i medesimi che l'aveano consentito, riprovato questo; considerando non essere certo che l'esercito franzese non avesse a venire, e se pure venisse non essere potente l'avanguardia sola a resistere, né potersi lodare quella deliberazione sostentata da uno fondamento tale che in potestà degli inimici fusse variarlo o mutarlo. Però fu approvato dal viceré il parere di Pietro Navarra, non comunicato ad altri che a lui; il quale consigliò che, fatta provisione di vettovaglie per cinque dí e lasciata solamente guardia nella chiesa di San Michele, tutto l'esercito passasse alla parte opposita della città, onde potrebbe impedire che l'esercito inimico non vi entrasse; e non essendo la terra riparata da quella parte, perché non aveano mai temuto dovervi essere assaltati, indubitatamente intra cinque dí si piglierebbe. Ma come questa deliberazione fu nota agli altri, niuno fu che apertamente non contradicesse l'andare con l'esercito ad alloggiare in luogo privato interamente delle vettovaglie che si conducevano di Romagna, con le quali sole si sostentava; di maniera che senza dubbio si dissolveva o distruggeva se infra cinque dí non otteneva la vittoria. E quale è quello, diceva Fabrizio Colonna, che se la possa promettere assolutamente in termine tanto stretto? e come si debbe, sotto una speranza fallacissima per sua natura e sottoposta a molti accidenti, mettersi in tanto pericolo? e chi non vede che, mancandoci l'ore misurate e avendo alla fronte Bologna, ove è il popolo grande e molti soldati, alle spalle i franzesi e il paese inimico, non potremo senza la disfazione nostra ritirarci, colle genti affamate disordinate e impaurite? Proponevano alcuni altri che aggiunto all'avanguardia maggiore numero di fanti si fermasse di là da Bologna, quasi alle radici del monte tralle porte di Saragosa e di San Felice, fortificando l'alloggiamento con tagliate e altri ripari; e che la terra si battesse da quella parte dalla quale non solo era debolissima di muraglie e di ripari, ma ancora, piantando qualche pezzo di artiglieria in sul monte, si offendevano per fianco, mentre si dava la battaglia, quegli che dentro difendessino la parte già battuta: il quale consiglio era medesimamente riprovato come non sufficiente a impedire la venuta de' franzesi e come pericoloso, perché se fussino assaltati non poteva l'esercito, con tutto che in potestà sua fussino i monti, condursi al soccorso loro in minore spazio di tre ore. Nelle quali ambiguità essendo piú facile riprovare, e meritamente, i consigli proposti dagli altri che proporre di quegli che meritassino di essere approvati, inclinorno finalmente i capitani che la terra si assaltasse da quella parte dalla quale alloggiava l'esercito; mossi, trall'altre ragioni, dal diminuire già l'opinione che Fois, poiché tanto tardava, avesse a venire innanzi. Perciò, e cominciorno a fare le spianate per accostare alle mura l'artiglierie e fu richiamata l'avanguardia ad alloggiare insieme cogli altri. Ma poco dipoi, essendo venuti molti avvisi che le genti franzesi continuamente moltiplicavano al Finale, e però ritornando il sospetto primo della venuta loro, cominciò di nuovo a pullulare la varietà delle opinioni: perché, consentendo tutti che se Fois s'approssimava si doveva procurare di assaltarlo innanzi entrasse in Bologna, molti ricordavano che l'avere in tal caso a ritirare dalle mura l'artiglierie piantate darebbe molte difficoltà e impedimenti all'esercito; il che, quando le cose erano ridotte a termini tanto stretti, non poteva essere né piú pericoloso né piú pernicioso. Altri ricordavano essere cosa non meno vituperosa che dannosa stare oziosamente tanti dí intorno a quelle mura, confermando in uno tempo medesimo gli animi degli inimici che erano dentro e dando spazio di soccorrerla a quegli che erano fuora: però non essere piú da differire il piantare dell'artiglierie, ma in luogo che si potessino comodamente ritirare; facendo, per andare a opporsi a' franzesi, le spianate tanto larghe che insieme si potesse muovere l'artiglierie e l'esercito. All'opinione di quegli che confortavano il dare principio al combattere la terra aderiva cupidissimamente il legato, infastidito di tante dilazioni né già senza sospetto che questo fusse, per ordinazione del re loro, procedere artificioso degli spagnuoli; dolendosi che se avessino subito, quando si accostorno, cominciato a battere la città, forse che a quell'ora l'arebbono espugnata. Non doversi piú moltiplicare negli errori, non stare come inimici intorno a una città e da altra parte fare segni di non avere ardire d'assaltarla: stimolarlo ogni dí con corrieri e con messi il pontefice; non sapere piú che si rispondere né che si allegare, né potere piú nutrirlo con promesse e speranze vane. Dalle quali parole commosso il viceré si lamentò gravemente che, non essendo egli nutrito nell'armi e negli esercizi della guerra, volesse essere cagione, col tanto sollecitare, di deliberazioni precipitose. Trattarsi in questi consigli dell'interesse di tutto il mondo, né potersi procedere con tanta maturità che non convenisse usarla maggiore. Essere costume de' pontefici e delle republiche pigliare volonterosamente le guerre, ma prese, cominciando presto a rincrescere lo spendere e le molestie, desiderare di finirle troppo presto. Lasciasse deliberare a' capitani, che avevano la medesima intenzione che egli ma avevano di piú l'esperienza della guerra. In ultimo, Pietro Navarra, al quale molto si riferiva il viceré, ricordò che in una deliberazione di tanto momento non dovevano essere in considerazione due o tre giorni piú; e però, che si continuassino i provedimenti necessari e per l'espugnazione di Bologna e per la giornata con gl'inimici, per seguitare quello che consigliasse il procedere de' franzesi. Non apparí, per il corso de' due dí, lume alcuno della migliore risoluzione: perché Fois, a cui si erano arrendute Cento, la Pieve e molte castella del bolognese, soggiornava ancora al Finale, attendendo a raccorre le genti; le quali, per essere divise in vari luoghi, né venendo cosí presto i fanti italiani che aveva soldati, non senza tardità si raccoglievano. Però, non apparendo piú cagione alcuna di differire, furno finalmente piantate l'artiglierie contro alla muraglia, distante circa trenta braccia dalla porta detta di Santo Stefano donde si va a Firenze, ove il muro volgendosi verso la porta detta di Castiglione, volta alla montagna, fa uno angolo; e nel medesimo tempo si dava opera per Pietro Navarra a fare una cava sotterranea piú verso la porta di strada Castiglione, a quella parte del muro nel quale era, dalla parte di dentro, fabbricata una piccola cappella detta del Baracane, acciò che, dandosi la battaglia insieme, potessino piú difficilmente resistere essendo divisi che se uniti avessino a difendere uno luogo solo: e oltre a questo, non abbandonando i pensieri dello opporsi a' franzesi, vollono che l'avanguardia ritornasse allo alloggiamento dove era prima. Rovinoronsi in un dí colle artiglierie poco meno di cento braccia di muraglia, e si conquassò talmente la torre della porta che piú non si potendo difendere fu abbandonata: di maniera che da quella parte si poteva comodamente dare la battaglia, ma si aspettava che prima avesse perfezione la mina cominciata; benché per temerità della moltitudine [poco mancò], che il dí medesimo disordinatamente non si combattesse. Perché alcuni fanti spagnuoli, saliti per una scala a uno foro fatto nella torre, scesono di quivi in una casetta congiunta con le mura di dentro, ove non era guardia alcuna; il che veduto dagli altri fanti, quasi tutti tumultuosamente vi si volgevano se i capitani, corsi al romore, non gli avessino ritenuti: ma avendo quegli di dentro, con uno cannone voltato alla casetta, ammazzatane una parte, gli altri fuggirono dal luogo nel quale inconsideratamente erano entrati. E mentre che alla mina si lavora si attendeva per l'esercito a fare ponti di legname e a riempiere le fosse di fascine, per potere, andando quasi a piano, accostare i fanti al muro rotto e tirare in sulla rovina qualche pezzo di artiglierie; acciò che quegli di dentro, quando si dava l'assalto, non potessino fermarsi alla difesa. Le quali preparazioni vedendo i capitani franzesi, e intendendo che già il popolo cominciava a essere soprafatto dal timore, mandorono subito a dimandare soccorso a Fois; il quale il dí medesimo mandò mille fanti, e il dí prossimo cento ottanta lancie; la quale cosa generò credenza ferma negli inimici esso avere deliberato di non venire piú innanzi, perché non pareva verisimile che se altrimenti avesse in animo ne separasse da sé una parte; e tale era veramente la sua intenzione, perché, stimando questi sussidi essere sufficienti a difendere Bologna, non voleva senza necessità tentare la fortuna del combattere. Finita in ultimo la mina e stando l'esercito armato per dare incontinente la battaglia, la quale perché si desse con maggiori forze era stata richiamata l'antiguardia, fece il Navarra dare il fuoco alla mina. La quale con grandissimo impeto e romore gittò talmente in alto la cappella che, per quello spazio che rimase tra 'l terreno e il muro gittato in alto, fu da quegli che erano fuora veduta apertamente la città dentro e i soldati che stavano preparati per difenderla; ma subito scendendo in giú, ritornò il muro intero nel luogo medesimo onde la violenza del fuoco l'aveva sbarbato, e si ricongiunse insieme come se mai non fusse stato mosso: onde non si potendo assaltare da quella parte, i capitani giudicorno non si dovere dare [la battaglia] solamente dall'altra. Attribuirono questo caso i bolognesi a miracolo, riputando impossibile che senza l'aiutorio divino fusse potuto ricongiugnersi cosí appunto ne' medesimi fondamenti; onde fu dipoi ampliata quella cappella, e frequentata con non piccola divozione del popolo. Inclinò questo successo Fois, come se non piú fusse da temere di Bologna, a andare verso Brescia, perché aveva notizia che l'esercito viniziano si moveva verso quella città; della quale, per avervi, per il pericolo di Bologna, lasciati i provedimenti deboli e perché dubitava che dentro fussino occulte fraudi, non mediocremente temeva. Ma i prieghi de' capitani che erano in Bologna, ora dimostrando continuare il pericolo maggiore che prima se si partiva, ora dandogli speranza, se vi entrava, di rompere il campo degli inimici, lo alienorno da questo proposito. Però, ancora che nel consiglio avessino contradetto quasi tutti i capitani, mossosi, inclinando già il dí alla notte, dal Finale, la mattina seguente, non essendo piú che due ore di dí, camminando con tutto l'esercito ordinato a combattere, con neve e venti asprissimi, entrò per la porta di San Felice in Bologna; avendo seco [mille trecento] lancie, seimila fanti tedeschi i quali tutti aveva collocati nell'antiguardia, e [otto] mila tra franzesi e italiani. Entrato Fois in Bologna, trattò di assaltare la mattina seguente il campo degli inimici, uscendo fuora i soldati per tre porte e il popolo per la via del monte; i quali arebbe trovati senza pensiero alcuno della venuta sua, della quale è manifesto che i capitani non ebbono, né quel dí né per la maggiore parte del dí prossimo, notizia: ma Ivo di Allegri consigliò che per uno dí ancora riposasse la gente, stracca per la difficoltà del cammino; non pensando, né egli né alcuno altro, potere essere che senza saputa loro fusse entrato, di dí e per la strada romana, uno esercito sí grande in una città alla quale erano accampati. La quale ignoranza continuava medesimamente insino all'altro dí se per sorte non fusse stato preso uno stradiotto greco, uscito insieme con altri cavalli a scaramucciare; il quale, dimandato quel che si facesse in Bologna, rispose che da sé ne riceverebbono piccolo lume, perché vi era venuto il dí dinanzi con l'esercito franzese: sopra le quali parole interrogato con maraviglia grande diligentemente da' capitani, e trovatolo costante nelle risposte, prestandogli fede, deliberorno levare il campo; giudicando che, per essere vessati i soldati dalla asprezza della stagione e per la vicinità della città nella quale era entrato uno tale esercito, fusse pericoloso il soprastarvi. Però la notte seguente, che fu il decimonono dí dal dí che si erano accampati, fatte ritirare tacitamente l'artiglierie, l'esercito a grande ora si mosse verso Imola, camminando per le spianate per le quali era venuto, che mettevano in mezzo la strada maestra e l'artiglierie: e avendo posto nel retroguardo il fiore dell'esercito si discostorno sicuramente, perché non uscirno di Bologna altri che alcuni cavalli de' franzesi; i quali, avendo saccheggiata parte delle munizioni delle vettovaglie, e perciò essendosi cominciati a disordinare, furono, né senza danno, rimessi dentro da Malatesta Baglione, il quale andava nell'ultima parte dell'esercito. X I veneziani prendono Brescia e Bergamo; subita partenza del Fois per affrontare i nemici. Vittoria del Fois alla torre del Magnanino. Presa e saccheggio di Brescia. Levato il campo, Fois, lasciati alla custodia di Bologna trecento lancie e quattromila fanti, partí subito per andare con grandissima celerità a soccorrere il castello di Brescia; perché la città era, il giorno precedente a quello nel quale entrò in Bologna, pervenuta in potestà de' viniziani. Perché Andrea Gritti, per comandamento del senato, stimolato dal conte Luigi Avogaro gentiluomo bresciano e dagli uomini quasi di tutto il paese, e dalla speranza che dentro si facesse movimento per lui, avendo con trecento uomini d'arme mille trecento cavalli leggieri e tremila fanti passato il fiume dell'Adice ad Alberé, luogo propinquo a Lignago, e guadato dipoi il fiume del Mincio al mulino della Volta tra Goito e Valeggio; e successivamente venuto a Montechiaro, si era fermato la notte a Castagnetolo villa distante cinque miglia da Brescia, donde fece subito correre i cavalli leggieri insino alle porte; e nel tempo medesimo, risonando per tutto il paese il nome di san Marco, il conte Luigi si accostò alla porta con ottocento uomini delle valli Eutropia e Sabia, le quali aveva sollevate, avendo mandato dalla altra parte della città insino alle porte il figliuolo con altri fanti. Ma Andrea Gritti, non ricevendo gli avvisi che aspettava da quelli di dentro né gli essendo fatto alcuno de' segni convenuti, anzi intendendo la città essere per tutto diligentemente custodita, giudicò non doversi procedere piú oltre; nel qual movimento il figliuolo Avogaro, assaltato da quegli di dentro, rimase prigione. Ritirossi il Gritti appresso a Montagnana onde prima era partito, lasciato sufficiente presidio al ponte fatto in sullo Adice. Ma di nuovo chiamato pochi dí poi ripassò l'Adice, con due cannoni e quattro falconi, e si fermò a Castagnetolo; essendosi nel tempo medesimo approssimato a un miglio a Brescia il conte Luigi, con numero grandissimo d'uomini di quelle valli. E con tutto che dalla città non si sentisse cosa alcuna favorevole, il Gritti, invitato dal concorso maggiore che l'altra volta, deliberò tentare la forza: però accostatosi con tutti i paesani si cominciò da tre parti a dare l'assalto; il quale, tentato infelicemente alla porta della Torre, succedette prosperamente alla porta delle Pile ove combatteva l'Avogaro, e alla porta della Garzula, ove i soldati, guidati da Baldassarre di Scipione, entrorno (secondo che alcuni dicono) per la ferrata per la quale il fiume, che ha il medesimo nome, entra nella città; invano resistendo i franzesi. I quali, veduto gli inimici entrare nella città e che in favore loro si movevano i bresciani, i quali prima, proibiti da loro di prendere l'armi, erano stati quieti, si ritirorno, insieme con monsignore di Luda governatore, nella fortezza; perduti i cavalli e i carriaggi: nel qual tumulto quella parte che si dice la cittadella, separata dal resto della città, abitazione di quasi tutti i ghibellini, fu saccheggiata, riservate le case de' guelfi. L'acquisto di Brescia seguitò subito la dedizione di Bergamo, che eccetto le due castella, l'uno posto in mezzo la città l'altro distante un mezzo miglio, si arrendé per opera d'alcuni cittadini; e il medesimo feciono Orcivecchi, Orcinuovi, Pontevico e molte altre terre circostanti: e si sarebbe forse fatto maggiore progresso o almeno confermata meglio la vittoria se a Vinegia, ove fu letizia incredibile, fusse stata tanta sollecitudine a mandare soldati e artiglierie (le quali erano necessarie per l'espugnazione del castello, che non era molto potente a resistere) quanta fu nel creare e mandare i magistrati che avessino a reggere la città recuperata. La quale negligenza fu tanto piú dannosa quanto fu maggiore la diligenza e la celerità di Fois: il quale avendo passato il fiume del Po alla Stellata, dal qual luogo mandò alla guardia di Ferrara cento cinquanta lancie e cinquecento fanti franzesi, passò il Mincio per Pontemulino; avendo, quasi nel tempo medesimo che passava, mandato a dimandare la facoltà del passare al marchese di Mantova, o per non lasciare luogo con la dimanda improvisa a' consigli suoi o perché tanto piú tardasse a andare la notizia della venuta sua alle genti viniziane. Di quivi alloggiò il dí seguente a Nugara in veronese e l'altro dí a Pontepesere e a Treville tre miglia appresso alla Scala, ove avendo avuto notizia che Giampaolo Baglione (il quale aveva fatta la scorta ad alcune genti e artiglierie de' viniziani andate a Brescia) era con [tre]cento uomini d'arme [quattrocento] cavalli leggieri e mille dugento fanti da Castelfranco venuto ad alloggiare alla Isola della Scala, corse subito per assaltarlo con trecento lancie e settecento arcieri, seguitandolo il resto dell'esercito perché non poteva pareggiare tanta prestezza: ma trovato che già era partito un'ora innanzi, si messe a seguitarlo con la medesima celerità. Aveva Giampagolo saputo che Bernardino dal Montone, sotto la cui custodia era il ponte fatto ad Alberé, sentito l'approssimarsi de' franzesi l'aveva dissoluto, per timore di non essere rinchiuso da loro e da' tedeschi che erano in Verona; ove Cesare, alleggerito dalla custodia del Friuli perché, da Gradisca in fuora, tutto era ritornato in potestà de' viniziani, aveva poco innanzi mandato tremila fanti i quali prima aveva in quella regione. Però Giampaolo sarebbe andato a Brescia se non gli fusse stato mostrato che poco sotto Verona si poteva guadare il fiume, ove andando per passare scoperse da lungi Fois; e pensando non potesse essere altro che la gente di Verona, perché la prestezza di Fois, incredibile, aveva avanzato la fama, rimessi i suoi in battaglia, l'aspettò con forte animo alla torre del Magnanino, propinqua all'Adice e poco distante dalla torre della Scala. Fu molto feroce da ciascuna delle parti lo incontro delle lancie, e si combatté poi valorosamente con l'altre armi per piú d'una ora; ma peggioravano continuamente le condizioni de' marcheschi perché tuttavia sopravenivano i soldati dell'esercito rimasto indietro, e nondimeno urtati, ritornorno piú volte negli ordini loro: finalmente, non potendo piú resistere al numero maggiore, rotti si messono in fuga; seguitati dagli inimici, già cominciando la notte, insino al fiume; il quale fu da Giampaolo passato a salvamento, ma v'annegorno molti de' suoi. Furno de' viniziani parte morti parte presi circa novanta uomini d'arme, tra' quali rimasono prigioni Guido Rangone e Baldassarre Signorello da Perugia, dissipati tutti i fanti e perduti due falconetti che soli aveano con loro; né quasi sanguinosa la vittoria per i franzesi. Riscontrorno il dí seguente Meleagro da Furlí con alcuni cavalli leggieri de' viniziani, i quali facilmente furno messi in fuga, rimanendo Meleagro prigione; né perdendo una ora sola di tempo, il nono dí poi che erano partiti da Bologna, alloggiò Fois con l'antiguardia nel borgo di Brescia, lontano due balestrate dalla porta di Torre Lunga; il rimanente dell'esercito piú indietro, lungo la strada che conduce a Peschiera. Alloggiato, subitamente, non dando spazio alcuno a se medesimo a respirare, mandò una parte de' fanti ad assaltare il monasterio di San Fridiano, posto a mezzo il monte, sotto il quale era l'alloggiamento suo, guardato da molti villani di Valditrompia; i quali fanti, salito il monte da piú parti, favorendogli ancora una pioggia grande che impedí non si tirassino l'artiglierie piantate nel monasterio, gli roppono e ne ammazzorno una parte. Il dí seguente, avendo mandato un trombetto nella città a dimandare gli fusse data la terra, salve le robe e le persone di tutti eccetto che de' viniziani, ed essendogli stato risposto in presenza di Andrea Gritti ferocemente, girato l'esercito all'altra parte della città per essere propinquo al castello, alloggiò nel borgo della porta che si dice di San Gianni; donde la mattina seguente, quando cominciava ad apparire il dí, eletti di tutto l'esercito piú di quattrocento uomini d'arme armati tutti d'armi bianche e seimila fanti parte guasconi e parte tedeschi, egli con tutti a piede, salendo dalla parte di verso la porta delle Pile, entrò, non si opponendo alcuno, nel primo procinto del castello: dove riposatigli e rinfrescatigli alquanto, gli confortò con brevi parole che scendessino animosamente in quella ricchissima e opulentissima città, ove la gloria e la preda sarebbe senza comparazione molto maggiore che la fatica e il pericolo, avendo a combattere co' soldati viniziani manifestamente inferiori di numero e di virtú, perché della moltitudine del popolo inesperta alla guerra, e che già pensava piú alla fuga che alla battaglia, non era da tenere conto alcuno; anzi si poteva sperare che cominciandosi per la viltà a disordinare sarebbono cagione che tutti gli altri si mettessino in disordine: supplicandogli in ultimo che, avendogli scelti per i piú valorosi di cosí fiorito esercito, non facessino vergogna a se stessi né al giudicio suo; e che considerassino quanto sarebbono infami e disonorati se, facendo professione di entrare per forza nelle città inimiche contro a' soldati contro all'artiglierie contro alle muraglie e contro a' ripari, non ottenessino al presente, avendo l'entrata sí patente né altra opposizione che d'uomini soli. Dette [queste] parole, cominciò, precedendo i fanti agli uomini d'arme, a uscire del castello; all'uscita del quale avendo trovati alcuni fanti che con artiglierie tentorno di impedirgli l'andare innanzi, ma avendogli fatti facilmente ritirare, scese ferocemente per la costa in sulla piazza del palagio del capitano detto il Burletto, nel quale luogo le genti viniziane, ristrette insieme, ferocemente l'aspettavano: ove venuti alle mani, fu per lungo spazio molto feroce e spaventosa la battaglia, combattendo l'una delle parti per la propria salute l'altra non solo per la gloria ma eziandio per la cupidità di saccheggiare una città piena di tante ricchezze, né meno ferocemente i capitani che i soldati privati; tra' quali appariva molto illustre la virtú e la fierezza di Fois. Finalmente furno cacciati dalla piazza i soldati viniziani, avendo fatto maravigliosa difesa. Entrorno dipoi i vincitori divisi in due parti, l'una per la città l'altra per la cittadella; a' quali quasi in su ogni cantone e in su ogni contrada era fatta egregia resistenza da' soldati e dal popolo, ma sempre vittoriosi spuntorno gli inimici per tutto; non mai attendendo a rubare insino non occuporno tutta la terra; cosí aveva, innanzi scendessino, comandato il capitano; anzi se niuno preteriva quest'ordine era subitamente ammazzato da gli altri. Morirono in queste battaglie dalla parte de' franzesi molti fanti né pochi uomini d'arme ma degli inimici circa ottomila uomini, parte del popolo parte de' soldati viniziani, che erano [cinquecento] uomini d'arme [ottocento] cavalli leggieri e [ottomila] fanti; e tra questi Federigo Contareno proveditore degli stradiotti, il quale combattendo in sulla piazza fu morto di uno colpo di scoppietto: tutti gli altri furno presi, eccetto dugento stradiotti i quali fuggirono per un piccolo portello che è alla porta di San Nazzaro, ma con fortuna poco migliore perché, riscontrando in quella parte de' franzesi che era rimasta fuora della terra, furno quasi tutti o morti o presi. I quali entrati poi dentro senza fatica, per la medesima porta, cominciorno essi ancora, godendo le fatiche e i pericoli degli altri, a saccheggiare. Rimasono prigioni Andrea Gritti e Antonio Giustiniano mandato dal senato per podestà di quella città, Giampaolo Manfrone e il figliuolo, il cavaliere della Golpe, Baldassarre di Scipione, uno figliuolo di Antonio de' Pii, il conte Luigi Avogaro e un altro figliuolo, Domenico Busicchio capitano di stradiotti. Fu nel saccheggiare salvato, per comandamento di Fois, l'onestà de' monasteri delle donne, ma la roba e gli uomini rifuggitivi furno preda de' capitani. Fu il conte Luigi in sulla piazza publica decapitato, saziando Fois gli occhi propri del suo supplicio; i due figliuoli, benché allora si differisse il supplicio, patirono non molto poi la pena medesima. Cosí per le mani de' franzesi, da' quali si gloriavano i bresciani essere discesi, cadde in tanto sterminio quella città, non inferiore di nobiltà e di degnità ad alcuna altra di Lombardia, ma di ricchezze, eccettuato Milano, superiore a tutte l'altre; la quale, essendo in preda le cose sacre e le profane, né meno la vita e l'onore delle persone che la roba, stette sette dí continui esposta alla avarizia alla libidine e alla licenza militare. Fu celebrato per queste cose per tutta la cristianità con somma gloria il nome di Fois, che con la ferocia e celerità sua avesse, in tempo di quindici dí, costretto l'esercito ecclesiastico e spagnuolo a partirsi dalle mura di Bologna, rotto alla campagna Giampaolo Baglione con parte delle genti de' viniziani, recuperata Brescia con tanta strage de' soldati e del popolo; di maniera che per universale giudicio si confermava, non avere, già parecchi secoli, veduta Italia nelle opere militari una cosa simigliante. XI Per ordine del re, il Fois s'accinge ad affrontare l'esercito de' collegati. Alleanza fra il pontefice e il re d'Inghilterra. Lamentele di Massimiliano riguardo al re di Francia. Timori del re per gli svizzeri. Nessuna speranza del re nella concordia. I fiorentini assolti dalle censure dal pontefice. Ordine del re al Fois di marciare, ove sconfigga i nemici, su Roma con un legato del concilio pisano. Recuperata Brescia e l'altre terre perdute, delle quali Bergamo, ribellatasi per opera di pochi, aveva, innanzi che Fois entrasse in Brescia, richiamati popolarmente i franzesi, Fois, poiché ebbe dato forma alle cose e riposato e riordinato l'esercito, stracco per sí lunghi e gravi travagli e disordinato parte nel conservare parte nel dispensare la preda fatta, deliberò, per comandamento ricevuto dal re, di andare contro all'esercito de' collegati; il quale partendosi dalle mura di Bologna si era fermato nel bolognese: astringendo il re a questo molti urgentissimi accidenti, i quali lo necessitavano a prendere nuovi consigli per la salute delle cose sue. Cominciava già manifestamente ad apparire la guerra del re di Inghilterra: perché se bene quel re l'aveva prima con aperte parole negato e poi con dubbie dissimulato, nondimeno non si potevano piú coprire i fatti molto diversi. Perché da Roma si intendeva essere venuto, con lungo circuito marittimo, essere finalmente arrivato lo instrumento della ratificazione alla lega fatta; sapevasi che in Inghilterra si preparavano genti e navili e in Ispagna navi per passare in Inghilterra, ed essere gli animi di tutti i popoli accesi a muovere la guerra in Francia; e opportunamente era sopravenuta la galeazza del pontefice carica di vini grechi, di formaggi e di sommate, i quali, donati in suo nome al re e a molti signori e prelati, erano ricevuti da tutti con festa maravigliosa; e concorreva tutta la plebe (la quale spesso non meno muovono le cose vane che le gravi) con somma dilettazione a vederla, gloriandosi che mai piú si fusse veduto in quella isola legno alcuno con le bandiere pontificali. Finalmente avendo il vescovo di Moravia, che aveva tanto trattato tra il pontefice e il re di Francia, mosso o dalla coscienza o dal desiderio che aveva del cardinalato, riferito, in uno parlamento convocato di tutta l'isola, molto favorevolmente e con ampia testimonianza della giustizia del pontefice, fu nel parlamento deliberato che si mandassino i prelati in nome del regno al concilio lateranense; e il re, facendone instanza gli imbasciadori del papa, comandò all'oratore del re di Francia che si partisse, perché non era conveniente che appresso a un re e in un reame divotissimo della Chiesa fusse veduto chi rappresentava uno re che tanto apertamente la sedia apostolica perseguitava: e già penetrava il secreto essere occultamente convenuto che il re di Inghilterra molestasse con l'armata marittima la costa di Normandia e di Brettagna, e che mandasse in Spagna ottomila fanti, per muovere, unitamente coll'armi del re d'Aragona, la guerra nel ducato di Ghienna. Il quale sospetto affliggeva maravigliosamente il re di Francia: perché essendo, per la memoria delle antiche guerre, spaventoso a' popoli suoi il nome degli inghilesi, conosceva il pericolo maggiore essendo congiunte con loro l'armi spagnuole; e tanto piú avendo, da dugento lancie in fuora, mandate tutte le genti d'arme in Italia, le quali richiamando, o tutte o parte, rimaneva in manifesto pericolo il ducato tanto amato da lui di Milano. E se bene, per non rimanere tanto sproveduto, accrescesse all'ordinanza vecchia ottocento lancie, nondimeno, che confidenza poteva avere, in tanti pericoli, negli uomini inesperti che di nuovo venivano alla milizia? Aggiugnevasi il sospetto, che ogni dí piú cresceva, della alienazione di Cesare; perché era ritornato Andrea di Burgus, stato espedito con tanta espettazione, il quale con tutto che riferisse Cesare essere disposto a perseverare nella confederazione, nondimeno proponeva molto dure condizioni mescolandovi varie querele. Perché dimandava di essere assicurato che gli fusse ricuperato quello che gli apparteneva per i capitoli di Cambrai, affermando non potersi piú fidare delle semplici promesse, per avere, e da principio e poi sempre, conosciuto essere molesto al re che egli acquistasse Padova; e che per consumarlo e tenerlo in continui travagli aveva speso volentieri ogni anno dugentomila ducati, sapendo che a lui premeva piú lo spenderne cinquantamila: avere recusato l'anno passato concedergli la persona del Triulzio, perché era capitano, e per volontà e per scienza militare, da terminare presto la guerra: dimandava che la figliuola seconda del re, minore di due anni, si sposasse al nipote, assegnandogli in dote la Borgogna, e che la figlia gli fusse consegnata di presente; e che nella determinazione sua rimettessino le cause di Ferrara di Bologna e del concilio; contradicendo che l'esercito franzese andasse verso Roma, e protestando non essere per comportare che il re accrescesse in parte alcuna in Italia lo stato suo. Le quali condizioni gravissime, e quasi intollerabili per se stesse, faceva molto piú gravi il conoscere non potere stare sicuro che, concedutegli tante cose, non variasse poi, o secondo l'occasioni o secondo la sua consuetudine. Anzi, la iniquità delle condizioni proposte faceva quasi manifesto argomento che, già deliberato di alienarsi dal re di Francia, cercasse occasione di metterlo a effetto con qualche colore, massime che non solo nelle parole ma eziandio nelle opere si scorgevano molti segni di cattivo animo; perché né col Burgus erano venuti i procuratori tante volte promessi per andare al concilio pisano, anzi la congregazione de' prelati fatta in Augusta avea finalmente risposto, con publico decreto, il concilio pisano essere scismatico e detestabile: benché con questa moderazione essere apparecchiati a mutare sentenza se in contrario fussino dimostrate piú efficaci ragioni. E nondimeno il re, nel tempo che piú gli sarebbe bisognato unire le forze sue, era necessitato tenere a requisizione di Cesare [dugento] lancie e tremila fanti in Verona e mille alla custodia di Lignago. Tormentava oltre a questo molto l'animo del re il timore de' svizzeri; perché, con tutto che avesse ottenuto di mandare alle diete loro il baglí d'Amiens al quale aveva dato amplissime commissioni, risoluto con prudente consiglio (se prudenti si possono chiamare quelle deliberazioni che si fanno passata già l'opportunità del giovare) di spendere qualunque quantità di danari per ridurgli alla sua amicizia, nondimeno, prevalendo l'odio ardentissimo della plebe e le persuasioni efficaci del cardinale sedunense alla autorità di quegli che avevano, di dieta in dieta, impedito che non si facesse deliberazione contraria a lui, si sentiva erano inclinati a concedere semila fanti agli stipendi de' confederati, i quali gli dimandavano per potergli opporre agli squadroni ordinati e stabili de' fanti tedeschi. Trovavasi inoltre il re privato interamente delle speranze della corcordia; la quale, benché nel fervore dell'armi, non avevano mai omesso di trattare il cardinale di Nantes e il cardinale di Strigonia, prelato potentissimo del reame dell'Ungheria: perché il pontefice aveva ultimatamente risposto, procurassino, se volevano gli udisse piú, che prima fusse annullato il conciliabolo pisano, e che alla Chiesa fussino rendute le città sue, Bologna e Ferrara; né mostrando ne' fatti minore asprezza, aveva di nuovo privato molti de' prelati franzesi intervenuti a quello concilio, e Filippo Decio uno de' piú eccellenti giurisconsulti di quella età, perché aveva scritto e disputato per la giustizia di quella causa, e seguitava i cardinali per indirizzare le cose che s'avevano a spedire giuridicamente. Né aveva il re, nelle difficoltà e pericoli che se gli mostravano da tanti luoghi, piede alcuno fermo o certo in parte alcuna di Italia: perché gli stati di Ferrara e di Bologna gli erano stati ed erano di molestia e di spesa, e da' fiorentini, co' quali faceva nuova instanza che in compagnia sua rompessino la guerra in Romagna, non poteva trarre altro che risposte generali; anzi aveva dell'animo loro qualche sospetto, perché in Firenze risedeva continuamente uno oratore del viceré di Napoli, e molto piú per avere mandato l'oratore al re cattolico, e perché non comunicavano piú seco le cose loro come solevano, e molto piú perché avendogli ricercati che prorogassino la lega che finiva fra pochi mesi, senza dimandare danari o altre gravi obligazioni, andavano differendo, per essere liberi a pigliare i partiti che a quel tempo fussino giudicati migliori. La quale disposizione volendo augumentare il pontefice, né dare causa che la troppa asprezza sua gli inducesse a seguitare coll'armi la fortuna del re di Francia, concedette loro, senza che in nome publico la dimandassino, l'assoluzione dalle censure; e mandò nunzio a Firenze con umane commissioni Giovanni Gozzadini bolognese uno de' cherici della camera apostolica, sforzandosi d'alleggerire il sospetto che aveano conceputo di lui. Vedendosi adunque il re solo contro a tanti, o dichiaratisegli inimici o che erano per dichiararsi, né conoscendo potere se non molto difficilmente resistere se in uno tempo medesimo concorressino tante molestie, comandò a Fois che con quanta piú celerità potesse andasse contro all'esercito degli inimici, de' quali per essere riputati manco potenti dell'esercito suo si prometteva la vittoria; e che vincendo, assaltasse senza rispetto Roma e il pontefice, il che quando succedesse gli pareva rimanere liberato da tanti pericoli; e che questa impresa, acciò che si diminuisse l'invidia e augumentassinsi le giustificazioni, si facesse in nome del concilio pisano, il quale deputasse un legato che andasse nell'esercito, [e] ricevesse in suo nome le terre che si acquistassino. XII Le forze del Fois, suo desiderio di affrontare i nemici, e ritirata di questi. Il re di Francia ordina di affrettare l'azione, per la tregua conclusa fra Massimiliano e i veneziani. Presa e sacco di Russi. L'esercito francese sotto Ravenna. Vano assalto alla città difesa da Marcantonio Colonna. Mossosi adunque Fois da Brescia, venne al Finale, ove poiché per alcuni dí fu soggiornato per fare massa di vettovaglie le quali si conducevano di Lombardia, e per raccorre tutte le genti che il re aveva in Italia, eccetto quelle che per necessità rimanevano alla guardia delle terre, impedito ancora da' tempi molto piovosi, venne a San Giorgio nel bolognese: nel quale luogo gli sopravennono, mandati di nuovo di Francia, tremila fanti guasconi mille venturieri e mille piccardi, eletti fanti e appresso a franzesi di nome grande: di maniera che in tutto, secondo il numero vero, erano seco cinquemila fanti tedeschi cinquemila guasconi e ottomila parte italiani parte del reame di Francia, e mille secento lancie, computando in questo numero i dugento gentiluomini. A questo esercito si doveva congiugnere il duca di Ferrara, con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e con apparato copioso di ottime artiglierie: perché Fois, impedito a condurre le sue per terra dalla difficoltà delle strade, l'aveva lasciate al Finale. Veniva medesimamente nell'esercito il cardinale di San Severino, diputato legato di Bologna dal concilio, cardinale feroce e piú inclinato all'armi che agli esercizi o pensieri sacerdotali. Ordinate in questo modo le cose si indirizzò contro agli inimici, ardente di desiderio di combattere cosí per i comandamenti del re, che ogni dí piú lo stimolava, come per la ferocia naturale del suo spirito e per la cupidità della gloria, accesa piú per la felicità de' successi passati; non perciò traportato tanto da questo ardore che avesse nell'animo di assaltargli temerariamente, ma appropinquandosi a' loro alloggiamenti tentare se spontaneamente venissino alla battaglia in luogo dove la qualità del sito non facesse inferiori le sue condizioni, o veramente, con impedire le vettovaglie, ridurgli a necessità di combattere. Ma molto differente era la intenzione degli inimici; nell'esercito de' quali, poi che sotto scusa di certa quistione se ne era partita la compagnia del duca di Urbino, essendo, secondo si diceva, mille quattrocento uomini d'arme mille cavalli leggieri e settemila fanti spagnuoli e tremila italiani soldati nuovamente, e riputandosi che i franzesi oltre all'eccedergli di numero avessino piú valorosa cavalleria, non pareva loro sicuro il combattere in luogo pari, almeno insino a tanto non sopravenissino seimila svizzeri, i quali avendo di nuovo consentito i cantoni di concedere, si trattava a Vinegia (dove per questo erano andati il cardinale sedunense e dodici imbasciadori di quella nazione) di soldargli a spese comuni del pontefice e de' viniziani. Aggiugnevasi la volontà del re d'Aragona, il quale per lettere e per uomini propri aveva comandato che, quanto fusse in potestà loro, s'astenessino dal combattere; perché, sperando principalmente in quello di che il re di Francia temeva principalmente, cioè che, differendosi insino a tanto che dal re di Inghilterra e da lui si cominciasse la guerra in Francia, sarebbe quel re necessitato a richiamare o tutte o la maggiore parte delle genti di là da' monti, e conseguentemente si vincerebbe la guerra in Italia senza sangue e senza pericolo: per la quale ragione arebbe, insino da principio, se non l'avessino commosso la instanza e le querele gravi del pontefice, proibito che si tentasse la espugnazione di Bologna. Dunque, il viceré di Napoli e gli altri capitani aveano deliberato di alloggiare sempre propinqui allo esercito franzese, perché non gli rimanesse in preda le città di Romagna e aperto il cammino di andare a Roma, ma porsi continuamente in luoghi sí forti, o per i siti o per avere qualche terra grossa alle spalle, che i franzesi non potessino assaltargli senza grandissimo disavvantaggio; e perciò non tenere conto né fare difficoltà di ritirarsi tante volte quante fusse di bisogno, giudicando, come uomini militari, non doversi attendere alle dimostrazioni e romori ma principalmente a ottenere la vittoria, dietro alla quale séguita la riputazione la gloria e le laudi degli uomini: per la quale deliberazione, il dí che l'esercito franzese alloggiò a Castelguelfo e a Medicina, essi che erano alloggiati appresso a detti luoghi si ritirorono alle mura d'Imola. Passorno il dí seguente i franzesi un miglio e mezzo appresso a Imola, stando gli inimici in ordinanza nel luogo loro; ma non volendo assaltargli con tanto disavvantaggio, passati piú innanzi, alloggiò l'avanguardia a Bubano castello distante da Imola quattro miglia, l'altre parti dell'esercito a Mordano e Bagnara terre vicine l'una all'altra poco piú di uno miglio, eleggendo di alloggiare sotto la strada maestra per la comodità delle vettovaglie; le quali si conducevano dal fiume del Po sicuramente, perché Lugo, Bagnacavallo e le terre circostanti, abbandonate dagli spagnuoli come Fois entrò nel bolognese, erano ritornate alla divozione del duca di Ferrara. Andorno l'altro giorno gli spagnuoli a Castel Bolognese, lasciato nella rocca di Imola presidio sufficiente e nella terra sessanta uomini d'arme sotto Giovanni Sassatello, alloggiando in sulla strada maestra e distendendosi verso il monte; e il dí medesimo i franzesi presono per forza il castello di Solarolo, e si arrenderono loro Cotignola e Granarolo, ove stettono il dí seguente, e gli inimici si fermorno nel luogo detto il Campo alle Mosche. Nelle quali piccole mutazioni e luoghi tanto vicini procedeva l'uno e l'altro esercito in ordinanza, con l'artiglieria innanzi e con la faccia volta agli inimici, come se a ogni ora dovesse cominciare la battaglia; e nondimeno, procedendo amendue con grandissima circospezione e ordine: l'uno per non si lasciare stringere a fare giornata se non in luogo dove il vantaggio del sito ricompensasse il disavvantaggio del numero e delle forze; l'altro per condurre in necessità di combattere gli inimici, ma in modo che in uno tempo medesimo non avessino la repugnanza dell'armi e del sito. Ebbe Fois in questo alloggiamento nuove commissioni dal re che accelerasse il fare la giornata, augumentando le medesime cagioni che l'aveano indotto a fare il primo comandamento. Perché avendo i viniziani, benché indeboliti per il caso di Brescia, e astretti prima da' prieghi e poi da' protesti e minaccie del pontefice e del re d'Aragona, recusato pertinacemente la pace con Cesare se non si consentiva che ritenessino Vicenza, si era finalmente fatta tregua tra loro per otto mesi, innanzi al pontefice, con patto che ciascuno ritenesse quello possedeva e che pagassino a Cesare cinquantamila fiorini di Reno: onde non dubitando piú il re della sua alienazione, fu nel tempo medesimo certificato d'avere a ricevere la guerra di là da' monti. Perché Ieronimo Cabaviglia, oratore del re d'Aragona appresso a lui, fatta instanza di parlargli, presente il consiglio, aveva significato avere comandamento dal suo re di partirsi, e confortatolo in nome suo che desistesse dal favorire contro alla Chiesa i tiranni di Bologna, e da turbare per una causa sí ingiusta una pace di tanta importanza e tanto utile alla republica cristiana: offerendo, se per la restituzione di Bologna temeva di ricevere qualche danno, di assicurarlo con tutti i modi i quali esso medesimo desiderasse; e in ultimo soggiugnendo che non poteva mancare, come era debito di ciascuno principe cristiano, alla difesa della Chiesa. Perciò Fois, già certo non essere a proposito l'accostarsi agli inimici, perché, per la comodità che avevano delle terre di Romagna, non si potevano se non con molta difficoltà interrompere loro le vettovaglie, né sforzargli, senza disavvantaggio grande, alla giornata, indotto anche perché ne' luoghi dove era l'esercito suo pativa di vettovaglie, deliberò con consiglio de' suoi capitani di andare a campo a Ravenna; sperando che gli inimici, per non diminuire tanto di riputazione, non volessino lasciare perdere in su gli occhi loro una città tale, e cosí avere occasione di combattere in luogo eguale: e per impedire che l'esercito inimico, presentendo questo, non si accostasse a Ravenna si pose tra Cotignuola e Granarolo, lontano sette miglia da loro; dove stette fermo quattro dí, aspettando da Ferrara dodici cannoni e dodici pezzi minori d'artiglieria. La deliberazione del quale congetturando gli inimici mandorno a Ravenna Marcantonio Colonna, il quale innanzi consentisse d'andarvi bisognò che il legato, il viceré, Fabrizio, Pietro Navarra e tutti gli altri capitani gli obligassino ciascuno la fede sua di andare con tutto l'esercito, se i franzesi vi s'accampavano, a soccorrerlo; e con Marcantonio andorno sessanta uomini d'arme della sua compagnia, Pietro da Castro con cento cavalli leggieri, e Sallazart e Parades con secento fanti spagnuoli; il resto dello esercito si fermò alle mura di Faenza, dalla porta per la quale si va a Ravenna. Ove mentre stavano feciono con gli inimici una grossa scaramuccia: e in questo tempo Fois mandò cento lancie e mille cinquecento fanti a pigliare il castello di Russi, guardato solamente dagli uomini propri; i quali benché da principio, secondo l'uso della moltitudine, dimostrassino audacia, nondimeno, succedendo quasi subito in luogo di quella il timore, cominciorno il dí medesimo a trattare di arrendersi: per i quali ragionamenti i franzesi, vedendo allentata la diligenza del guardare, entrativi impetuosamente messono la terra a sacco; nella quale ammazzorno piú di dugento uomini, gli altri feciono prigioni. Da Russi si accostò Fois a Ravenna, e il dí seguente alloggiò appresso alle mura, tra i due fiumi in mezzo de' quali, è situata quella città. Nascono ne' monti Apennini, ove partono la Romagna dalla Toscana, il fiume del Ronco detto dagli antichi Vitis, e il fiume del Montone, celebrato perché, eccettuato il Po, è il primo, de' fiumi che nascono dalla costa sinistra dello Apennino, che entri in mare per proprio corso: questi, mettendo in mezzo la città di Furlí, il Montone dalla mano sinistra quasi congiunto alle mura, il Ronco dalla destra ma distante circa due miglia, si ristringono in sí breve spazio presso a Ravenna che l'uno dall'una parte l'altro dall'altra passano congiunti alle sue mura; sotto le quali mescolate insieme l'acque entrano nel mare, lontano ora tre miglia ma che già, come è fama, bagnava le mura. Occupava lo spazio tra l'uno e l'altro di questi due fiumi l'esercito di Fois, avendo la fronte del campo a porta Adriana quasi contigua alla ripa del Montone. Piantorono la notte prossima l'artiglierie, parte contro alla torre detta Rancona situata tra la porta Adriana e il Ronco, parte di là dal Montone, dove per uno ponte gittato in sul fiume era passata una parte dello esercito: accelerando quanto potevano il battere per prevenire a dare la battaglia innanzi che gli inimici, i quali sapevano già essere mossi, si accostassino; né meno perché erano ridotti in grandissima difficoltà di vettovaglie, atteso che le genti viniziane, che si erano fermate a Ficheruolo, con legni armati impedivano quelle che si conducevano di Lombardia, e avendo affondate certe barche alla bocca del canale che entra in Po dodici miglia appresso a Ravenna e si conduce a due miglia presso a Ravenna, impedivano l'entrarvi quelle che venivano da Ferrara in su legni ferraresi, le quali condurre per terra in su le carra era difficile e pericoloso. Era oltre a questo molto incomodo e con pericolo l'andare a saccomanno, perché erano necessitati discostarsi sette o otto miglia dal campo. Dalle quali cagioni astretto Fois deliberò dare il dí medesimo la battaglia, ancora che conoscesse che era molto difficile l'entrarvi, perché del muro battuto non era rovinata piú che la lunghezza di trenta braccia né per quello si poteva entrare se non con le scale, conciossiaché fusse rimasta l'altezza da terra poco meno di tre braccia: le quali difficoltà per superare con la virtú e con l'ordine, e per accendergli con l'emulazione tra loro medesimi, partí in tre squadroni distinti l'uno dall'altro i fanti tedeschi italiani e franzesi, ed eletti di ciascuna compagnia di gente d'arme dieci de' piú valorosi, impose loro che coperti dalle medesime armi colle quali combattono a cavallo andassino a piede innanzi a' fanti; i quali accostatisi al muro dettono l'assalto molto terribile, difendendosi egregiamente quegli di dentro, con laude grande di Marcantonio Colonna, il quale non perdonando né a fatica né a pericolo soccorreva ora qua ora là secondo che piú era di bisogno. Finalmente i franzesi, perduta la speranza di spuntare gli inimici, e percossi con grave danno per fianco da una colubrina piantata in su uno bastione, avendo combattuto per spazio di tre ore, si ritirorno agli alloggiamenti, perduti circa trecento fanti e alcuni uomini d'arme e feritine quantità non minore, e tra gli altri Ciattiglione e Spinosa capitano dell'artiglierie, i quali percossi dall'artiglierie di dentro pochi dí poi morirono. Fu ancora ferito Federigo da Bozzole ma leggiermente. XIII L'esercito dei collegati si stanzia a tre miglia da Ravenna; deliberazione del Fois di assaltarlo. Ordine dell'esercito francese e parole del Fois ai soldati. Ordine dell'esercito dei collegati. La battaglia di Ravenna. Le perdite de' due eserciti. Sacco di Ravenna, l'esercito francese dopo la morte del Fois. Convertironsi dipoi il dí seguente i pensieri dal combattere le mura al combattere con gli inimici; i quali, alla mossa dello esercito franzese, volendo osservare la fede data a Marcantonio, entrati a Furlí, tra i fiumi medesimi e dopo alquante miglia passato il fiume del Ronco, venivano verso Ravenna. Nel quale tempo i cittadini della terra, impauriti per la battaglia data il dí precedente, mandorono senza saputa di Marcantonio uno di loro a trattare di arrendersi. Il quale mentre va innanzi e indietro con le risposte, ecco scoprirsi l'esercito inimico che camminava lungo il fiume. Alla vista del quale si levò subito con grandissimo romore in armi l'esercito franzese, armati tutti entrorno ne' loro squadroni, levoronsi tumultuosamente dalle mura l'artiglierie e levate si voltorno verso gli inimici; consultando intrattanto Fois con gli altri capitani se fusse da passare all'ora medesima il fiume per opporsi che non entrassino in Ravenna: il che o non arebbono deliberato di fare, o almeno era impossibile coll'ordine conveniente e con la prestezza necessaria; dove a loro fu facile l'entrare quel giorno in Ravenna, per il bosco della Pigneta che è tra 'l mare e la città: la qual cosa costrigneva i franzesi a partirsi, per la penuria delle vettovaglie, disonoratamente della Romagna. Ma essi, o non conoscendo l'occasione e temendo di non essere sforzati, mentre camminavano, a combattere in campagna aperta, o giudicando per l'approssimarsi loro essere abbastanza soccorsa Ravenna, perché Fois non ardirebbe piú di darvi la battaglia, si fermorno contro all'espettazione di tutti appresso a tre miglia a Ravenna, dove si dice il Mulinaccio, e fermati attesono, tutto il rimanente di quel dí e la notte seguente, a fare lavorare un fosso, tanto largo e tanto profondo quanto patí la brevità del tempo, innanzi alla fronte del loro alloggiamento. Nel qual tempo si consigliava, non senza diversità di pareri, tra' capitani franzesi. Perché dare di nuovo l'assalto alla città era giudicato di molto pericolo, avendo innanzi a sé poca apertura del muro e alle spalle gli inimici; inutile il soprasedere, senza speranza di fare piú effetto alcuno, anzi impossibile per la carestia delle vettovaglie; e il ritirarsi rendere agli spagnuoli maggiore riputazione di quella che essi col farsi innanzi avevano i dí precedenti guadagnata: pericolosissimo, e contro alle deliberazioni sempre fatte, l'assaltargli nel loro alloggiamento, il quale si pensava avessino fortificato; e tra tutti i pericoli doversi piú fuggire quello dal quale ne potevano succedere maggiori mali, né potersi disordine o male alcuno pareggiare all'essere rotti. Nelle quali difficoltà fu alla fine deliberato, confortando massimamente Fois questa deliberazione come cosa piú gloriosa e piú sicura, andare, come prima apparisse il dí, ad assaltare gli inimici: secondo la quale deliberazione, gittato la notte il ponte in sul Ronco e spianati, per facilitare il passare, gli argini delle ripe da ogni parte, la mattina all'aurora che fu l'undecimo dí d'aprile, dí solennissimo per la memoria della santissima Resurrezione, passorno per il ponte i fanti tedeschi, ma quasi tutti quegli della avanguardia e della battaglia passorno a guazzo il fiume; il retroguardo guidato da Ivo di Allegri, nel quale erano quattrocento lancie, rimase in sulla riva del fiume verso Ravenna, perché secondo il bisogno potesse soccorrere all'esercito e opporsi se i soldati o il popolo uscissino di Ravenna; e alla guardia del ponte, gittato prima in sul Montone, fu lasciato Paris Scoto con mille fanti. Preparoronsi con questo ordine i franzesi alla battaglia. L'avanguardia con l'artiglierie innanzi, guidata dal duca di Ferrara, e ove era anche il [generale] di Normandia con settecento lancie e co' fanti tedeschi, fu collocata in sulla riva del fiume che era loro a mano destra, stando i fanti alla sinistra della cavalleria. Allato all'antiguardia, pure per fianco, furno posti i fanti della battaglia, ottomila, parte guasconi parte piccardi; e dipoi, allargandosi pure sempre tanto piú dalla riva del fiume, fu posto l'ultimo squadrone de' fanti italiani guidati da Federico da Bozzole e da... degli Scotti, nel quale non erano piú che cinquemila fanti, perché con tutto che Fois, passando innanzi a Bologna, avesse raccolti quelli che vi erano a guardia, molti si erano fuggiti per la strettezza de' pagamenti; e allato a questo squadrone, tutti gli arcieri e cavalli leggieri che passavano il numero di tremila. Dietro a tutti questi squadroni, i quali non distendendosi per linea retta ma piegandosi facevano quasi forma di mezza luna, dietro a tutti, in sulla riva del fiume erano collocate le secento lancie della battaglia, guidate dal la Palissa e insieme dal cardinale di San Severino legato del concilio, il quale grandissimo di corpo e di vasto animo, coperto dal capo insino a' piedi d'armi lucentissime, faceva molto piú l'ufficio del capitano che di cardinale o di legato. Non si riservò Fois luogo o cura alcuna particolare, ma eletti di tutto l'esercito trenta valorosissimi gentiluomini volle essere libero a provedere e soccorrere per tutto, facendolo manifestamente riconoscere dagli altri lo splendore e la bellezza dell'armi e la sopravesta, e allegrissimo nel volto, con gli occhi pieni di vigore e quasi per la letizia sfavillanti. Come l'esercito fu ordinato, salito in su l'argine del fiume, con facondia (cosí divulgò la fama) piú che militare, parlò accendendo gli animi dello esercito in questo modo: - Quello che, soldati miei, noi abbiamo tanto desiderato, di potere nel campo aperto combattere con gli inimici, ecco che, questo dí, la fortuna stataci in tante vittorie benigna madre ci ha largamente conceduto, dandoci l'occasione d'acquistare con infinita gloria la piú magnifica vittoria che mai alla memoria degli uomini acquistasse esercito alcuno: perché non solo Ravenna non solo tutte le terre di Romagna resteranno esposte alla vostra discrezione ma saranno parte minima de' premi del vostro valore; conciossiaché, non rimanendo piú in Italia chi possa opporsi all'armi vostre, scorreremo senza resistenza alcuna insino a Roma; ove le ricchezze smisurate di quella scelerata corte, estratte per tanti secoli dalle viscere de' cristiani, saranno saccheggiate da voi: tanti ornamenti superbissimi tanti argenti tanto oro tante gioie tanti ricchissimi prigioni che tutto il mondo arà invidia alla sorte vostra. Da Roma, colla medesima facilità, correremo insino a Napoli, vendicandoci di tante ingiurie ricevute. La quale felicità io non so immaginarmi cosa alcuna che sia per impedircela, quando io considero la vostra virtú la vostra fortuna l'onorate vittorie che avete avute in pochi dí, quando io riguardo i volti vostri, quando io mi ricordo che pochissimi sono di voi che innanzi agli occhi miei non abbino con qualche egregio fatto data testimonianza del suo valore. Sono gli inimici nostri quegli medesimi spagnuoli che per la giunta nostra si fuggirono vituperosamente di notte da Bologna; sono quegli medesimi che, pochi dí sono, non altrimenti che col fuggirsi alle mura d'Imola e di Faenza o ne' luoghi montuosi e difficili, si salvorono da noi. Non combatté mai questa nazione nel regno di Napoli con gli eserciti nostri in luogo aperto ed eguale ma con vantaggio sempre o di ripari o di fiumi o di fossi, non confidatisi mai nella virtú ma nella fraude e nelle insidie. Benché, questi non sono quegli spagnuoli inveterati nelle guerre napoletane ma gente nuova e inesperta, e che non combatté mai contro ad altre armi che contro agli archi e le freccie e le lancie spuntate de' mori; e nondimeno rotti con tanta infamia, da quella gente debole di corpo timida d'animo disarmata e ignara di tutte l'arti della guerra, l'anno passato, all'Isola delle Gerbe; dove fuggendo questo medesimo Pietro Navarra, capitano appresso a loro di tanta fama, fu esempio memorabile a tutto il mondo che differenza sia a fare battere le mura con l'impeto della polvere e con le cave fatte nascosamente sotto terra a combattere con la vera animosità e fortezza. Stanno ora rinchiusi dietro a uno fosso fatto con grandissima paura questa notte, coperti i fanti dall'argine e confidatisi nelle carrette armate come se la battaglia si avesse a fare con questi instrumenti puerili e non con la virtú dell'animo e con la forza de' petti e delle braccia. Caverannogli, prestatemi fede, di queste loro caverne le nostre artiglierie, condurrannogli alla campagna scoperta e piana: dove apparirà quello che l'impeto franzese la ferocia tedesca e la generosità degli italiani vaglia piú che l'astuzia e gli inganni spagnuoli. Non può cosa alcuna diminuire la gloria nostra se non l'essere noi tanto superiori di numero, e quasi il doppio di loro; e nondimeno, l'usare questo vantaggio, poiché ce lo ha dato la fortuna, non sarà attribuito a viltà nostra ma a imprudenza e temerità loro: i quali non conduce a combattere il cuore o la virtú ma l'autorità di Fabbrizio Colonna, per le promesse fatte inconsideratamente a Marcantonio; anzi la giustizia divina, per castigare con giustissime pene la superbia ed enormi vizi di Giulio falso pontefice, e tante fraudi e tradimenti usati alla bontà del nostro re dal perfido re di Aragona. Ma perché mi distendo io piú in parole? perché con superflui conforti, appresso a soldati di tanta virtú, differisco io tanto la vittoria quanto di tempo si consuma a parlare con voi? Fatevi innanzi valorosamente secondo l'ordine dato, certi che questo dí darà al mio re la signoria a voi le ricchezze di tutta Italia. Io vostro capitano sarò sempre in ogni luogo con voi ed esporrò, come sono solito, la vita mia a ogni pericolo; felicissimo piú che mai fusse alcuno capitano poi che ho a fare, con la vittoria di questo dí, piú gloriosi e piú ricchi i miei soldati che mai, da trecento anni in qua, fussino soldati o esercito alcuno. - Da queste parole, risonando l'aria di suoni di trombe e di tamburi e di allegrissimi gridi di tutto l'esercito, cominciorono a muoversi verso lo alloggiamento degli inimici, distante dal luogo dove avevano passato il fiume manco di due miglia: i quali, alloggiati distesi in su la riva del fiume che era loro da mano sinistra, e fatto innanzi a sé uno fosso tanto profondo quanto la brevità del tempo aveva permesso (che girando da mano destra cigneva tutto lo alloggiamento), lasciato aperto per potere uscire co' cavalli a scaramucciare in su la fronte del fosso uno spazio di venti braccia, dentro al quale alloggiamento, come sentirno i franzesi cominciare a passare il fiume, si erano messi in battaglia con questo ordine: l'avanguardia di ottocento uomini d'arme, guidata da Fabrizio Colonna, collocata lungo la riva del fiume, e congiunto a quella a mano destra uno squadrone di seimila fanti: dietro all'avanguardia, pure lungo il fiume, era la battaglia di secento lancie, e allato uno squadrone di quattromila fanti, condotta dal viceré, e con lui il marchese della Palude; e in questa veniva il cardinale de' Medici, privo per natura in gran parte del lume degli occhi, mansueto di costumi e in abito di pace, e nelle dimostrazioni e negli effetti molto dissimile al cardinale di San Severino. Seguitava dietro alla battaglia, pure in su la riva del fiume, il retroguardo di quattrocento uomini d'arme condotto da Carvagial capitano spagnuolo, con lo squadrone allato di quattromila fanti; e i cavalli leggieri, de' quali era capitano generale Fernando Davalo marchese di Pescara, ancora giovanetto ma di rarissima espettazione, erano posti a mano destra alle spalle de' fanti per soccorrere quella parte che inclinasse: l'artiglierie erano poste alla testa delle genti d'arme; e Pietro Navarra, che con cinquecento fanti eletti non si era obligato a luogo alcuno, aveva in sul fosso alla fronte della fanteria collocato trenta carrette che avevano similitudine de' carri falcati degli antichi, cariche di artiglierie minute, con uno spiede lunghissimo sopra esse per sostenere piú facilmente l'assalto de' franzesi. Col quale ordine stavano fermi dentro alla fortezza del fosso, aspettando che l'esercito inimico venisse ad assaltargli: la quale deliberazione come non riuscí utile nella fine apparí similmente molto nociva nel principio. Perché era stato consiglio di Fabrizio Colonna che si percotesse negli inimici quando cominciorno a passare il fiume, giudicando maggiore vantaggio il combattere con una parte sola che quello che dava loro l'avere fatto innanzi a sé uno piccolo fosso; ma contradicendo Pietro Navarra, i cui consigli erano accettati quasi come oracoli dal viceré, fu deliberato, poco prudentemente, lasciargli passare. Però, fattisi innanzi i franzesi e già vicini circa dugento braccia al fosso, come veddeno stare fermi gli inimici né volere uscire dello alloggiamento si fermorono, per non dare quello vantaggio che essi cercavano d'avere. Cosí stette immobile l'uno esercito e l'altro per spazio di piú di due ore; tirando in questo tempo da ogni parte infiniti colpi d'artiglierie, dalle quali pativano non poco i fanti de' franzesi per avere il Navarra piantato l'artiglieria in luogo che molto gli offendeva. Ma il duca di Ferrara, tirata dietro all'esercito una parte dell'artiglierie, le condusse con celerità grande alla punta de' franzesi, nel luogo proprio dove erano collocati gli arcieri: la quale punta, per avere l'esercito forma curva, era quasi alle spalle degli inimici: donde cominciò a battergli per fianco ferocemente, e con grandissimo danno, massime della cavalleria, perché i fanti spagnuoli, ritirati dal Navarra in luogo basso accanto all'argine del fiume e gittatisi per suo comandamento distesi in terra, non potevano essere percossi. Gridava con alta voce Fabbrizio, e con spessissime imbasciate importunava il viceré, che senza aspettare di essere consumati da' colpi delle artiglierie si uscisse alla battaglia; ma ripugnava il Navarra, mosso da perversa ambizione, perché presupponendosi dovere per la virtú de' fanti spagnuoli rimanere vittorioso, quando bene fussino periti tutti gli altri, riputava tanto augumentarsi la gloria sua quanto piú cresceva il danno dell'esercito. Ma era già tale il danno che nella gente d'arme e ne' cavalli leggieri faceva l'artiglieria che piú non si poteva sostenere; e si vedevano, con miserabile spettacolo mescolato con gridi orribili, ora cadere per terra morti i soldati e i cavalli ora balzare per aria le teste e le braccia spiccate dal resto del corpo. Però Fabrizio, esclamando: - abbiamo noi tutti vituperosamente a morire per la ostinazione e per la malignità di uno marrano? ha a essere distrutto tutto questo esercito senza che facciamo morire uno solo degli inimici? dove sono le nostre tante vittorie contro a' franzesi? ha l'onore di Spagna e di Italia a perdersi per uno Navarro? - spinse fuora del fosso la sua gente d'arme, senza aspettare o licenza o comandamento del viceré: dietro al quale seguitando tutta la cavalleria, fu costretto Pietro Navarra dare il segno a' suoi fanti; i quali, rizzatisi con ferocia grande, si attaccorono co' fanti tedeschi che già s'erano approssimati a loro. Cosí mescolate tutte le squadre cominciò una grandissima battaglia, e senza dubbio delle maggiori che per molti anni avesse veduto Italia: perché e la giornata del Taro era stata poco altro piú che uno gagliardo scontro di lancie, e i fatti d'arme del regno di Napoli furono piú presto disordini o temerità che battaglie, e nella Ghiaradadda non aveva dell'esercito de' viniziani combattuto altro che la minore parte; ma qui, mescolati tutti nella battaglia, che si faceva in campagna piana senza impedimento di acque o ripari, combattevano due eserciti d'animo ostinato alla vittoria o alla morte, infiammati non solo dal pericolo dalla gloria e dalla speranza ma ancora da odio di nazione contro a nazione. E fu memorabile spettacolo che, nello scontrarsi i fanti tedeschi con gli spagnuoli, messisi innanzi agli squadroni due capitani molto pregiati, Iacopo Empser tedesco e Zamudio spagnuolo, combatterono quasi per provocazione; dove ammazzato lo inimico restò lo spagnuolo vincitore. Non era, per l'ordinario, pari la cavalleria dell'esercito della lega alla cavalleria de' franzesi, e l'avevano il dí conquassata e lacerata in modo l'artiglierie che era diventata molto inferiore: però, poi che ebbe sostentato per alquanto spazio di tempo piú col valore del cuore che colle forze l'impeto degli inimici, e sopravenendo addosso a loro per fianco Ivo d'Allegri col retroguardo e co' mille fanti lasciati al Montone, chiamato dal la Palissa, e preso già da' soldati del duca di Ferrara Fabbrizio Colonna mentre che valorosamente combatteva, non potendo piú resistere voltò le spalle; aiutata anche dall'esempio de' capitani, perché il viceré e Carvagial, non fatta l'ultima esperienza della virtú de' suoi, si messono in fuga conducendone quasi intero il terzo squadrone; e con loro fuggí Antonio De Leva, uomo allora di piccola condizione ma che poi, esercitato per molti anni in tutti i gradi della milizia, diventò chiarissimo capitano. Erano già stati rotti tutti i cavalli leggieri e preso il marchese di Pescara loro capitano, pieno di sangue e di ferite; preso il marchese della Palude, il quale per uno campo pieno di fosse e di pruni aveva condotto alla battaglia con disordine grande il secondo squadrone; coperto il terreno di cavalli e d'uomini morti; e nondimeno la fanteria spagnuola, abbandonata da' cavalli, combatteva con incredibile ferocia; e se bene nel primo scontro co' fanti tedeschi era stata alquanto urtata dall'ordinanza ferma delle picche, accostatasi poi a loro alla lunghezza delle spade, e molti degli spagnuoli coperti dagli scudi entrati co' pugnali tra le gambe de' tedeschi, erano con grandissima uccisione pervenuti già quasi a mezzo lo squadrone. Presso a' quali i fanti guasconi, occupata la via tra il fiume e l'argine, avevano assaltato i fanti italiani; i quali, benché avessino patito molto dall'artiglieria, nondimeno gli rimettevano con somma laude se con una compagnia di cavalli non fusse entrato tra loro Ivo d'Allegri: con maggiore virtú che fortuna, perché essendogli quasi subito ucciso innanzi agli occhi propri Viverroé, suo figliuolo, egli non volendo sopravivere a tanto dolore, gittatosi col cavallo nella turba piú stretta degli inimici, combattendo come si conveniva a fortissimo capitano e avendone già morti di loro, fu ammazzato. Piegavano i fanti italiani non potendo resistere a tanta moltitudine, ma una parte de' fanti spagnuoli, corsa al soccorso loro, gli fermò nella battaglia; e i fanti tedeschi, oppressi dall'altra parte degli spagnuoli, a fatica potevano piú resistere: ma essendo già fuggita tutta la cavalleria, si voltò loro addosso Fois con grande moltitudine di cavalli; per il che gli spagnuoli, piú tosto ritraendosi che scacciati dalla battaglia, non perturbati in parte alcuna gli ordini loro, entrati in su la via che è tra il fiume e l'argine, camminando di passo e con la fronte stretta, e però per la fortezza di quella ributtando i franzesi, cominciorono a discostarsi. Nel qual tempo il Navarra, desideroso piú di morire che di salvarsi e però non si partendo dalla battaglia, rimase prigione. Ma non potendo comportare Fois che quella fanteria spagnuola se ne andasse, quasi come vincitrice, salva nell'ordinanza sua, e conoscendo non essere perfetta la vittoria se questi come gli altri non si rompevano, andò furiosamente ad assaltargli con una squadra di cavalli, percotendo negli ultimi; da' quali attorniato e gittato da cavallo o, come alcuni dicono, essendogli caduto mentre combatteva il cavallo addosso, ferito d'una lancia in uno fianco fu ammazzato: e se, come si crede, è desiderabile il morire a chi è nel colmo della maggiore prosperità, morte certo felicissima, morendo acquistata già sí gloriosa vittoria. Morí di età molto giovane, e con fama singolare per tutto il mondo, avendo in manco di tre mesi, e prima quasi capitano che soldato, con incredibile celerità e ferocia ottenuto tante vittorie. Rimase in terra appresso a lui con venti ferite Lautrech, quasi per morto; che poi, condotto a Ferrara, per la diligente cura de' medici salvò la vita. Per la morte di Fois furno lasciati andare senza molestia alcuna i fanti spagnuoli: il rimanente dell'esercito era già dissipato e messo in fuga, presi i carriaggi, prese le bandiere e l'artiglierie, preso il legato del pontefice, il quale dalle mani degli stradiotti venuto in potestà di Federico da Bozzole fu da lui presentato al legato del concilio; presi Fabrizio Colonna Pietro Navarra il marchese della Palude quello di Bitonto il marchese di Pescara e molti altri signori e baroni e onorati gentiluomini spagnuoli e del regno di Napoli. Niuna cosa è piú incerta che il numero de' morti nelle battaglie; nondimeno, nella varietà di molti, si afferma piú comunemente che trall'uno esercito e l'altro morirno almeno diecimila uomini, il terzo de' franzesi i due terzi degli inimici; altri dicono di molti piú, ma senza dubbio quasi tutti i piú valorosi e piú eletti, tra' quali, degli ecclesiastici, Raffaello de' Pazzi condottiere di chiaro nome; e moltissimi feriti. Ma in questa parte fu senza comparazione molto maggiore il danno del vincitore per la morte di Fois, di Ivo d'Allegri e di molti uomini della nobiltà franzese; il capitano Iacob, e piú altri valorosi capitani della fanteria tedesca, alla virtú della quale si riferiva, ma con prezzo grande del sangue loro, in non piccola parte la vittoria; molti capitani, insieme con Molard, de' guasconi e de' piccardi: le quali nazioni perderono, quel dí, appresso a' franzesi tutta la gloria loro. Ma tutto il danno trapassò la morte di Fois, col quale mancò del tutto il nervo e la ferocia di quello esercito. De' vinti che si salvorno nella battaglia fuggí la maggiore parte verso Cesena, onde fuggivano ne' luoghi piú distanti; né il viceré si fermò prima che in Ancona, ove pervenne accompagnato da pochissimi cavalli. Furonne svaligiati e morti molti nella fuga, perché e i paesani correvano per tutto alle strade, e il duca di Urbino, il quale, mandato molti dí prima Baldassarre da Castiglione al re di Francia, e avendo uomini propri appresso a Fois, si credeva che occultamente avesse convenuto contro al zio, non solo suscitò contro a quegli che fuggivano gli uomini del paese ma mandò soldati a fare il medesimo nel territorio di Pesero: sole quelle che fuggirono per le terre de' fiorentini, per comandamento degli ufficiali, e poi della republica, passorno illese. Ritornato l'esercito vincitore agli alloggiamenti, i ravennati mandorno subito ad arrendersi: ma, o mentre che convengono o che già convenuto attendono a ordinare vettovaglie per mandarle nel campo, intermessa la diligenza del guardare le mura, i fanti tedeschi e guasconi, entrati per la rottura del muro battuto nella terra, crudelissimamente la saccheggiorno; accendendogli a maggiore crudeltà, oltre all'odio naturale contro al nome italiano, lo sdegno del danno ricevuto nella giornata. Lasciò, il quarto dí poi, Marcantonio Colonna la cittadella nella quale si era rifuggito, salve le persone e la roba; ma promettendo all'incontro insieme con gli altri capitani, di non prendere piú arme né contro al re di Francia né contro al concilio pisano insino alla festività prossima di Maria Maddalena: né molti dí poi, 'l vescovo Vitello preposto con cento cinquanta fanti alla rocca, concedutagli la medesima facoltà, consentí di darla. Seguitorno la fortuna della vittoria le città di Imola di Furlí di Cesena e di Rimini, e tutte le rocche della Romagna, eccetto quelle di Furlí e di Imola: le quali tutte furno ricevute dal legato in nome del concilio pisano. Ma l'esercito franzese, rimasto per la morte di Fois e per tanto danno ricevuto come attonito, dimorava oziosamente quattro miglia appresso a Ravenna; e incerti il legato e la Palissa (ne' quali era pervenuto il governo, perché Alfonso da Esti se ne era già ritornato a Ferrara) quale fusse la volontà del re, aspettavano le sue commissioni, non essendo anche appresso a' soldati di tanta autorità che fusse bastante a fare muovere l'esercito, implicato nel dispensare o mandare in luoghi sicuri le robe saccheggiate, e indeboliti tanto di forze e di animo per la vittoria acquistata con tanto sangue che parevano piú simili a vinti che vincitori; onde tutti i soldati con lamenti e con lacrime chiamavano il nome di Fois; il quale, non impediti né spaventati da cosa alcuna, arebbono seguitato per tutto. Né si dubitava che, tirato dallo impeto della sua ferocia e dalle promesse fattegli, secondo si diceva, dal re, che a lui si acquistasse il reame di Napoli, sarebbe, subito dopo la vittoria, con la consueta celerità corso a Roma, e che il pontefice e gli altri, non avendo alcuna altra speranza di salvarsi, si sarebbeno precipitosamente messi in fuga. XIV I cardinali premono sul pontefice per indurlo alla pace; per la deliberazione contraria insistono gli ambasciatori del re d'Aragona e de' veneziani; incertezza del pontefice piú propenso alla guerra che alla pace. Fuggevoli speranze di pace. Il pontefice incoraggiato dall'allontanarsi della minaccia francese. Si apre il concilio lateranense. Pervenne la nuova della rotta a Roma il terzodecimo dí di aprile; portata da Ottaviano Fregoso che corse co' cavalli delle poste da Fossombrone, e sentita con grandissima paura e tumulto da tutta la corte. Però i cardinali, concorsi subitamente al pontefice, lo strignevano con sommi prieghi che, accettando la pace la quale non diffidavano potersi ottenere assai onesta dal re di Francia, si disponesse a liberare oramai la sedia apostolica e la persona sua da tanti pericoli: avere affaticato assai per la esaltazione della Chiesa e per la libertà d'Italia, e acquistato gloria anche della sua santa intenzione; essergli stata, in cosí pietosa impresa, avversa, come si era veduto per tanti segni, la volontà di Dio, alla quale volersi opporre non essere altro che mettere tutta la Chiesa in ultima ruina: appartenere piú a Dio che a lui la cura della sua sposa; però rimettessesene alla volontà sua e, abbracciando la pace secondo il precetto dello evangelio, traesse di tanti affanni la sua vecchiezza, lo stato della Chiesa e tutta la sua corte, che non bramava né gridava altro che pace: essere da credere che già i vincitori si fussino mossi per venire a Roma, co' quali sarebbe congiunto il suo nipote; congiugnerebbonsi medesimamente Ruberto Orsino Pompeio Colonna Antimo Savello Pietro Margano e Renzo Mancino (questi si sapeva che, ricevuti danari dal re di Francia, si preparavano, insino innanzi alla giornata, per molestare Roma): a' quali pericoli che altro rimedio essere che la pace? Da altra parte, gli imbasciadori del re d'Aragona e del senato viniziano facevano in contrario gravissima instanza, sforzandosi persuadergli non essere le cose tanto afflitte né ridotte in tanto esterminio, né cosí dissipato l'esercito che non si potesse in brevissimo tempo né con grave spesa riordinare: sapersi pure, il viceré essersi salvato con la maggiore parte de' cavalli; essersi partita dal fatto d'arme ristretta insieme in ordinanza la fanteria spagnuola, la quale se fusse salva, come era verisimile, ogni altra perdita essere di piccolo momento; né aversi da temere che i franzesi potessino venire verso Roma cosí presto che non avesse tempo a provedersi, perché era necessario che alla morte del capitano fussino accompagnati molti disordini e molti danni, ed essere per tenergli sospesi il sospetto de' svizzeri, i quali non essere piú da dubitare che si dichiarerebbono per la lega e scenderebbono in Lombardia; né si potere sperare di ottenere la pace dal re di Francia se non con condizioni ingiustissime e piene di infamia, e aversi a ricevere anche le leggi dalla superbia di Bernardino Carvagial e dalla insolenza di Federigo da San Severino: però, ogn'altra cosa essere migliore che con tanta indignità e con tanta infamia mettersi, sotto nome di pace, in acerbissima e infedelissima servitú, perché non cesserebbeno mai quegli scismatici di perseguitare la degnità e la vita sua; essere molto minore male, quando pure non si potesse fare altrimenti, abbandonare Roma e ridursi con tutta la corte o nel reame di Napoli o a Vinegia, dove starebbe con la medesima sicurtà e onore e con la medesima grandezza; perché con la perdita di Roma non si perdeva il pontificato, annesso sempre in qualunque luogo alla persona del pontefice: ritenesse pure la solita costanza e magnanimità; perché Dio, scrutatore de' cuori degli uomini, non mancherebbe d'aiutare il santissimo proposito suo né abbandonerebbe la navicella di Pietro, solita a essere vessata dalle onde del mare ma non giammai a sommergersi; e i príncipi cristiani, concitati dal zelo della religione e dal timore della troppa grandezza del re di Francia, piglierebbeno con tutte le forze e con le persone proprie la sua difesa. Le quali cose udiva il pontefice con somma ambiguità e sospensione, e in modo che si potesse facilmente comprendere, combattere in lui da una parte l'odio lo sdegno e la pertinacia insolita a essere vinta o a piegarsi, dall'altra il pericolo e il timore; e si comprendeva anche, per le risposte faceva agl'imbasciadori, non gli essere tanto molesto lo abbandonare Roma quanto il non potere ridursi in luogo alcuno dove non fusse in potestà d'altri: però rispondeva a' cardinali volere la pace, consentendo si ricercassino i fiorentini che se ne interponessino col re di Francia, e nondimeno non ne rispondeva con tale risoluzione né con parole tanto aperte che facessino piena fede della sua intenzione; aveva fatto venire da Civitavecchia il Biascia genovese, capitano delle sue galee, onde si interpetrava che e' pensasse a partirsi da Roma, e poco di poi l'aveva licenziato; ragionava di soldare quegli baroni romani che non erano nella congiura con gli altri, udiva volentieri i conforti de' due imbasciadori ma rispondendo il piú delle volte parole contumeliose e piene di sdegno. Nel qual tempo sopravenne Giulio de' Medici cavaliere di Rodi, che fu poi pontefice, il quale il cardinale Medici, ottenuta licenza dal cardinale Sanseverino, mandava dall'esercito, in nome per raccomandarsegli in tanta calamità ma in fatto per riferirgli lo stato delle cose: da cui avendo inteso pienamente quanto fussino indeboliti i Franzesi, di quanti capitani fussino privati, quanto valorosa gente avessino perduta, quanti fussino quegli che per molti dí erano inutili per le ferite, guasti infiniti cavalli, dissipata parte dello esercito in vari luoghi per il sacco di Ravenna, i capitani sospesi e incerti della volontà del re, né molto concordi tra loro perché la Palissa recusava di comportare la insolenza di San Severino che voleva fare l'officio di legato e di capitano, sentirsi occulti mormorii della venuta de' svizzeri né vedersi segno alcuno che quello esercito fusse per muoversi presto, dalla quale relazione confortato molto il pontefice, introdottolo nel concistorio gli fece riferire a' cardinali le cose medesime. E si aggiunse che il duca d'Urbino, quel che lo movesse, mutato consiglio, gli mandò a offerire dugento uomini d'arme e quattromila fanti. Perseveravano nondimeno i cardinali a stimolarlo alla pace: dalla quale benché con le parole non si dimostrasse alieno, aveva nondimeno nell'[animo di non l']accettare se non per ultimo e disperato rimedio; anzi, quando bene al male presente non si dimostrasse medicina presente, aderiva piú tosto al fuggire di Roma, pure che non rimanesse al tutto disperato che e dall'armi de' príncipi avesse a essere aiutata la causa sua e specialmente che i svizzeri si movessino; i quali, dimostrandosi inclinati a' suoi desideri, aveano molti dí innanzi vietato agli imbasciadori del re di Francia di andare al luogo nel quale, per determinare sopra le dimande del pontefice, convenivano i deputati da tutti i cantoni. Lampeggiò in questo stato alcuna speranza della pace. Perché il re di Francia, innanzi si facesse la giornata, commosso da tanti pericoli che gli soprastavano da tante parti e sdegnato dalla varietà di Cesare e dalle dure leggi gli proponeva, e perciò finalmente deliberato di cedere piú tosto in molte cose alla volontà del pontefice, aveva occultamente mandato Fabrizio Carretta fratello del cardinale del Finale a' cardinali di Nantes e di Strigonia, che mai del tutto avevano abbandonati i ragionamenti della concordia, proponendo essere contento che Bologna si rendesse al pontefice, che Alfonso da Esti gli desse Lugo e tutte l'altre terre teneva nella Romagna, obligassesi al censo antico e che piú non si facessino sali nelle sue terre, e che si estinguesse il concilio pisano; non dimandando dal pontefice altro che la pace solamente con lui, che Alfonso da Esti fusse assoluto dalle censure e reintegrato nelle antiche ragioni e privilegi suoi, che a' Bentivogli, i quali stessino in esilio, fussino riservati i beni propri, e restituiti alle degnità i cardinali e prelati che aveano aderito al concilio: le quali condizioni, benché i due cardinali temessino che essendo di poi succeduta la vittoria non fussino piú consentite dal re, né ardirono proporle in altra maniera, né egli, essendo tanto onorate per lui, né volendo ancora manifestare quella occulta deliberazione che aveva nell'animo, potette recusarle; anzi forse giudicò essere piú utile ingegnarsi di fermare con questi ragionamenti l'armi del re, per avere maggiore spazio di tempo a vedere i progressi di coloro ne' quali si collocavano le reliquie delle speranze sue. Però, facendo del medesimo instanza tutti i cardinali, sottoscrisse, il nono dí dalla giornata, questi capitoli, aggiugnendo a' cardinali la fede di accettargli se il re gli confermava; e al cardinale del Finale, che dimorava in Francia, ma assente, per non offendere il pontefice, dalla corte, e al vescovo di Tivoli, il quale teneva in Avignone il luogo del legato, commesse per lettere si trasferissino al re per trattare queste cose; ma non espedí loro né mandato né possanza di conchiuderle. Insino a questo termine procedettono i mali del pontefice, insino a questo dí fu il colmo delle sue calamità e de' suoi pericoli: ma dopo quel dí cominciorno a dimostrarsi continuamente le speranze maggiori, e a volgersi alla grandezza sua, senza alcuno freno, la ruota della fortuna. Dette principio a tanta mutazione la partita subita del la Palissa di Romagna; il quale, richiamato dal generale di Normandia per il romore che cresceva della venuta de' svizzeri, si mosse coll'esercito verso il ducato di Milano, lasciati in Romagna, sotto il legato del concilio, trecento lancie trecento cavalli leggieri e seimila fanti con otto pezzi grossi di artiglieria: e rendeva maggiore il timore che s'aveva de' svizzeri che il medesimo generale, pensando piú a farsi grato al re che a fargli beneficio, aveva, contro a quel che ricercavano le cose presenti, licenziati imprudentemente, subito che fu acquistata la vittoria, i fanti italiani e una parte de' franzesi. La partita del la Palissa assicurò il pontefice da quel timore che piú gli premeva, confermollo nella pertinacia e gli dette facilità di fermare le cose di Roma; per le quali aveva soldati alcuni baroni di Roma con trecento uomini d'arme, e trattava di fare capitano generale Prospero Colonna: perché, indeboliti gli animi di chi tentava cose nuove, Pompeio Colonna che si preparava a Montefortino consentí, interponendosene Prospero, di diporre, per sicurtà del pontefice, in mano di Marcantonio Colonna Montefortino, ritenendosi bruttamente i danari avuti dal re di Francia; onde e Ruberto Orsino, che prima era venuto da Pitigliano nelle terre de' Colonnesi per muovere l'armi, ritenendosi medesimamente i danari avuti dal re, concordò poco poi per mezzo di Giulio Orsino, ricevuto dal pontefice in premio della sua perfidia l'arcivescovado di Reggio nella Calavria. Solo Pietro Margano si vergognò di ritenere i danari pervenuti a lui: con consiglio migliore e piú fortunato, perché, non molto tempo di poi, preso nella guerra dal successore del presente re, arebbe col supplicio debito pagata la pena della fraude. Dalle quali cose confermato molto l'animo del pontefice, poi che cessava il timore presente degli inimici forestieri e de' domestici, dette il terzo dí di maggio, con grandissima solennità, principio al concilio nella chiesa di San Giovanni in Laterano, già certo che non solo vi concorrerebbe la maggiore parte di Italia, ma la Spagna l'Inghilterra e l'Ungheria. Al quale principio intervenne egli personalmente in abito pontificale, accompagnato dal collegio de' cardinali e da moltitudine grande di vescovi; ove celebrata, oltre a molte altre preci, secondo il costume antico, la messa dello Spirito santo, ed esortati con una publica orazione i Padri a intendere con tutto il cuore al bene publico e alla degnità della cristiana religione, fu dichiarato, per fare fondamento all'altre cose che in futuro s'aveano a statuire, il concilio congregato essere vero, legittimo e santo concilio, e in quello risedere indubitatamente tutta l'autorità e potestà della Chiesa universale: cerimonie bellissime e santissime, e da penetrare insino nelle viscere de' cuori degli uomini, se tali si credesse che fussino i pensieri e i fini degli autori di queste cose quali suonano le parole. XV Il re di Francia sempre piú disposto alla pace col pontefice. Il pontefice continua invece ad ostacolarla. Ossequi al cardinale de' Medici prigione in Milano e legato apostolico. Il re di Francia richiama le milizie nel ducato di Milano e rinnova la confederazione co' fiorentini. Cosí, dopo la battaglia di Ravenna, procedeva il pontefice. Ma il re di Francia, con tutto che la letizia della vittoria perturbasse alquanto la morte di Fois, amatissimo da lui, comandò subito che il legato e la Palissa conducessino l'esercito quanto piú presto si poteva a Roma: nondimeno, raffreddato il primo ardore, incominciò a ritornare con tutto l'animo al desiderio della pace, parendogli che troppo grave tempesta e da troppe parti sopravenisse alle cose sue. Perché se bene Cesare continuasse nel promettere di volere stare congiunto con lui, affermando la tregua fatta co' viniziani in suo nome essere stata fatta senza suo consentimento e che non la ratificherebbe, nondimeno al re, oltre al timore della sua incostanza e il non essere certo che queste cose non fussino dette simulatamente, pareva avere, per le condizioni dimandava, compagno grave alla guerra e dannoso alla pace; perché credeva che la interposizione sua l'avesse a necessitare a consentire a piú indegne condizioni: e oltre a questo non dubitava piú i svizzeri avere a essere congiunti con gli avversari; e dal re di Inghilterra aspettava la guerra certa, perché quel re aveva mandato uno araldo a intimargli che pretendeva essere finite tutte le confederazioni e convenzioni che erano tra loro, perché in tutte si comprendeva l'eccezione: “pure che e' non facesse guerra né con la Chiesa né col re cattolico suo suocero”. Perciò il re intese con piacere grande essere stati ricercati i fiorentini che si interponessino alla pace, mandò subitamente a Firenze con amplissimo mandato il presidente di Granopoli, perché trattasse di luogo piú propinquo, e acciò che, se cosí fusse espediente, potesse andare a Roma; e dipoi intesa per la sottoscrizione de' capitoli la inclinazione, come pareva, piú pronta del pontefice, si inclinò interamente alla pace: benché temendo che per la partita dell'esercito non ritornasse alla pertinacia consueta, commesse al la Palissa, che già era pervenuto a Parma, che con parte delle genti ritornasse subito in Romagna e che spargesse voci d'avere a procedere piú oltre. Parevagli grave il concedere Bologna, non tanto per la instanza che in nome di Cesare gli era fatta in contrario quanto perché temeva che, eziandio fatta la pace, non rimanesse il medesimo animo del pontefice contro a lui; e però essergli dannoso il privarsi di Bologna, la quale difendeva come bastione e propugnacolo del ducato di Milano: e oltre a questo, essendo venuti il cardinale del Finale e il vescovo di Tivoli senza mandato a conchiudere, come circondato allora il papa da tante angustie e pericoli, pareva conveniente segno che simulatamente avesse consentito. Nondimeno, ultimatamente, deliberò accettare i capitoli predetti, con alcune limitazioni ma non tali che turbassino le cose sostanziali: con la quale risposta andò a Roma il secretario del vescovo di Tivoli, ricercando in nome [del re] che 'l pontefice o mandasse il mandato per conchiudere al vescovo predetto e al cardinale o che chiamasse da Firenze il presidente di Granopoli, il quale aveva l'autorità amplissima di fare il medesimo. Ma nel pontefice augumentavano ogni dí le speranze, e per conseguente diminuiva se inclinazione alcuna aveva avuta alla pace. Era arrivato il mandato del re di Inghilterra per il quale, spedito insino di novembre, dava facoltà al cardinale eboracense d'entrare nella lega; tardato tanto a venire per il lungo circuito marittimo, perché prima era stato in Spagna: e Cesare, di nuovo, dopo lunghe dubitazioni, aveva ratificato la tregua fatta co' viniziani, accendendolo sopra tutto a questo le speranze dategli dal re cattolico e dal re di Inghilterra sopra il ducato di Milano e la Borgogna, e mandato Alberto Pio a Vinegia. Confermorno medesimamente non mediocremente la speranza del pontefice le speranze grandissime dategli dal re di Aragona; il quale, avendo avuta la prima notizia della rotta per lettere del re di Francia scritte alla reina (per le quali gli significava, Gastone di Fois suo fratello essere morto con somma gloria in una vittoria avuta contro agli inimici), e dipoi piú partitamente per gli avvisi de' suoi medesimi, i quali per le difficoltà del mare pervenivano tardamente, e parendogli che il reame di Napoli ne rimanesse in grave pericolo, aveva deliberato di mandare in Italia con supplemento di nuove genti il gran capitano: al quale rimedio ricorreva per la scarsità degli altri rimedi, perché, benché estrinsecamente l'onorasse, gli era per le cose passate nel regno napoletano poco accetto, e per la grandezza e autorità sua sospetto. Adunque, quando al pontefice confermato da tante cose pervenne il secretario del vescovo di Tivoli co' capitoli trattati, e dandogli speranze che anche le limitazioni aggiunte dal re per moderare l'infamia dell'abbandonare la protezione di Bologna si ridurrebbono alla sua volontà, deliberato al tutto non gli accettare, ma rispetto alla sottoscrizione sua e alla fede data al collegio simulando il contrario, come contro alla fama della sua veracità usava qualche volta di fare, gli fece leggere nel concistorio, dimandando consiglio da' cardinali. Dopo le quali parole il cardinale arborense spagnuolo e il cardinale eboracense (aveano cosí prima occultamente convenuto con lui), parlando l'uno in nome del re d'Aragona l'altro in nome del re di Inghilterra, confortorno il pontefice a perseverare nella costanza, né abbandonare la causa della Chiesa che con tanta degnità aveva abbracciata, essendo già cessate le necessità che l'aveano mosso a prestare l'orecchie a questi ragionamenti, e vedendosi manifestamente che Dio, che per qualche fine incognito a noi aveva permesso che la navicella sua fusse travagliata dal mare, non voleva che la perisse; né essere conveniente né giusto fare pace per sé particolarmente e, avendo a essere comune, trattarla senza partecipazione degli altri confederati ricordandogli in ultimo che diligentemente considerasse quanto pregiudicio potesse essere alla sedia apostolica e a sé l'alienarsi dagli amici veri e fedeli per aderire agli inimici riconciliati. Da' quali consigli dimostrando il pontefice essere mosso recusò apertamente la concordia, e pochi dí poi, procedendo coll'impeto suo, pronunziò nel concistorio uno monitorio al re di Francia che rilasciasse, sotto le pene ordinate da' sacri canoni, il cardinale de' Medici: benché consentí che si soprasedesse a publicarlo, perché il collegio de' cardinali, pregandolo differisse quanto poteva i rimedi severissimi, s'offerse scrivere al re in nome di tutti, confortandolo e supplicandolo che, come principe cristianissimo, lo liberasse. Era il cardinale de' Medici stato menato a Milano, dove era onestamente custodito; e nondimeno, con tutto che fusse in potestà di altri, riluceva nella persona sua l'autorità della sedia apostolica e la riverenza della religione, e nel tempo medesimo il dispregio del concilio pisano; la causa de' quali abbandonavano, con la divozione e con la fede, non solo gli altri ma coloro ancora che l'aveano accompagnata e favorita con l'armi. Perché avendo il pontefice mandatogli facoltà di assolvere dalle censure i soldati che promettessino di non andare coll'armi piú contro alla Chiesa, e di concedere a tutti i morti, per i quali fusse dimandata, la sepoltura ecclesiastica, era incredibile il concorso e maravigliosa la divozione con la quale queste cose si dimandavano e promettevano; non contradicendo i ministri del re, ma con gravissima indegnazione de' cardinali, che innanzi agli occhi loro, nel luogo proprio ove era la sedia del concilio, i sudditi e i soldati del re, contro all'onore e utilità sua e nelle sue terre, vilipesa totalmente l'autorità del concilio, aderissino alla Chiesa romana, riconoscendo con somma riverenza il cardinale prigione come apostolico legato. Per la tregua ratificata da Cesare, ancora che gli agenti suoi che erano in Verona la negassino, revocò il re di Francia parte delle genti che aveva alla guardia di quella città come se piú non vi fussino necessarie, e perché, avendo richiamato di là da' monti per le minaccie del re di Inghilterra i dugento gentiluomini, gli arcieri della sua guardia e dugento altre lancie, conosceva, per il sospetto che augumentava de' svizzeri, avere bisogno di maggiore presidio nel ducato di Milano. E per la medesima cagione aveva astretti i fiorentini a mandargli in Lombardia trecento lancie, come per la difesa degli stati suoi di Italia erano tenuti per i patti della confederazione; la quale perché finiva fra due mesi, gli costrinse, essendo ancora fresca la riputazione della vittoria, a confederarsi di nuovo seco per cinque anni, obligandosi alla difesa dello stato loro con secento lancie, e i fiorentini promettendogli all'incontro quattrocento uomini d'arme per la difesa di tutto quello possedeva in Italia: benché, per fuggire ogni occasione di implicarsi in guerra col papa, eccettuorno dall'obligazione generale della difesa la terra di Cotignuola, come se la Chiesa vi potesse pretendere ragione. XVI Gli svizzeri, accettato il soldo del pontefice, si radunano a Coira. Le forze francesi fortemente diminuite in Italia. I fanti tedeschi per intimazione di Massimiliano abbandonano l'esercito francese. I francesi si ritirano dal ducato di Milano. Il cardinale de' Medici liberato dai paesani di Pieve del Cairo. Le città del ducato costrette a pagare taglie agli svizzeri. Mutamenti politici dopo la ritirata dei francesi. Ma già sopragiugnevano apertamente alle cose del re gravissimi pericoli; perché i svizzeri aveano finalmente deliberato di concedere seimila fanti agli stipendi del pontefice, che gli aveva dimandati sotto nome di usare l'opera loro contro a Ferrara, non avendo quegli che sostenevano le parti del re di Francia potuto ottenere altro che ritardare la deliberazione insino a quel dí. Contro a' quali con furore grande esclamava nelle diete la moltitudine, accesa di odio maraviglioso contro al nome del re di Francia: non essere bastata a quel re la ingratitudine di avere negato di accrescere piccola quantità alle pensioni di coloro con la virtú e col sangue de' quali aveva acquistata tanta riputazione e tanto stato, che oltre a questo avesse con parole contumeliosissime dispregiata la loro ignobilità, come se al principio non avessino avuta tutti gli uomini una origine e uno nascimento medesimo, e come se alcuno fusse al presente nobile e grande che in qualche tempo i suoi progenitori non fussino stati poveri ignobili e umili; avere cominciato a soldare i fanti lanzchenech per dimostrare di non gli essere necessaria piú nella guerra l'opera loro, persuadendosi che essi, privati del soldo suo, avessino oziosamente a tollerare di essere consumati dalla fame in quelle montagne: però doversi dimostrare a tutto il mondo vani essere stati i suoi pensieri false le persuasioni nociva solamente a lui la ingratitudine, né potere alcuna difficoltà ritenere gli uomini militari che non dimostrassino il suo valore, e che finalmente l'oro e i danari servivano a chi aveva il ferro e l'armi; ed essere necessario fare intendere una volta a tutto 'l mondo quanto imprudentemente discorreva chi alla nazione degli elvezi preponeva i fanti tedeschi. Traportavagli tanto questo ardore che, trattando la causa come propria, si partivano da casa ricevuto solamente uno fiorino di Reno per ciascuno; ove prima non movevano a' soldi del re se a' fanti non erano promesse molte paghe e a' capitani fatti molti doni. Congregavansi a Coira terra principale de' grigioni; i quali, confederati del re di Francia da cui ricevevano ordinariamente pensioni, aveano mandato a scusarsi che per l'antiche leghe che aveano co' cantoni piú alti de' svizzeri non potevano recusare di mandare con loro certo numero di fanti. Perturbava molto gli animi de' franzesi questo moto, le forze de' quali erano molto diminuite: perché, poi che il generale di Normandia ebbe cassati i fanti italiani, non aveano oltre a diecimila fanti; ed essendo passate di là da' monti le genti d'arme che aveva richiamate il re, non rimanevano loro in Italia piú che mille trecento lancie, delle quali trecento erano a Parma. E nondimeno il generale di Normandia, facendo piú l'ufficio di tesoriere che d'uomo di guerra, non consentiva si soldassino nuovi fanti senza la commissione del re; ma aveano fatto ritornare a Milano le genti che, per passare sotto la Palissa in Romagna, erano già pervenute al Finale, e ordinato che il cardinale di San Severino facesse il medesimo con quelle che erano in Romagna. Per la partita delle quali, Rimini e Cesena con le loro rocche e insieme Ravenna tornorono senza difficoltà all'ubbidienza del pontefice: né volendo i franzesi sprovedere il ducato di Milano, Bologna, per sostentazione della quale si erano ricevute tante molestie, rimaneva come abbandonata in pericolo. Vennono i svizzeri, come furno congregati, da Coira a Trento; avendo conceduto loro Cesare che passassino per il suo stato: il quale, ingegnandosi di coprire al re di Francia quanto poteva quel che già avea deliberato, affermava non poteva per la confederazione che avea con loro vietare il passo. Da Trento vennono nel veronese dove gli aspettava l'esercito de' viniziani, i quali concorrevano insieme col pontefice agli stipendi loro: e con tutto non vi fusse tanta quantità di danari che bastasse a pagargli tutti, perché erano, oltre al numero dimandato, piú di seimila, era tanto ardente l'odio della moltitudine contro al re di Francia che contro alla loro consuetudine tolleravano pazientemente tutte le difficoltà. Dall'altra parte, la Palissa era venuto prima coll'esercito a Pontoglio per impedire il passo, credendo volessino scendere in Italia da quella parte; dipoi, veduto altra essere la loro intenzione, si era fermato a Castiglione dello Striviere, terra vicina a sei miglia a Peschiera: incerti quali fussino i pensieri de' svizzeri, o di andare come si divulgava verso Ferrara o di assaltare il ducato di Milano. La quale incertitudine accelerò forse i mali che sopravennero, perché non si dubita che arebbono seguitato il cammino verso il ferrarese se non gli avesse fatto mutare consiglio una lettera intercetta, per mala sorte de' franzesi, dagli stradiotti de' viniziani; per la quale la Palissa, significando lo stato delle cose al generale di Normandia rimasto a Milano, dimostrava essere molto difficile il resistere loro se si volgessino a quel [cammino]: sopra la quale lettera consultato insieme il cardinale sedunense, che era venuto da Vinegia, e i capitani deliberorono, con ragione che rare volte è fallace, volgersi a quella impresa la quale comprendevano essere piú molesta agli inimici. Però andorono da Verona a Villafranca, dove si unirono con l'esercito viniziano; nel quale sotto il governo di Giampaolo Baglione erano quattrocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e seimila fanti, con molti pezzi di artiglieria atti all'espugnazione delle terre e alla campagna. Fu questo causa che la Palissa, abbandonata Valeggio perché era luogo debole, si ritirò a Gambara con intenzione di fermarsi a Pontevico; non avendo nello esercito piú che sei o settemila fanti, perché gli altri erano distribuiti tra Brescia, Peschiera e Lignago, né piú che mille lancie; perché, se bene fusse stato inclinato a richiamare le trecento che erano a Parma, l'aveva il pericolo manifestissimo di Bologna costretto, dopo grandissima instanza de' Bentivogli, a ordinare che entrassino in quella città, restata quasi senza presidio. Quivi accorgendosi tardi de' pericoli loro e della vanità delle speranze dalle quali erano stati ingannati, e sopratutto lacerando l'avarizia e i cattivi consigli del generale di Normandia, lo costrinsono a consentire che Federigo da Bozzole e certi altri capitani italiani soldassino con piú prestezza potessino seimila fanti, rimedio che non si poteva mettere in atto se non dopo il corso almeno di dieci dí. E indeboliva l'esercito franzese oltre al piccolo numero de' soldati la discordia tra i capitani, perché gli altri quasi si sdegnavano di ubbidire al la Palissa; e la gente d'arme, stracca da tante fatiche e cosí lunghi travagli, desiderava piú presto che si perdesse il ducato di Milano, per ritornarsene in Francia, che difenderlo con tanto disagio e pericolo. Partito la Palissa da Valeggio, vi entrorno le genti de' viniziani e i svizzeri, e passate dipoi il Mincio alloggiorono nel mantovano; ove il marchese, scusandosi per la impotenza sua, concedeva il passo a ciascuno. In queste difficoltà, fu la deliberazione de' capitani, abbandonata del tutto la campagna, attendere alla guardia delle terre piú importanti; sperando, e non senza cagione, che col temporeggiare s'avesse a risolvere tanto numero di svizzeri: perché il pontefice, non manco freddo allo spendere che caldo alla guerra, diffidandosi anche di potere supplire a' pagamenti di numero tanto grande, mandava molto lentamente danari. Però messono in Brescia dumila fanti cento cinquanta lancie e cento uomini d'arme de' fiorentini, in Crema cinquanta lancie e mille fanti, in Bergamo mille fanti e cento uomini d'arme de' fiorentini; il resto dello esercito, nel quale erano settecento lancie dumila fanti franzesi e quattromila tedeschi, si ritirò a Pontevico, sito forte e opportuno a Milano, Cremona, Brescia e Bergamo, dove facilmente speravano potersi sostenere: ma il seguente dí sopravennono lettere e comandamenti di Cesare a' fanti tedeschi che subitamente partissino dagli stipendi del re di Francia; i quali essendo quasi tutti del contado di Tiruolo, né volendo essere contumaci al signore proprio, partirono il dí medesimo. Per la partita de' quali perderono la Palissa e gli altri capitani ogni speranza di potere piú difendere il ducato di Milano: però da Pontevico si ritirorono subito tumultuosamente a Pizzichitone. Per la qual cosa i cremonesi, del tutto abbandonati, si arrenderono all'esercito de' collegati che già s'approssimava, obligandosi a pagare a' svizzeri quarantamila ducati: i quali avendo disputato in cui nome s'avesse a ricevere, sforzandosi i viniziani che fusse loro restituita, fu finalmente ricevuta (ritenendosi perciò la fortezza per i franzesi) in nome della lega, e di Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; per il quale il pontefice e i svizzeri pretendevano che si acquistasse il ducato di Milano. Era venuta, ne' dí medesimi, [in potestà de' collegati] alienata da' franzesi la città di Bergamo, perché avendo la Palissa richiamate le genti che vi erano per unirle all'esercito, entrativi, subito che quelle furno partite, alcuni fuorusciti, furno causa si ribellasse. Da Pizzichitone passò la Palissa il fiume dell'Adda, nel quale luogo si unirono seco le trecento lancie destinate alla difesa di Bologna, le quali crescendo il pericolo aveva richiamate; e sperava quivi potere vietare agli inimici il passo del fiume se fussino sopravenuti i fanti che si era deliberato di soldare: ma questo pensiero appariva, come gli altri, vano perché mancavano i danari da soldargli, non avendo il generale di Normandia pecunia numerata, né modo (essendo in tanti pericoli perduto interamente il credito) a trovarne, come soleva, obligando l'entrate regie in prestanza. Però, poi che vi fu dimorato quattro dí, subito che li inimici si accostorno al fiume tre miglia sotto Pizzichitone, si ritirò a Santo Angelo per andarsene il dí seguente a Pavia. Per la qual cosa, essendo del tutto disperato il potersi difendere il ducato di Milano e già tutto il paese in grandissima sollevazione e tumulti, si partirno da Milano, per salvarsi nel Piemonte, Gianiacopo da Triulzi, il generale di Normandia, Antonio Maria Palavicino, Galeazzo Visconte e molti altri gentiluomini, e tutti gli officiali e ministri del re. E alquanti dí prima, temendo non meno de' popoli che degli inimici, si erano fuggiti i cardinali; con tutto che, piú feroci ne' decreti che nell'altre opere, avessino quasi nel tempo medesimo, come preambolo alla privazione, sospeso il pontefice da tutta l'amministrazione spirituale e temporale della Chiesa. Giovorno questi tumulti alla salute del cardinale de' Medici, riservato dal cielo a grandissima felicità; perché essendo menato in Francia, quando entrava la mattina nella barca al passo del Po che è di contro a Basignano, detto dagli antichi Augusta Bactianorum, levato il romore da certi paesani della villa che si dice la Pieve dal Cairo, de' quali fu capo Rinaldo Zallo, con cui alcuni familiari del cardinale, che vi era alloggiato la notte, si erano convenuti, fu tolto di mano a' soldati franzesi che lo guardavano, che spaventati e timorosi di ogni accidente, sentito il romore, attesono piú a fuggire che a resistere. Ma la Palissa entrato in Pavia deliberava di fermarvisi, e perciò ricercava il Triulzio e il generale di Normandia che v'andassino. Al quale mandato il Triulzio gli dimostrò (cosí gli aveano commesso il generale e gli altri principali) la vanità del suo consiglio: non essere possibile fermare tanta ruina essendo l'esercito senza fanti, non comportare la brevità del tempo di soldarne di nuovo, non si potere piú trarne se non di luoghi molto distanti e con somma difficoltà; e quando questi impedimenti non fussino, mancare i danari da pagargli, la riputazione essere perduta per tutto, gli amici pieni di spavento, i popoli pieni di odio per la licenza usata già tanto tempo immoderatamente da' soldati. Dette queste cose, il Triulzio andò, per dare comodità alle genti di passare il Po, a fare gittare il ponte dove il fiume lontano da Valenza verso Asti piú si ristrigne. Ma già l'esercito de' collegati, a cui si era arrenduta, quando i franzesi si ritirorno da Adda, la città di Lodi con la rocca, si era da Santo Angelo accostato a Pavia; dove subito che giunsono cominciorno i capitani de' viniziani a percuotere con l'artiglierie il castello, e una parte de' svizzeri passò colle barche nel fiume che è congiunto alla città. Ma temendo i franzesi non impedissino il passare il ponte di pietra che è in sul fiume del Tesino, per il quale solo potevano salvarsi, si mossono verso il ponte per uscirsi di Pavia; ma innanzi fusse uscito il retroguardo, nel quale per guardia de' cavalli erano stati messi gli ultimi alcuni fanti tedeschi che non si erano partiti insieme cogli altri, i svizzeri uscendo di verso Portanuova e dal castello già abbandonato andorono combattendo con loro per tutta la lunghezza di Pavia e al ponte, resistendo egregiamente sopra tutti gli altri i fanti tedeschi; ma passando al ponte del Gravalone che era di legname, rotte l'assi per il peso de' cavalli, restorono presi o morti tutti quegli de' franzesi e de' tedeschi che non erano ancora passati. Obligossi Pavia a pagare quantità grande di danari; il medesimo aveva già fatto Milano, componendosi in somma molto maggiore, e facevano, da Brescia e Crema in fuora, tutte l'altre città: gridavasi per tutto il paese il nome dello imperio, lo stato si riceveva e governava in nome della santa lega (cosí concordemente la chiamavano), disponendosi la somma delle cose con l'autorità del cardinale sedunense deputato legato dal pontefice; ma i danari e tutte le taglie si pagavano a' svizzeri, loro erano tutte l'utilità tutti i guadagni. Alla fama delle quali cose commossa tutta la nazione, subito che fu finita la dieta chiamata a Zurich per questo effetto, venne a unirsi cogli altri grandissima quantità. In tanta mutazione delle cose, le città di Piacenza e di Parma si dettono volontariamente al pontefice, il quale pretendeva appartenersegli come membri dell'esarcato di Ravenna. Occuporno i svizzeri Lucarna e i grigioni la Valvoltolina e Chiavenna, luoghi molto opportuni alle cose loro; e Ianus Fregoso condottiere de' viniziani, andato a Genova con cavalli e fanti ottenuti da loro, fu causa che fuggendosene il governatore franzese quella città si ribellasse, ed egli fu creato doge, la quale degnità aveva già avuta... suo padre. Ritornorno, col medesimo impeto della fortuna, al pontefice tutte le terre e le fortezze della Romagna; e accostandosi a Bologna il duca d'Urbino con le genti ecclesiastiche, i Bentivogli privi d'ogni speranza l'abbandonorno: i quali il pontefice asprissimamente perseguitando, interdisse tutti i luoghi che in futuro gli ricettassino. Né dimostrava minore odio contro alla città, sdegnato che dimenticata di tanti benefici si fusse cosí ingratamente ribellata, che alla sua statua fusse stato insultato con molti obbrobri e schernito con infinite contumelie il suo nome; onde non creò loro di nuovo i magistrati né gli ammesse piú in parte alcuna al governo, estorquendo, per mezzo di ministri aspri, danari assai da molti cittadini come aderenti de' Bentivogli: per le quali cose (o vero o falso che fusse) si divulgò, che se i pensieri suoi non fussino stati interrotti dalla morte, avere avuto nell'animo, demolita quella città, trasferire a Cento gli abitatori. "Francesco Guicciardini - Opere - Storia d'Italia", a cura di Emanuella Scarano, Unione Tipografico-Editrice Torinese (U.T.E.T.), Torino, 1981 |
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